Centro Studi Heliopolis - Associazione No Profit

Centro Studi Heliopolis - Associazione No Profit

Menu
  • Home
  • Chi siamo
      • l'amministratore
  • Rivista Heliopolis
  • Rubriche Editoriali
  • Notizie
  • Contatti

Rivista Online Heliopolis

rivista online hp 2021 2

Rubriche Editoriali

rubrica editoriale

  • ALLA  C.P.I.  MANCA L’ISPETTORE GINKO
  • di
  • Teodoro Klitsche de  la Grange
  • La notizia che la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti di Putin non è inaspettata: è un altro tassello della tendenza, tutta moderna (ma non solo) a confondere la politica con il diritto, e segue l’altra simile, di confonderla con la morale.
  • ...
  • Altri exploits del genere, come quando anni orsono, alla Corte erano intenzionati a procedere nei confronti dei funzionari USA per gli abusi sui detenuti a Guantanamo, furono respinti dall’allora amministrazione USA come pericolosi e irresponsabili. Ci sarebbe tanto da scrivere su quella confusione, sulla funzione della politica e sul carattere del “trasgressore”, il quale in politica è il nemico, nel diritto penale il reo. Mi limito ad alcune breve considerazioni.
  • ...
  • La C.P.I. nacque, per così dire, zoppa: ad onta delle grandi manifestazioni di giubilo che ebbe in Italia quando fu istituita, si capiva che non avrebbe avuto vita e azione facile dal fatto che tutti gli Stati che avevano maggiori possibilità di trasgredire la normativa applicanda, si erano ben guardati dal ratificarne il trattato istitutivo: Russia, USA, Cina, Turchia, India, molti paesi arabi ed Israele. Oltretutto il fatto che la C.P.I. fosse competente a giudicare del “crimine di aggressione” giovava a tenerne lontani tutti gli Stati che avevano intenzione non solo di farla, ma anche di essere coinvolti in una guerra (v. sopra), anche se (talvolta) non aggressori.
  • ...
  • In secondo luogo: la C.P.I. non ha una forza pubblica che ne esegua le decisioni, attività rimessa alla cooperazione degli Stati. Ovviamente poco intenzionati a farlo ove a subirle fossero politici e funzionari degli stessi. Da qualche secolo il carattere distintivo (e intrinseco) del diritto è di essere applicato con la coazione. Come scriveva Kant “al diritto è immediatamente connesso, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” per cui “Diritto e facoltà di costringere, significa dunque, una cosa sola”. Lo Stato moderno, che ha rivendicato a se il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) è l’istituzione che ha assunto la funzione di applicare il diritto esercitando il monopolio della coazione. Ma se, come nel caso delle decisioni della C.P.I., per essere eseguite sono rimesse al bon plaisir degli Stati, il problema reale è quello di convincerli o costringerli a farlo. Col che il tema della forza, apparentemente uscito dalla porta, rientra dalla finestra. E in effetti i casi di applicazione di indagini e decisioni della C.P.I. concernono ex governanti di Stati falliti o convinti, magari con qualche previo bombardamento di persuasione, a farlo.
  • ...
  • Così come avvenuto per il processo di Slobodan Milosevic (e altri) dell’analogo (alla C.P.I.) Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma, data l’altissima improbabilità che la decisione venga eseguita, quali effetti può avere? Quelli più facilmente prevedibili e di contribuire col timbro della C.P.I. alla criminalizzazione di Putin, cioè del nemico, e, quindi forse, a rinfocolare il sentimento d’ostilità – per la verità non imponente – dei popoli della “coalizione anti-russa” nei confronti dell’arcidiavolo del Cremlino.   L’altro, connesso, è che criminalizzare il nemico, se può soddisfare la vittima ha in genere l’effetto di intensificare e prolungare la guerra. E qua passiamo ai caratteri distintivi tra “politico” e “diritto” e alle regole che derivano dalle differenze.
  • ...
  • La prima delle quali è che, come scriveva Hegel, “non c’è il Pretore tra gli Stati”; non essendoci un’istituzione terza (il “Pretore”) in grado di costringere i belligeranti, l’unica possibilità è che un terzo/i volenteroso/i e soprattutto equidistante/i, si offra di arbitrare il conflitto, anche prospettando sanzioni in caso negativo o benefici in quello positivo. Ma questo terzo/i è in genere un altro Stato: e nel caso che tutti gli Stati che finora hanno manifestato (o realizzato) di voler mediare (la Cina) o raffreddare le ostilità (come la Turchia per le esportazioni di cereali) sono Stati che, avuto riguardo (soprattutto) al loro interesse sono, intervenuti in tal senso. Cioè a mediare: non Tribunali istituiti per condannare
  • ...
  • La seconda è che il nemico in politica non è un criminale: e tale distinzione (già nel Digesto) non è dovuta tanto ad un disprezzo per regole, leggi, norme, quanto alla considerazione realistica che, essendo l’ostilità e i conflitti coessenziali alla politica, il nemico non è solo colui con cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si tratta la pace. A meno di non volerne la distruzione totale, come entità politica se non fisica; come nel caso di resa incondizionata e successivo processo quale criminale di guerra. Ma una tale prospettiva è tutt’altro che incentivante la pace. Un bel processo e un’esemplare condanna, sono poca cosa rispetto ai tanti danni che proseguire un conflitto provoca. Un morto in più, prima della guerra, come detto da millenni da Plotino (il “visir” di Tolomeo perorante l’uccisione di Pompeo) fino ad un ex Presidente del Consiglio italiano qualche giorno fa, può evitarne anche decine di migliaia, se eseguito prima o durante la guerra. Ma nessuno, a guerra conclusa.

