• malie plastiche
    • Malie plastiche   (1)
    • di
    • Vitaldo Conte
    •  (Scultura come poesia)
  • Ci sono momenti in cui la bellezza, soprattutto quella femminile, nelle sue forme visibili e nei suoi magnetismi di attrazione invisibile, necessita di un volto o di un corpo per incarnarsi, divenendo “icona/feticcio” da adorare, desiderare, significare, rappresentare, ecc. Infine questa, decantatasi nel tempo dall’essere “doppio” di qualcosa o di qualcuno, può finalmente esprimere la propria essenza “altra”, aldilà del procedimento espressivo usato. Può presentarsi anche come soggetto/oggetto di scultura in un “aspetto”: quello “ritrovato”, che diviene, in un altro tempo, l’enigma e la poesia di una totalità da comprendere.

 

  • La bellezza dell’arte, oltrepassando aspetti, iconografie (di figurazione o astrazione) e il tempo di esistenza, dissemina tracce mai compiutamente leggibili: come la significanza e la malia di uno sguardo o di un sorriso (quello leonardesco di Monna Lisa ne costituisce un illuminante esempio).
  • Una scultura bianca “recuperata” alla vista, dopo secoli di sepoltura e silenzio, può riportare un mondo di memoria e segreto, inspiegabilmente rivitalizzante il nostro stesso presente. Come lo è stato per me la ragazza di Santorini, la statua “riemersa” anni fa, dopo un sonno di venticinque secoli, per riconsegnarsi sorprendentemente intatta ai nostri occhi: con la rifinitura dell’abito non ancora ultimata. Sdraiata su un fianco, con il suo imponente corpo (circa due metri e mezzo), scopre la propria bellezza: la vita stretta, il piccolo e ben delineato seno, le mani affusolate, la bocca enigmatica e i lunghi occhi socchiusi nel proprio sogno, si protendono verso le nostre “letture bianche”. Non a caso l’isola di Santorini è stata messa in relazione con Atlantide, il mitico continente sommerso con il mistero della sua fine e della sua esistenza, con echi interni che continuano a riecheggiare dentro di noi. Questo ritrovamento è stato per me “perturbante”. Mi ha indotto a ideare una mostra sulla “scultura come poesia” di alcuni protagonisti pugliesi, segreti e dimenticati, dell’arte classica italiana del ‘900, dedicandola ai fascinosi sguardi delle loro donne plastiche, che incarnano quelle di un sud archetipico e mediterraneo.  (2)
  • Un invito invisibile a riscoprire il corpo di una bellezza dimenticata può attendere il nostro “ritrovamento” con la sua dote di narrazioni e segreti, attraverso l’ineffabile doppio di una scultura. Se l’arte può essere catarsi per l’anima, è libertà per lo spirito inquieto, “ma è anche simbolo sociale, icona e bandiera di idee e pensieri. Poiché vedere il bello che l’artista sa esprimere è educativo quanto conoscere la realtà. E, con Gombrich, ancora, non possiamo che concludere: “chi osa affermare che la bellezza in sé non possa essere un simbolo adeguato?”.” (A. Carotenuto).
  • La scultura, o meglio tutto ciò che per secoli l’uomo ha connotato con questo termine, è sempre stata, pure nelle sue forme più estreme di astrazione, una sintesi architettonica e di relazione con altri linguaggi. Con la poesia, quando si abbandona ai propri moti interni (quando cioè non è al servizio di istanze celebrative o puramente esteriori). Con la danza, nel saper comunque, aldilà che stazioni statica o che prolunghi la presenza con forme uniche nella continuità dello spazio (opera di Boccioni), comunicare un “movimento” di emozioni e significati, in quanto la scultura è come la danza: “una delle prime e più interne forme espressive con cui l’uomo riesce a dar vita a un simulacro tangibile oltre il visibile di un organismo strutturato e in certo senso vivente” (G. Dorfles).
  • (…) Quanti volti o corpi femminili, “doppiati” in statue, hanno sedotto gli uomini di ogni tempo e i loro creatori con la malia delle loro forme e degli sguardi! Pigmalione ne è il prototipo mitico. Lo scultore greco, innamorato della propria statua così intensamente da impietosire Afrodite (che gli concesse la possibilità di poterla amare come donna di carne), rappresenta un desiderio oscuro dell’essere: quello di “possedere” la creazione inaccessibile, propria o altrui.
  • Le “infinite statue di marmo (Canova, Thorvaldsen) che con il loro candore avrebbero dovuto mimare la vita sull’esempio dei reperti antichi, di fatto” creano “con la rinuncia al colore, una miriade di fantasmi: ce ne fornisce una straordinaria immagine il celebre quadro di Johann Zoffany Charles Towneley nella sua galleria di sculture. Il romanticismo userà la statua bianca, sul modello della statua che interviene a punire Don Giovanni” (A. Castoldi). Questa, nelle molteplici immagini dei suoi autori, “incarna” (in ogni tempo) la perturbante ombra che diviene presenza psichica e oscura nelle sue capacità d’inseguimento invisibile. La statua di pietra, che “si anima” in comportamenti umani, è una icona che ha suggestionato, negli ultimi secoli, poeti, drammaturghi, musicisti, pensatori e cineasti. Il convitato di pietra (sottotitolo del Don Giovanni di Moliere) è per eccellenza un “convito estremo”: la presenza marmorea del convitato ha il potere di trasmutarlo nominalmente tutto in pietra. Don Giovanni ha accettato la sfida: andrà a cena dalla Statua. (…)

