• La menzogna RIDOTTO

  • ¿Passare (per forza) dal negativo?
  • di 
  • Sandro Giovannini
  •  
  • “...Si parte volontari con idee di sacrificioe ci si ritrova
  • in una guerra che somiglia  a quella dei mercenari,
  • con molte crudeltà in più
  • e con in meno il senso di rispetto dovuto al nemico”
  • (Simone Weil, 1938)       (*)

  • Alla luce della testimonianza di Simone de Beauvoir sulla giovane studentessa Weil alla Sorbona, (1)  con la determinazione, la ruvidezza, persino l’immediata antipatia unita al carisma altrettanto velocemente rilevabile, le parole della Weil, dopo l’esperienza in prima linea nel conflitto iberico, sono l’ammissione di una profonda rilettura interiore, che forse si comprende solo a distanza di parole e cose, tramutate, stravolte e pur inverate dall’infinito deformato ritorno dell’identico o dell’assimilabile, nella sempre improba traduzione dalla cosa alla parola  - direbbe il Leopardi (2) ed anche Foucault - e della non corrispondenza (se non nella retorica tanto legittimamente odiata e combattuta dalla Weil) della parola  alla  cosa.  Insegnamento del tutto contemporaneo
  • ...
  • Credo che la grandezza della Weil consista proprio nel suo pensiero che registra la catastrofe del sensibile (direbbe Stiegler) - ma questo solo alla fine del suo periplo vitale - come un entomologo fissa sulla carta la risultante disincarnata di un insetto, con tutte le sue parti salve dalla corruzione e la sua splendente apparenza di realtà morta. Per la visione lucidissima ma non certo per la freddezza.
  • ...
  • E’ quell’ampliamento di anima che non posso proprio non registrare per gli effetti di straniante coincidentia oppositorum nel prodotto finale del suo cammino, dopo la notevole effusione di sacrificio, anche se tutto mi distanzia da lei, in termini di religione, ideologia se non pur di stile esistenziale.  Ma so bene che l’esito esistenziale, non riscalda nessuno, essendo sostanzialmente disincarnato oltre che ancor meglio disincantato, nel nuovo potenziale reincanto delle cose, che leverebbe necessariamente, di mezzo (ed  in qualità di mezzzi), tutti  i termini di paragone utopici, ipotetici, noumenici, o come meglio vorremmo nominarli.   Quello stile d’esito esistenziale, beninteso, non cambia comunque la propra posizione nella (e di) visione del mondo, con i suoi motivi fondanti, le sue insopportazioni originarie, il fastidio insuperato ed insuperabile (quindi ben diversamente che negli esiti da “conversione”) per una antropologia che si avverte e poi si riconosce come totamente altra - antitetica - alla propria.  Quelle ragioni rimangono intatte e quindi di conseguenza non si passa (non si può passare) nel campo che costituisce  lo spazio interpretativo ed espressivo di chi si configuri  o reputi nemico.  Infatti nelle “conversioni” si cambia solo il posto del nemico, la maschera sociale del nemico, dentro e fuori di sé.  Invece in tali rarissimi casi (in cui non ci si converta ma solo ci si modifichi), il nemico non solo resta lo stesso, ma si essenzializza a tal punto che possono andare perfino in secondo piano le pure caratteristiche fisiologiche dell’odio e/o dell’insopportazione, che valgono per i più. Pulsioni concrete che sono difficilmente superabili, peraltro utilissime ai dominanti, nella guerra eterna dei pochi contro i molti. Si potrebbe persino dire di tutti contro tutti, in termini storicamente percentuali se non fossimo trattenuti dal dover doverosamente computare i sempre tanti o troppi “a parte”, ovvero gli osservatori in attesa dei risultati finali ed i pochi pacifisti convinti,  tutti in ogni modo trascinati prima o poi, volenti o nolenti, nel procurato meccanismo.  Quell’esito esistenziale, però cambia proprio (se avviene realmente e si conferma oltre ogni soprassalto, ritorno ed autonegazione) la procedura più rara del vivente nel senso che lo arricchisce di una sorta di doppia vita (alla Benn, alla Stevens, alla Pessoa) della sensibilità allargata, che si potrebbe leggere riccamente intellettuale o almeno minimamente spirituale.  Non necessariamente spiritualista.  Vorrei però chiarire meglio questa linea di potenzialità, essendo essa, come tutte le dimensioni attinenti alla vera ricerca interiore, ben difficile persino da avvicinare. 