  • I cani del tempo

  • I cani del tempo
  • Icone della pazienza
  • di 
  • Andrea Tagliapietra
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • La società post-moderna è centrata sul primato dell’impazienza. Tale modo di essere permea le nostre vite. Per dirla con le parole di Andrea Tagliapietra, filosofo teoretico impegnato nella definizione di un modo di esperire l’esistenza che si ponga oltre i dualismi metafisici, essa: «può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva» (p. 7). La citazione è tratta dalla sua ultima opera, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, nelle librerie per Donzelli editore (pp. 191, euro 34,00).   Libro davvero importante, nelle cui pagine la ricerca filosofica è strettamente intrecciata con l’esegesi della produzione pittorica che, nel corso del tempo, ha fatto oggetto di rappresentazione l’animale domestico per eccellenza, il cane, simbolo della virtù della pazienza. Il volume è cruciale soprattutto per chi, come lo scrivente, sia convinto che l’orizzonte dischiuso dalla physis, possa rappresentare l’unica trascendenza cui guardare e in cui tutto è incluso.
  • ...
  • Un testo, quello di Tagliapietra, non di mera erudizione accademica ma aperto, con decisione, alla critica del presente. Il pensiero critico: «non può rinunciare a essere anche una critica radicale della forma assunta oggi dall’esperienza soggettiva […] dal momento che essa viene intesa come una figura storica epocale» (p. 7).  Siamo tutti perpetuamente proiettati, sia pur ormai in forma secolare e “spettacolare” sul futuro. Solo la virtù opposta al tratto costituivo del presente, la pazienza, può richiamarci: «a una dimensione essenziale del nostro essere […] del nostro corpo come dell’ambiente naturale che ci circonda» (p. 8).   Tale dimensione altro non è se non il tempo della vita, del corpo e dell’attenzione nei confronti di ciò che è. Ben lo sapevano i Greci, soprattutto Eraclito, che il corpo presenta una trasparenza silenziosa, che si vela nel momento in cui si cerchi di illuminarla, di porla sotto i riflettori della conoscenza logistica. Il lògos aurorale ellenico non conosceva distinzione di anima e corpo né, tantomeno, quella uomo-animali-enti di natura. Solo nella rappresentazione animale, oltre l’antropocentrismo, torna a mostrarsi la vita nuda.   Tagliapietra presenta, pertanto, un percorso ideografico nel quale la teoresi abbraccia la storia delle idee, ponendoci al cospetto delle icone del pensiero: «che esplorano la metafora animale in prossimità con l’essere umano» (p. 9).
  • ...
  • L’ideografia mette in scena la prossimità delle diverse forme viventi, alla luce del “limite” che le connota, nella consapevolezza della loro vulnerabilità, che gli permette di assumere il volto della pazienza.  Nella pittura europea il cane, generalmente, appare quale “dettaglio”, ai margini del soggetto principale della rappresentazione.  Tagliapietra dimostra come le figurazioni pittoriche dell’“amico dell’uomo”, altro non siano che simboli del tempo.  Mentre, stante la lezione di Agostino, il concetto e l’idea non riescono a “definire” la temporalità, essa prende corpo e consistenza nell’icona.   In ogni caso, anche per il filosofo d’Ippona, il luogo della “misurabilità” del tempo, è l’anima: «L’anima c’è in tutto ciò che vive, eppure il suo essere è impossibile da dire» (p. 11). Di essa, ne ebbe contezza Klages: «può darsi un’immagine» (p. 11). Questa è atta a ospitare l’erranza della verità, la sua “catastrofe” logica.   Tali icone presentano esemplarmente la coincidentia oppositorum: «le immagini pensano senza parole, attirano coloro che le guardano in un’attesa silenziosa carica di pensieri, ci invitano alla pazienza di vederle più da vicino» (p. 13). Simmel aveva intuito che il ritratto era atto a ripristinare l’unità antropologica di interiorità e esteriorità, di anima e corpo, in quanto: «l’artista […] mostra l’anima come qualcosa di visibile» (p. 15). Nonostante ciò, egli rimase prigioniero della visione antropocentrica e metafisica, non riconoscendo l’anima: «in quella visibilità metamorfica della vita […] ma nell’espressione dell’individualità umana» (p. 15).
  • ...
  • Lo scarto ontologico tra uomini e altri esseri viventi, di fatto, non è mai venuto meno nel pensiero europeo (in tal senso eccezioni possono essere rappresentate da Fechner, Bruno e Derrida, i quali leggono gli enti quali manifestazioni sempre all’opera della dynamis).   Il paradigma iconico da cui prendono avvio le pagine di Tagliapietra è dato dal dipinto, Due cani da caccia legati a un ceppo (1548-50) di Jacopo da Bassano.   In questa pittura ciò che si coglie del soggetto: «è la sua passività […] la sua temporalizzazione» (p. 17).   In siffatto contesto, l’anima indica il patire, che indica, in uno, soffrire, certo, ma anche vivere di passione, situazioni esistenziali proprie di tutto ciò che è soggetto al tempo. Nel dipinto è in gioco la singolarità, ciò che Andrea Emo, con linguaggio attualistico, definì la presenza, ciò che rende unico e insostituibile ogni essere vivente: «il tempo si concentra senza passare, si deposita nella splendida icona del corpo animale, nella sua durata, senza tradursi nell’intenzionalità e dispersiva cinetica dello spazio» (p. 25).   È un tempo che si addensa quello cui i cani della pittura alludono. Nell’assecondare tale intuizione, l’autore compie l’analisi di alcune opere di Dürer, attraverso le quali si sofferma sulla focalizzazione di tre “figure”, nelle quali la durata può darsi: la noia intesa come accidia, la pazienza e l’attenzione. Tagliapietra prosegue con la presentazione del fondamento della pazienza, soffermandosi sulle modalità, attraverso le quali, esso si manifesta nelle opere di Goya, Carpaccio e Turner.
  • ...
  • Al centro del terzo capitolo sta la figura paradigmatica di Argo, cane di Ulisse, simbolo della scuola cinica. In essa, il cane era assunto: «come modello di vita anarchica» (p. 26). L’ermeneutica dei dipinti di Jean-Léon Gérôme permette, di contro, l’approfondimento della nozione di pazienza anestetica, cui mirarono i saggi dell’antichità. Tagliapietra discute, inoltre, le figure bibliche di Tobia e Lazzaro e della loro presenza nei dipinti di Leonardo, Tiziano, Rembrandt e del Verrocchio. La pazienza, rappresentata in tali pitture, ha il tratto dell’inquietudo: essa sorge di fronte al dolore e alla sofferenza altrui: «É una pazienza che […] mantiene intatta, nella vigilanza dell’attenzione e nella quotidianità della cura, la sua originaria carica messianica» (p. 27).   Infine, vengono presentati esempi di pitture dell’800 e del ‘900. Si tratta di opere di Bacon, Marc, Lautrec, in cui i cani, icone del tempo, ci conducono alle soglie della pazienza antitetica al lavorismo della mobilitazione totale contemporanea: «Si tratta della pazienza come stato di attenzione senza finalità né oggetto, ovvero la disposizione di chi si abbandona all’immanenza e alla pura durata» (p. 27).
  • ...
  • Questa pazienza è extrasoggettiva. A essa pervenne Heidegger sulla scorta di Eckhart, riproponendo la dimensione della Gelassenheit, di “abbandono”. Uno stato di attenzione senza finalità né oggetto, presente nel dipinto di Franz Marc, Cane di fronte al mondo del 1912. Per Marc: «i dipinti di animali non erano paesaggi naturalistici, né ritratti, ma piuttosto icone cromatiche dell’armonia silenziosa della natura e della sua serena durata» (p. 171). All’eterna metamorfosi della physis bisogna tornare a guardare, oltre i drammi della storia, al fine di liberarci dell’impazienza contemporanea.