  • Scultura nell’Arte Italiana del Novecento
  • La scultura classica italiana del Novecento, soprattutto quella operante nei decenni successivi al secondo dopoguerra, dalla notevolissima qualità complessiva, di cui probabilmente nessun altro paese europeo poteva vantare (nello stesso periodo) una uguale ampiezza di risultati, ha dovuto talvolta fare i conti con i “furori” ideologici e di tendenza di una critica d’arte, che ha privilegiato il linguaggio pittorico, considerato più idoneo per esprimere la modernità dell’arte. Non a caso un protagonista della teoria d’arte del tempo e “formatore” di critica, quale Argan, a cavallo fra i decenni ’60 e ’70, rilevava che la scultura non rappresentava l’oggetto: lo riproduceva in una materia diversa, trasponendolo in una dimensione metafisica attraverso la storia, l’allegoria, il mito. “Perciò Hegel la definiva arte classica, cioè legata ad un ciclo ormai chiuso. Architettura e pittura hanno mutato in senso moderno, tecnico, i loro procedimenti (…) la scultura si è deteriorata perché non ha saputo staccarsi dalla radice classica” (G.C. Argan).
  • I valori analitici e moderni dell’arte, nei decenni ’50 ’60 e ’70, “debordanti” talvolta di ripetitività creativa, hanno preso il sopravvento su quelli “caldi” dell’espressione e dei valori poetici, con numerosi epigoni di buona volontà, incoraggiati da critici e gallerie d’arte: come in tanta “presunta” Arte Programmata e Cinetica o Concettuale (che comunque risultano importanti poetiche dell’arte contemporanea). Mentre rimaneva ancora un giudizio di ostracismo, talvolta ottuso, verso aspetti e autori del Futurismo e del Novecento (si pensi per esempio a Mario Sironi), si celebrava viceversa il “realismo pittorico” espresso da alcuni artisti impegnati in tematiche di retorica sociale e politica.
  • La radice classica non è stata però “sradicata” nell’arte del ‘900 dall’integralismo razionalistico della critica d’arte. Ha continuato a vivere nello stesso corpo delle ricerche che hanno aperto ulteriormente il confine delle arti, nella seconda metà del secolo, sul solco delle “aperture” teorico-creative delle avanguardie storiche (in primo luogo del nostro Futurismo). Negli stessi estremi eventi della Body Art il corpo (che si sostituisce, come mezzo e materiale, alle espressioni della scultura per divenire esso stesso “scultura vivente”) assume posizioni e ritualità che affondano i loro moventi nelle dimensioni del classico. Questo discorso generale sull’arte dei primi decenni del secondo Novecento è “per ricordare” l’ambiente e le condizioni culturali in cui e con cui diversi artisti “non omologati” si sono dovuti confrontare.
  • (…) La figurazione scultorea, fino alla sua “destrutturazione” astratta, un po’ trascurata nei decenni precedenti, sta tornando sempre più frequentemente alla ribalta, negli ultimi anni, con esposizioni e iniziative riguardanti specifiche personalità e panoramiche che attraversano il Novecento. Le generazioni, attive nel primo e nel secondo dopoguerra, si prestano oggi, a una rilettura e a una opportuna rivisitazione che dovrebbero coinvolgere altre poetiche dell’arte italiana: forzature ideologico-culturali e una critica talvolta “omologata” non le hanno saputo o voluto valorizzare. Accanto a un Novecento che si muove ancora sul solco di linguaggi tradizionali e classici c’è, con uguale destino di dimenticanza e di ostracismo, un Novecento italiano “marginale” e “impegnato”, che, dagli inizi del secolo a oggi, ha attraversato a latere l’arte ufficiale.

  • NOTE:
  • 1) Il testo è tratto da Antico Futuro di Vitaldo Conte / Dalmazio Frau / Emanuele Ricucci, Ed. Solfanelli, Chieti 2018.)
  • 2) Malìe plastiche (scultura come poesia), a cura di V. Conte: Museo Civico, Foggia, 2002; Castello Carlo V, Lecce, 2002. Gli scultori presentati in questa esposizione itinerante sono: Pino Conte (1915-1997), Antonio Di Pillo (1909-1991), Gaetano Martinez (1892-1951). Catalogo: Leone Ed., Foggia 2002.