  • ...
  • Riconoscere nella “forza” la più grande liturgia del vivente e contemporaneamente ammetterne il maggior ruolo nella storia dell’umano (e non solo, ovviamente) significa in fondo ammettere la violenza (=azione/reazione, auto/supervalutazione, competitività) come elemento innato, insuperato ed insuperabile se non con una violenza su di sé (o sul contesto che implica il sé) commisurata alla dimensione che si reputi (o si sia costretti a pensare) di dover, appunto, superare.  Tutta la paideia di Nietzsche, al proposito, è centrata, oltreché rivelatoria e storicamente determinante, anche se è rivolta esattamente al contrario delle visioni perlopiù da molto tempo ritenute credibili e comunque massivamente diffuse.
  • ...
  • La nemesi del vivente è che, comunque, non si sfugge al potere della violenza (sugli altri o su di sé).
  • ...
  • Non per niente nella maggior parte delle stesse pratiche spirituali occidentali ed orientali, per superare la violenza nel sé ed attorno al sé, si studiano, si suggeriscono, si propugnano, si propagandano ed infine si praticano innumerevoli divaricazioni della difficilmente eliminabile pulsione vitale, sino al punto finale e “stravolgente”,  nel riassorbimento,  nell’annullamento o nell’estinzione.   Si opera, in tali casi, della “violenza su di sé”,  anche se essa viene gestita primariamente e con molta attenzione procedurale come violenza ermeneutica, ovvero cercando di deprivarla di tutti quegli aspetti innegabilmente cruenti che sono proprio quelle dimensioni vitali e quegli esiti comportamentali che andrebbero, secondo tale logica teorico/pratica, superati.  Esistono anche vie ove non c’è, invece, alcun tentativo di soppressione della violenza in genere o della “violenza su di sé”, od almeno essa non si configura come negativamente primaria, proprio perché, in tale finalizzazione, l’elemento di forzatura è addirittura proprio uno - od il principale - tra gli strumenti realizzativi.  Comunque in tutti i casi - ed, a tal punto, oltre ogni declinazione interpretativa di valore (etico) - la violenza, diversamente intesa, gestita e comunicata, è dimensione immemorialmente centrata e centripeta: crux docet.  Qui come simbolo polivalente. 
  • ...
  • E’ quindi chiaro che  mettere la “forza” al centro del mondo (dell’universo referenziale) per la Weil o per Nietzsche è la medesima cosa, con opposta causale smarcante, semplificando pur al massimo, l’una di “grande malattia” e l’altro di  “grande salute”.   E questa potrebbe apparentarsi - in prima lettura - alla pura sostituzione (della già da me definita “conversione” - termine usato in versione convintamente  anodina per non essere gratuitamente blasfemo) ma di dimensione infinitamente più implicante, perché di caratura ontologica.   Ancor più che politica, sociale o caratteriale.   La prova è che la Weil considera, così,  l’archetipo forza: “...L’impero romano, a mio avviso è il fenomeno più funesto per lo sviluppo dell’umanità che possiamo trovare nella storia...”,   (3)  ovvero come spartiacque assoluto della comprensione vitale dell’umano. 
  • ...
  • L’odio secco ma inarrestabile (genetico?) della Weil per Roma e per l’autorappresentazione dei romani come popolo destinato al dominio sopra ogni altro popolo del mondo, spiega proprio, in modo forse altrimenti ineguagliato, che tale “senso di sé” è l’unica spiegazione possibile del perché una piccola urbe e non una congregazione diversamente identitaria, episodio isolato nella storia, sia divenuta l’intero orbe, l’intero orizzonte d’immense terre. La forza come valore assoluto, valore di concretezza e di astrazione assieme, al quale si può sottomettere ogni altra dimensione, personale e comunitaria, perché in quella, sola, evidentemente, vissuta come un destino sovrumano, tutto si concentri giustificato e tutto giustificante e Roma possa, per secoli e secoli, apparire come una fede di vittoria sacrale innegabile, oltre ogni sconfitta reale o potenziale.