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE Campi

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE
  • Per una critica del sovranismo
  • di
  • Alessandro Campi
  • (Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange


  • Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.
  • ...
  • Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.
  • ...
  • Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti - modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.
  • ...
  • Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.
  • ...
  • Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.
  • ...
  • Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso,
  • ...
  • Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che dà ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite.
  • ...
  • Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.

Le "Istallazioni creative", heliopolis design, di Sandro Giovannini

  • 1 Istall. Creat. Pesaro 1 insieme
    "ISTALLAZIONI  CREATIVE".   Nel n°43 di “Letteratura-Tradizione”, del 2009, nella forma “a libro”, ultimo numero delle tre serie della rivista, uscì nella sezione finale a colori (pag. 219-221) un mio resoconto di tutto il percorso che mi aveva portato dalla metà degli anni ’60, attraverso tutti gli esperimenti d’incrocio tra immagine e parola, a giungere alla fine degli anni ’90 a studiare e realizzare per la heliopolis design, dei complessi manufatti parietali per interni ed esterni, equilibrati tra proposta artistica ed indicazione arredativa. Non quindi delle sculture, che, nel mio caso, rispondono, anche ora, ad un più stretto e del tutto personale criterio creativo, ma una forma  imprevedibilmente capace di suggestioni diverse, e rivolta primariamente all’interno od all’esterno della dimensioni architettonica, con una valenza ricercata e perseguita per far star meglio persone e cose, consapevolmente e diversamente da ciò che la cosiddetta opera d’arte ambisce più o meno sempre, a ragione od a torto, come statuto e rango. Qualcosa quindi di volutamente “inferiore” ma al fruttuoso incrocio - sempre più doverosamente esplorabile - tra maestria e maestranza. Non una cosa nuova, se vogliamo essere sinceri, perché nuova non può essere e non vuole neanche sembrare quando ogni ideuccia variativa, diciamo ogni “modello di utilità” (per esser chiarissimi) già se ne arroga la qualità, quanto ancora del tutto spiazzante proprio perché assembla più spazi significanti nello stravolgimento dei protocolli dell’artistismo e del deviazionismo creativo. Incredibilmente quelle 3 pagine diedero motivo (allora) ad un famoso critico artistico - non so come miracolosamente colpito da un semplice e forse velleitario accrocchio di 4 foto, neanche riuscitissime - ad invitarmi più che generosamente ad esporre a Palazzo Venezia, tale modulo espressivo. Dopo difficile valutazione, decisi, credo responsabilmente, di non farlo, perché avrei dovuto deviare all’improvviso da tutta la mia vita di ricerca ed espressione, che aveva ancora una precisa connotazione comunitaria, a qualcosa di inevitabilmente diverso, marcato da una singolarità stravolgente. Dovendo concentrarmi per anni, necessariamente, senza poi nessuna garanzia di sequela vera, su una cosa sola, mentre ho sempre privilegiato farne molte e diverse, contemporaneamente. Da qualche tempo, però, si è rideterminata verso questa nostra idea di allora - evidentemente a suo tempo anzitempo - un interesse che potremmo definire maturo e più comprensivo della valenza ricca e non solo assemblante, forse intelligente e non solo furba, comunque coinvolgente e non solo a parole nell’ormai abusato ricorso allo slogan olistico ed interattivo... Chi frequenta infatti, ora, i più importanti siti ove si determinano concetti abitativi e fatturati rilevanti si rende conto - persino contro ogni sua legittima od ingenua aspettativa - della discrasia lampante tra lo scontato minimalismo arredativo per interni imposto disfunzionalmente e proposte architetturali a volte persino affascinanti e/o geniali. Con riflessioni conseguentemente e dolorosamente scontate sugli esiti diffusamente infausti di ideologie e didattiche ormai dominanti.
  •  
  •  1 Istall. Creat. Milano 1 vista complessiva vicina

  • “Istallazioni creative”
  • (Heliopolis, 1985-2023)
  •  
  • L’idea si é concretata in medie e grandi realizzazioni parietali, per interni ed esterni, che hanno convogliato molte delle nostre precedenti esperienze con e su materiali più diversi tramite tecniche specifiche per cuoio, pergamena, stoffa, carta pregiata, legno, radica, oro, argento, rame, piombo, plexiglass, marmo, resina, terracotta, microcemento, encausto, mosaico, serigrafia, digitale, scrittura manuale, incisioni e/o traforazioni laser, tramite metodologie ispirate all’antico e trattate modernamente.
  • ...
  • Ora, mélange e sovrapposizione di tecniche miste e citazionismo, ricavando il maggior vantaggio da una visione urfuturista, (consapevolmente, da noi solo evocata), ove tutti i lasciti del secolo mai esaurito entro l’eterna guerra civile europea, vissuti tramite una lettura conciliativa e giustapposta di ragioni spirituali e sentimenti materiali, ricerca ancora, seppur disperatamente, una sua armonica potenzialità espressiva. Queste “istallazioni” non richiedono astrusi strumenti decodificativi e non ammiccano inutilmente a potenzialità indimostrate od indimostrabili. Sono alla portata di molti, ovviamente ai relativi livelli, proprio perché già comprendono in sé elementi storicizzati seppur complessi, classici, moderni, comunque resi contemporanei. E sperabilmente espressivi. Il complesso non può e non deve prospettarsi nuovo, ma considerando lucidamente, oggi, le logiche della “catastrofe simbolica” di tanta teoria a riguardo del mercato automatico attuale e delle relative superfetazioni artistiche del mito del “marchio/marchiatura”, dispiegato ormai senza tregua, risulta ancora del tutto spiazzante, soprattutto per ricomposizione difficile tra mastro e maestro, in controtendenza assoluta con il superego narcisista del mito fasullo del “creativo”.
  • La problematicità, quindi, non è tanto o solo nell’essere fuori dal prevedibile schema dell’opera troppo individualizzata nelle sue varie declinazioni, quanto nell’idea/incrocio di varie logiche espressive, che è anche risultato di un percorso che vocazionalmente ha incluso molte esperienze da noi fatte nei decenni tramite il comunitarismo creativo, ovvero una sorta di lunga stagione poetica, critica e metapolitica operata comunque con un senso più ampio di quello dell’artista singolo, non per difetto d’individualità o per vezzo modaiolo, ma per rifiuto dell’artistismo e del maledettismo, persino oltre la solita nozione di “gruppo” artistico, in quanto tentata su vari livelli (poetico, letterario, artistico, metapolitico, saggistico, editoriale, organizzativo...). Esperienza maturata poi anche in validi percorsi individuali. La tecnica applicata quindi del montaggio e dello smontaggio - interpretata qui esteticamente più che meccanicamente, può raggiungere una sua risultante pratica. Tramite diversi moduli artistici, l’intercambiabilità, concetto/chiave, infatti, non permette solo cambi e sovrapposizioni (=di scenario espressivo) ma anche eventuali sostituzioni nel tempo. Cosa che, in più, lega il destinatario con un rapporto di maggiore durabilità. Con diversi stili applicabili per una risultante figurativa, evocativa, storica, letteraria, sempre facilmente riconoscibile. Anche con specifici “lacerti artistici inclusi”. Nello specifico delle “istallazioni creative”, il risultato, poi, non va letto come “prendere o lasciare”, isolato dalle sia pur minime potenzialità condivisibili della committenza, ma come valore realmente interagente con la fruizione e la committenza stesse. Non solo a parole, non solo con la parola, ma nel manufatto. Con il coinvolgimento diretto di una “presenza” precisa - sia pur necessariamente trasfigurata - della committenza e della fruizione contestuale, tramite due apparati specifici, diversamente mandati ad effetto, e sempre presenti. Un’immagine della committenza, familiare e/o evocativa/interna, su intesa con i produttori (a vario titolo) ed una specularità, operabile di volta in volta, che rende immediatamente percepibile la fruizione, riflettendo (oltreché, ovviamente, inglobando).
  • 6 Istall. Creat. Milano 3

  • Nelle “istallazioni creative”, a differenza decisiva rispetto a tutte le altre produzioni paraeditoriali Heliopolis, però, dobbiamo sottolineare che, tali manufatti replicabili in base allo stile scelto di volta in volta a seconda della ragione contestuale, ambiscono avere un livello eminentemente arredativo e scenografico, pur con una indubbia pregnanza artistica dovuta agli inserti con maggiore o minore caratura creativa, di volta in volta inseriti. Questa potrebbe apparire una capitis deminutio, ma è una piccola voragine su mondi lontanissimi.
  • La complessiva “scrittura esterna” (1) della ragione e del sentimento del nostro tempo, ha quindi una valenza di sommatoria epocale e di tentato recupero terminale, che non può essere disconosciuta facilmente, se non a prezzo di un rifiuto aprioristico al confronto dialogico tra norma e scarto, confronto ormai ampiamente storicizzato. (2) Gettati nel tempo e condizionati dal clinamen. Ma con una realizzazione identica a sé. (3) Al proprio stile. (4) L’evocazione riconosciuta che diviene espressa ricerca dell’identità simbolica (5) tramite una rappresentazione scenografica di volta in volta messa in atto, tra essere e sapere, (6) ove la comprensione dei produttori, dei committenti e dei fruitori, tre assoluti comprimari pur con ruoli ben differenziati, diviene il punto centrale di mediazione, punto focale, in quanto normale, (7) in quanto comprensibile, in quanto vis(v)ibile... Quindi non “trovare un nome”, non “dare una definizione”, formule d’accatto, buone per ogni vera o finta furbizia o costruita ignoranza, (8) ma aiutare a saper vedere, saper comprendere... comprendendo noi per primi tutto ciò che ci è suggerito dal passato, la tradizione del colore (espanso) e della sua effettività identitaria e trainante, così antico-occidentale come estremo-orientale, riscontrabile ora, possibilmente senza esclusioni o false primazie, nel presente e nel futuro delle neuroscienze.
  • ...
  • Infine accompagnando per mano il committente in un percorso che gli verrà fornito - con un supporto “critico specifico” scritto e/o multimediale - affinché non sia lasciato eventualmente in un debito di conoscenza verso ospiti amici e conoscenti vari che dovessero vedere il manufatto, magari compiacendosene, senza però aver (di fronte) alcun strumento di riferimento preciso. Infatti abbiamo già inteso, in passato e con sorpresa, a solo esempio dalla gioiellistica, il silenzio ottuso sulla parola... che andasse appena oltre qualche nota di garanzia o di servizio. Anche come prova di un percorso creativo non di “interiorizzazione di ritorno”, di “ritenzione secondaria o terziaria”, più o meno obbligata, ma di messa al centro delle esigenze più profonde (in una sorta di sobria maieutica) e magari per nulla o poco affiorate del committente medesimo. L’imposizione autoriale, comunque ineliminabile, almeno si sublimerebbe in tal modo lungo una prova possibilmente non autoritaria ma autorevole, non lineare ma ritornante - potremmo azzardare - ciclica.
  • ...
  • Quindi istallazioni oltre la supponente od eterodiretta indisponibilità, ma che favoriscano interrogazioni, approfondimenti, suggestioni di ricerca.
     1 Istall. Creat. Venezia 1 particolare parete destra