  • ...
  • “...I Romani hanno saputo maneggiare a loro uso e consumo i sentimenti degli uomini. E’ così che si diventa  padroni del mondo. Ogni volta che il potere s’accresce, esso suscita attorno a sé sentimenti diversi; se per capacità o buona sorte, il potere riesce a intimidire quei popoli che daranno - a chi già lo detiene - il metodo per accrescerlo ancora, ebbene questo potere andrà lontano. I popoli e gli uomini collocati ai confini dei territori sottomessi al potere di Roma hanno provato, come tutti i mortali, di volta in volta, la paura, il terrore, la collera, l’indignazione, la speranza, la tranquillità, il torpore; ma tutte le emozioni che provavano, in ogni momento, erano esattamente quelle che servivano all’interesse di Roma, e tutto questo grazie alla abilità manipolatoria propria dei Romani. Perfezionare in maniera tanto notevole un’abilità simile implica senza dubbio una sorta di genialità, ma altresì una brutalità senza fondo e senza rispetto nei confronti di nulla”.  (4)
  • ...
  • Ecco: “...senza rispetto nei confronti di nulla...”...  è la comprensione profonda della questione, perché essa agisce prima di tutto in sé che negli altri.   ¿Sarebbe forse come dire: con rispetto nei confronti di tutto?  Non sembri un escamotage dialettico.  Una pulsione cieca e consapevole assieme (comprovata - nella storia-  anche se rara) di un destino vissuto come un’evidenza identitaria, che finché dura in tal guisa è insuperabile e diviene, poi, qualora persa, l’archetipo di ogni altro, seppur apparentemente diverso, senso del potere imperiale.  Si trasferisce, necessariamente, in modalità sempre diverse e sempre legittimamente criticabili, ma la sostanza prima rimane invariata.   Come scrivemmo in un nostro ELOGICON: la volontà di potenza si serve della menzogna, ma la volontà di potenza non è menzognera.  Tale lettura non ci appare poi una parodia del positivo perché comunque, anche al negativo, tale ordine di struttura ha richiesto (richiede e sempre richiederebbe) una giustificazione insuperabile.
  • ...
  • Ciò nonostante ribadiamo che proprio l’aver riportato tutto il processo di comprensione alla sua scaturigine massimamente essenzializzata, potremmo dire all’impulso primario che precede ogni eventuale e comunque successiva concettualizzazione (ogni teorizzazione ed ogni eventuale filosofia), come dominazione/potenza ineguagliabile (anche se per la Weil parzialmente superabile in un contesto di personale totale rifiuto), inibisce primariamente l’immiserirsi nelle illusioni, nelle false rappresentazioni di coloro che non hanno ben chiaro ciò che si determina davvero dentro la volontà di potenza, per chi la possiede come un dono, un patto e correlativamente un’immane responsabilità. E per chi, al contrario, la subisce.  Non perdendosi così totalmente nelle diatribe dell’umano troppo umano non comprensive del fattore primario in questione, che invece innerva la consistenza storica riconoscibile da sempre e, probabilmente, per sempre.  La stessa valutazione di merito così scompare, si giudichi pure a torto od a ragione, di fronte all’immane potenza dell’evidenza medesima, sempre costantemente riproducentesi sotto i più diversi cieli.
  • ...
  • Neanche perdendosi in tutte le scolastiche, di ogni genere e grado, con le loro  spropositate superfetazioni sofistiche, che, se nel “positivo” si presentano come meccanismi insostituibili di Maya, nel “negativo” si registrano esclusivamente al servizio efficace della pulsione primaria = vera/falsa coscienza ben gestita dal potere che persegue scientemente la volontà di potenza. Così spazzando via nebbie e caligini, rimanendo chiara, all’interno, seppur forse per molti disperante, all’esterno, un’evidenza spietatamente leggibile, anche se l’uomo ne ha comprensibilmente terrore e conseguente prevalente rifiuto. 
  • ...