  • Note.:
  • 1) Manifesto della scrittura esterna. Il Manifesto della scrittura esterna fu pensato dagli amici e collaboratori che gravitavano già dalla fine degli anni ottanta intorno all’Heliopolis Edizioni (1985-...) ed allo scriptorium heliopolis, emanazione della prima e realizzato da artisti ed antichisti di fama (da cui anche il possibile titolo di “nuova epigrafia”). Intendeva proporre l’affiancamento alla normale “scrittura interna” tramite una scrittura proiettata verso l’esterno, verso gli spazi del pubblico, non in un modo solo funzionale, ma fortemente identitario, partecipativo verso la comunità, utile per il commerciale e la comunicazione, in tutte le sue forme, oltre ogni livello precedentemente raggiunto (se non, meravigliosamente, nell’antico). Trovava in più in molte epoche e stili diversi una corrispondenza non solo formale o di compiaciuto e rettorico stilema, ma di profonda necessità e quindi d’intima sostanza. Il manifesto non rimase solo un’enunciazione teorica. Fu base logica e programmatica di un fare che si estrinsecò (e si manifesta tuttora) in molte realizzazioni, alcune ben riuscite anche commercialmente (esempio il caso eclatante delle magliette letterarie dell’Heliopolis, 1988-1995, prime in tutta Italia) dell’editoriale e del paraeditoriale, dell’alta moda, della gioiellistica, dell’arredamento, della musealistica, del supporto ad istituti di antichistica, del promozionale, marcando uno stile non confondibile.
  • 2) In: Sandro Giovannini, ‘Stile tra norma e scarto’, da L’Armonioso fine, 2005, SEB, pag. 56-57, ove vengono affrontati e discussi alcuni passaggi logici di riferimento, tratti da scritti critici al riguardo, di Richards, Barberi Squarotti, Brioschi, Di Girolamo, ed altri...
  • 3) “...Lo stile non esiste antecedentemente, non si rinviene per strada, è al di là di ogni categoria spaziale e temporale, è nel regno del prepensiero, ma anche nella democrazia del fatto, esiste in sé ed in sé si mostra, quale prova che va salvaguardata dal pensiero filosofico/categoriale, logico ed anche irrazionale...”. in: S. G., ‘Operari sequitur esse’, da L’armonioso...,cit., pag.12. Questa citazione, che sembrerebbe poter aver senso solo in un milieu filosofico, aiuta invece a giustificare l’effettiva realizzabilità del:“...sempre facilmente riconoscibile”, di cui sopra.
  • 4) “...In questo senso ha valore l’indicazione, spogliata giustamente d’enfasi, del sincretismo, non come momento magmatico ma di sottolineatura, ecumenicità, stile...”, in: Agostino Forte, dal “Commento”, 30.08.1994, al testo del manifesto della scrittura esterna e dello scriptorium heliopolis. Il sincretismo quindi, non in una valenza new age che confonde tutto, quanto nel senso delle lezioni di uno Zolla ed altri studiosi comparativisti del sacro dell’etnografia e della religione, per utopie di sintesi necessarie più che per prese d’atto d’ibridismi subiti. Questo “stile” - solo nel caso specifico delle “istallazioni creative” - resta riconoscibile anche per il metodo proposto come ricercatamente interattivo con la più diversa committenza, soprattutto per i due strumenti sempre - difformemente - presenti nel manufatto.
  • 5) L’evocazione dell’identità simbolica è un processo che l’Heliopolis ha messo in conto, negli anni, anche con il progetto telematico ELOGICON (2015-) In tale direzione si deve comunque trovare un punto d’incontro tra la capacità di riconoscimento che pertiene all’Heliopolis design e la vera e propria identità simbolica del committente. Consapevole od inconsapevole. Tra mille esempi possibili, la ricerca filosofica del “valore spirito” di Valery o dello svelamento della voragine del “formicaio digitale”, entro la “società’ automatica” di uno Stiegler, ovvero la ricerca sulla “miseria simbolica”. Per trovare tra le forze contrapposte (come nell’arco romano), il punto di svolta (far cadere=rivoluzionare) o chiave di volta (stabilizzare=conservare) come precisa risposta del (e nel) manufatto. Progetto non facile e mai scontato, di cui la maieutica è metodo. Un costruire lungo un’idea collaborativa effettiva e non di facciata. Non per slogan o solo a parola, ridotti alla differenza (spesso troppo evidente) tra dichiarato e realizzato, pressati dal funzionalismo delle pratiche.
  • 6) P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio Ubaldini, 1976.
  • 7) “...Così il richiamo costante alla normalità, che rischia di divenire un’invocazione suggestionante alla normalizzazione, non può non trascurare (a pena d’inversione totale), avendo origine dai terreni del positivismo logico e del materialismo dialettico, la teoria della normalità geniale (la normalità guidata identitariamente dai propri geni e cromosomi) ovvero dell’usualità producente, ovvero della sobrietà creativa, che sono tutte misure che appartengono invece (o dovrebbero appartenere...) per statuto alla migliore cultura tradizionale, nata comunque dentro e contro la modernità, se pur nutritasi di altri lieviti (non solo storici, non solo scientifici, non solo emozionali) e che del processo della modernità è, volta a volta, controcanto, parodia, negazione, inveramento, cioè tutto ed il contrario di tutto, ma non solo per una forma d’inessenzialismo soteriologico, di dualismo gnostico, di relativismo metalogico, ma soprattutto per la propria necessitata alterità, per il proprio insopprimibile fondamento reattivo, per la propria autentica vocazione d’attenzione al moderno, persino quando in chiave antimoderna. Per l’autoeducazione al rapporto essenza/personalità, volto/maschera. Ad esempio, vorremmo sapere chi più di Benn, secondo ogni nihilismo possibile ed impossibile, nella letteratura moderna, ha colto la ‘doppia vita’, costante volto di maschere mutevoli, o chi più di Pound ha dettato un latino dello spirito, o chi più di Gurdjieff, ha rilevato l’automatismo dell’apparente sola personalità, o chi più di Jünger ha sferrato un potente assalto all’unidimensionalità anche per stile espressivo/registrativo, o chi più di Evola ha combattuto contro il demone del rapporto tempo-atemporalità, epoca-ciclo o chi più di Mishima ha esemplificato, ancora, la ‘doppia vita’ della spada e delle lettere. Questi lasciti, al di là delle stesse personalità autoriali, e delle specifiche contestualità di riferimento, di volta in volta ben discutibili, e quindi valutate come icone d’orientamento e non solo come miti catafratti, sono complessivamente il nostro ‘vincetossico’ alla normalizzazione, allo snobismo come al populismo; in pratica sono sistemi di segni d’orientamento poco fallibili, che, a noi, infelici e carenti di una visione perfetta, segnalano i confini di un percorso, e che ci impediscono comunque di deragliare...”, in: S. G., ‘Semplificazione, atto rivoluzionario’, da L’Armonioso fine, cit., pag. 84-85.
  • 8) AA.VV., “Letteratura - Tardocronache dalla Suburra”, n.° 2; 1985, Heliopolis Edizioni, ove si affronta validamente il tema della “creatività diffusa”, o della “creatività surrogatoria”, pag. 40-45: Marcello Veneziani, Creatività tra libertà e trasgressione: “...La più autentica realizzazione della creatività non è data dall’affermazione della soggettività, ma al contrario la realizzazione creativa è l’affermazione di una superiore impersonalità, è l’espressione dell’oggettività”. Vedi anche, a riguardo di “trovare un nome” o “vera e finta ignoranza”, la presa d’atto di un coraggioso: ...abbiamo «...coniato un’intraprendente ondata di nuovi ossimori per sospendere le vecchie incompatibilità: life/style, reality/Tv, word/music, museum/store, food/court, health/care, waiting/lounge. Il nominare ha preso il posto della lotta di classe, amalgama sonoro di status high concept e storia. Attraverso acronimi, importazioni inusuali, soppressioni di lettere, invenzione di plurali inesistenti, lo scopo è liberarsi del significato in cambio di una nuova spaziosità… il Junkspace conosce tutte le tue emozioni, i tuoi desideri. E’ l’interno del ventre del Grande Fratello. Anticipa le sensazioni della gente…». Citazione da: Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, 2006, pag.84, in: Sandro Giovannini, “A proposito di Rem Koolhaas”, su   www.heliopolisedizioni.com
  • 2 Istall. Creat. Montefiore 1 B