  • ¿In tale direzione a chi può piacere convintamente e conseguentemente la Weil?   Credo che non possa che dispiacere a troppi - e sempre più -  o magari per diversissime ragioni potrebbe piacere ad altri, ma forse non a molti tra quelli presumibili.
  • ...
  • ¿Potrebbe piacere, proprio oggi, a quel tipo di intellettualità europea di marcatura radicale, che però non possiede più il naturalissimo odio di matrice proletaria contro certi agi, certi moderati lussi, certi occhiuti distacchi e certi corti circuiti che fecero eroica e miserevole assieme una certa piccola borghesia spiritualista (come l’avrebbe definita la Weil)  che, a differenza sua, non piangeva certo necessariamente allora (e  - traslatis verbis - certamente neanche ora) per “la carestia in Cina, il fascismo in Spagna,  lo sfruttamento degli operai,  il meccanismo paranoico del potere”?  (5)     ¿O magari ne soffriva, altrimenti, in modo altrettanto reattivo, virile e comunitario?  E con ben altre visioni e soluzioni.   ¿Potrebbe forse piacere ad altre insopportazioni antropologiche intellettuali e viscerali ed apparentemente inestinguibili che hanno fatto comunque la vera storia intima, rancorosa e grandiosamente fosca delle immani ribellioni di diversa coloritura degli ultimi secoli?  E cerco di raffigurarmele a 360°.   Riesce proprio difficile crederlo.
  • ...
  • Non potrà quasi più piacere a nessuno di tale pur varia tipologia, anche perché (per rimanere sempre a lei) le marcature di certa piccola borghesia spiritualista si sono oggi estese con una poco resistibile potenza avviluppante a tutte le masse (almeno nel primo mondo) uscite dall’indigenza primaria e pervenute a fare da sostanziale collante, da stressato cane da compagnia se non proprio da cane da guardia, alle lontane ed irresponsabili (sugli altri) élites ultraliberiste e finanziariste e nuovamente splendentemente usurocratiche.  I nuovi dominatori. 
  • ...
  • So che sembra spietata tale analisi e non me ne compiaccio affatto, proprio perché le sostituzioni consolatorie, le rimozioni forzate e tutti i transfert di ogni ordine e natura, hanno portato grandi masse ad avere una vita materialisticamente appercepita come ben più vivibile, anche se tutto ciò avviene pur nel nichilismo di massa e nella confermata vigliaccheria, spesso persino antiutilitarista in quanto incongrua, del calcolo costi/benefici (...basti vedere cosa avviene nelle sempre ripullulanti guerre e quali siano i risultati delle tante indagini a livello europeo sulle predisposizioni dei “consumatori  occidentalisti” a reali ed ipotetici sacrifici bellici) tramite anche la nuova prepotente emersione delle esisgenze narcisistiche e di genere vario, al posto dei sacri diritti d’antan.  Tutto comprensibilissimo, anche se indegno. E quegli intellettuali che non la amano, se non come etichetta buona per entrare in contatto con un minimo di propria supposta verità, si raddoppiano innaturalmente (e potenziano ovviamente) con quelli che non hanno mai potuta amarla per la incongrua decostruzione dell’epifania della forza, epifania sommamente disturbante per certo progressismo comodista attuale, ma anche per troppo moderatismo destrorso accomodatorio tragicamente privo di potestà di visione.  
  • ...
  • Così la Weil rimane un’eccezione umana, tanto meno amata, poi, quanto metta in contraddizione crescente tutti coloro che “...avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato... (...) ...coloro che sono capaci, oggi come un tempo, di individuare la forza al centro dell’intera storia umana, vi trovano il più bello e il più terso degli specchi”.   (6)  La forza (della/nella speculazione evidente) mette potentemente in crisi - oltre ogni arrampicante dialettica - il processo linearista. Forse come poche altre evidenze.
  • ...