  • I riferimenti logici riportati nelle note sono ora tutti leggibili nel sito ufficiale della Heliopolis Edizioni e della, ivi inclusa, “rivista online heliopolis”: www.heliopolisedizioni.com

Il Cavallo del Fato

 

 

Scultura:

"IL CAVALLO DEL FATO"


1 Cavallo del Fato fianco 1

"IL CAVALLO DEL FATO", Scultura di  Sandro Giovannini,   2017
(alt. 3 mt., lungh. 2,50, largh. 1, materiali vari)

 

  •  I 
  • Memoria

La scultura nasce come una sfida ideale al tempo attuale e riporta una passione ed una cura priva di orpelli, essenziale, significativa. Non è solo un rischioso tentativo di ripercorrere con un passo lento e progressivo un mito antico che è andato consumandosi nei secoli quanto una prova che un uomo costantemente può compiere per riprendere il discorso dell’origine, sempre possibile.  (1)

L’incudine ed il martello sono la stessa materia umana sottoposta alla legge entropica che prima dà e poi toglie e poi ridà ancora, senza alcuna pietà, nel primo senso e nel secondo. La pietas invece è tutta nella ricostruzione che un uomo compie, accanto al suo totem, reggendolo per le redini, alleato di spazi e conquiste da tempo immemorabile, come astro di riferimento tra alcuni altri, in una ferma costellazione teologica, sapendo che può perderlo e perdersi con esso. Il cavallo, “scuotitore della terra” (enosichthon), catafratto, dedicato, sacrificabile. Il racconto dice infatti del cavallo come inganno per conquistare Ilio, ma noi sappiamo bene, dagli scavi nel sito di Troia, non risultare affatto un insediamento acheo nella città. (2) Quindi l’inganno che fonda il mito potrebbe rivelarsi duplice; il cavallo simbolo del terremoto, innegabile travaglio di un sommovimento comunque avvenuto, sacro a Poseidone, ma gestito dalla potenza astuta ed atroce di Atena, prima come Palladion teucro,  poi come Vittoria romana, (3) valido a fondare forse una falsa sconfitta dalla quale promana una certa vittoria, anch’essa senza tempo. E’ l’antica storia dell’incudine e del martello, ove l’uomo, il fabbro, l’artefice, l’ingannatore, il distruttore, infine il fondatore e il pio, riesce, assieme al suo antenato, a caricarsi addosso la sua colpa, la sua paura ed il suo coraggio, tutti inevitabili al destino ed affrontabili nella vacuità.   (4)

 

 

  • II
  • Confronto

Confronto sui materiali. Il legno innanzitutto, scarto delle navi e dei tanti apprestamenti, ora scarto di produzione nell’immane mercato in cui siamo immersi tutti e dell’altro legno, invece, molto prezioso, a tasselli di mosaico radicali e profumati, lavorati uno per uno. E poi il piombo greve della condotta sotterranea e della lotta di fronte, usbergo di ogni scontro a viso aperto, richiamo al duplice materiale tossico dell’esistenza ma anche immune alla corrosione, dialettico come sconfitta e riscatto. La pesanteur come dimensione, inevitabile, di fondo. La commistione dei materiali e delle forme attira il già detto della “scrittura esterna”, (5)  con un’approssimazione al rispecchiamento dello spettatore nella torre merlata e nell’antico muro di truia, che avviene al punto più alto della rappresentazione umana e dell’utopia, con l’iscrizione della profezia di Enea, che instaura la nostra vera storia e che rimanda, nel suo rito lustrale e fondatore, al tanto giovane perdurante ed attestato lusus troiae, (6) labirintico parto della memoria ancestrale. (7) Ma su tutto dominano le dee, ambedue già consumate da secoli e sempre in complessa diatriba tra racconto letterario e mito, già copie di copie, la Minerva Tritonia del sacello di Enea a Lavinio e quella romana dell’Altare della Vittoria, sottostante, inquieta nei suoi ultimi anni di vittoria, quasi ad invertire (e ribadire) la partenza nemica e disastrosa. L’inganno, la divergenza e la rovina, incombono perennemente come le due dee, una sopra composta dall’autore in arte di terra sull’altra, trovata, in fusione di bronzo. Il rispecchiamento duplice quindi avviene anche nella materia più dura e significativa e non solo nell’immagine alta e transeunte che noi proiettiamo di noi stessi, sulle pareti cangianti del tempo. Il bronzo è l’altro che domina dal livello della sua epoca a ricordarci che non tutto, anche oggi, è necessariamente di plastica.

 

  •  
  • III
  • Atteggiamento

L’autore non cerca nulla che non sia nell’opera, quindi il lavoro più volte rifatto, non solo il progetto presuntuoso, l’affidamento costante, la protezione ormai benevola, quotidiana, persino il possibile gioco infantile per un ideale destinatario, ragioni semplici di un asseverarsi nei sempre perseguiti sogni della giovinezza, il tutto nella compagnia di una bestia, possiamo dire, non tanto immaginaria quanto storica. Che, nel suo alternato passaggio da sconfitta a vittoria, perenni, non inganna e non tradisce più. E’ un segno continuo, forse pesante ma caldo. L’animale viene ancora offerto in sacrificio allo sguardo di favorevoli e contrari, non sappiamo più quanto capaci realmente di vedere questo, fuori dagli ammiccamenti di mercato; determinato invece, nella proiezione fantastica, ad un sacrificio ben più ampio, ad una storia che non si arresta neanche con la caduta, apparentemente irreversibile, del racconto iniziale... Quindi più che il cavallo troiano qui vi è il cavallo del fato, ovvero un processo che mai trova requie e spiegazione piena se non in una auto rappresentazione che forse sa meno ordinatamente della storia, sperimentando più sapientemente il mito...

 

Vai all'articolo...
ROTOLI corti (Volumina)
  •  ROTOLI CORTI
  • (Volumina)
  • DISPONIBILI:
  • 2 Rotolo astuccio aperto con scritta
  • nella foto si vede il contenitore "Rotolo-Astuccio" aperto ed il contenuto interno:  "Preghiera ad Helios Re" di Giuliano Augusto... 
  •  ...il cilindro di legno ha un ritorno a molla  della sezione del cilindro di chiusura per  comodità e velocità d'apertura e chiusura
  • ed un blocco  rimuovibile (volendo tener ferma la carta),  visibile nell'immagine in basso a sinistra.

DISPONIBILI:

  • - Il tricolore. Simbolo e logos,  di Sandro Giovannini.
  • -  L'Altare della Vittoria, di Quinto Aurelio Simmaco, a cura di Sandro Giovannini
  • - Origini e labirinti,  di Sandro Giovannini.
  • - Omaggio  Catullo, di Edoardo Sanguineti,
  • con nota di Franco Brioschi, a cura di S.G.,
    • - Quarto d'ora di poesia della Decima Mas, di Filippo Tommaso Marinetti,
    • con intr. di Benedetta, a cura di S.G..
    • ***
    • - Il giudizio di Pilato, da Marco, *
    • - Canto CXVI, di Ezra Pound,  *
    • - Preghiera ad Helios Re, di Giuliano Augusto *
    • * i precedenti tre rotoli - A RICHIESTA - possono essere anche inseriti nel Rotolo- Astuccio  (=contemitore  cilindrico in legno)
    • ***
      • (Comunque tutti i precedenti Rotoli-corti esclusi  quelli inseribili nel Rotolo Astuccio   (=contemitore  cilindrico in legno)
      • sono racchiusi in un CARTONCINO SEMIRIGIDO CILINDRICO di carta pregiata 
      • ..a seguire caratteristiche specifiche di tali rotoli corti)

 

Vai all'articolo...
Centro Studi Heliopolis - Associazione No Profit © 2023 Privacy policy

Login form

Login with Facebook
Login with Google
  • Dimenticato il nome utente?
  • Dimenticato la password?
  NOTA! Continuando la navigazione si accetta che possano essere usati cookie per migliorare la navigazione e a scopo statistico. Se non si modificano le impostazioni del browser, l’utente accetta
OK