  • Ancora, la forza, al centro dell’intera storia umana disturba tutte le anime belle (che non sono, ovviamente le grandi anime) di ogni colore, proprio perché la Weil comunque sa di cosa parla, sapendo cosa intimamente crede, ovvero: “...Conoscere la forza vuol dire, pur considerandola quasi sovrana in questo mondo, rifiutarla con disgusto e disprezzo.  Questo disprezzo è l’altra faccia  della compassione rivolta a tutto ciò che è esposto alle ferite della forza”. (7)    L’altra faccia della medaglia sarebbe l’amore. Ma, in tale visione, necessariamente solo per i deboli (sempre che si credano anche i giusti e le vittime), l’amore, che dovrebbe comunque, per affermarsi, far sempre paradossalmente ricorso, ad una equiparabile forza e volontà di potenza.  Come in effetti è avvenuto, altrimenti ma sempre, nella storia.
  • ...
  • Ora, da noi, il rovesciamento definitivo dell’illusione progrediente non viene dalla più o meno appariscente e resistente sdrucitura degli apparati delle fedi, delle ideologie e delle più diverse logiche di accomodamento e di sviluppo delle masse montanti del mondo, ma proprio dall’avvertito pericolo incombente della riemersione potente della forza.  Sospettata come potenza sempre meno controllata e controllabile, per quanto gli interessati al dominio (nel raccontare il “positivo” - perché quelli del “negativo” non soffrono alcuna problematica) si affannino a narrare il contrario.  Ancor più pericolosa.  Il tutto con l’aggravante della massimizzazione tecnologica (che non diminuisce ma anzi amplia comunque il carnaio, potenziale e reale, del contesto) e dell’esplosione del numero, tutte cose che per definizione, come direbbe Girard, portano all’estremo, se non, in diversa episteme,  al dia-ballo.
  • ...
  • Quest’evidenza staglia in piena attualità, ciò ch’è sempre stato attuale, ma che riemerge periodicamente dal cono d’ombra delle varie strutture imperiali, diversamente dominanti, strutturate e mimetizzate (e necessariamente mitizzate, come dice anche Augé in Poteri di vita poteri di morte, quando parla dell'ideo-logia come ideologica strutturante qualsivoglia sistema di convivenza), appena crisi strutturali determinino lo svelamento (endogeno od esogeno, parziale o totale) degli apparati di copertura. 
  • ...
  • ¿ Dunque... Passare dal negativo per giungere al positivo?  Ovvero cogliere come momento di svelamento dell’essenzialità nel nostro processo di comprensione del presente passaggio epocale il processo di esaurimento totale dell’illusione razionale (o meglio maleficamente razionalizzante, in quanto mette comunque al suo servizio ogni altro possibile strumentale affidamento irrazionale)? 
  • Note:
  • *   Lettera a Georges Bernanos, S.W., in Diario della guerra di Spagna, Farina Edit., 2018, pag. 47.
  • 1) Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene, Einaudi, 1995, pag. 244.
  • 2) Giacomo Leopardi,  Zibaldone di Pensieri: “...Quasi come se – per dirla con Berni – ei dicesse cose, mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero...”
  • 3) Simone Weil, Il libro della forza, Farina Editore, 2019, pag. 104.
  • 4) Simone Weil, cit., pag. 112.
  • 5) Simone Weil, cit.,  pag. 9.
  • 6) Simone Weil, Il poema della forza, Farina Edit., 2016, pag. 11.
  • 7) Simone Weil, Il libro della forza, cit., pag. 151.

  • “...¿Dire cose, dire parole?...”
  • di
  • Sandro Giovannini
  •  
  • “...Quasi come se – per dirla con Berni – ei dicesse cose,
  • mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero...”
  • (Leopardi, Zibaldone di pensieri)
  • ¿Ammesso e non concesso che Leopardi abbia ragione (e ho forte sospetto che abbia ragione) quale sarebbe il meccanismo logico per avvicinarsi a comprendere il rapporto cose/parole?
  • ...
  • Per cercare di comprenderlo un poco meglio, al di là della difficilmente definibile capacità intuitiva, si tratta, a mio avviso, di scegliere un esempio facilmente (si fa per dire) risalibile.     E l’esempio potrebbe (tra infiniti altri) essere questo.
  • ...
  • Una persona di indubbio valore  (si capisce da come argomenta), nel caso specifico un docente, dice che un suo alunno, reputato da tutti geniale, ha tradotto un testo da una lingua classica all’italiano in modo eccessivamente libero.  Insomma... è un alunno dotato, vezzeggiato da insegnanti e parentela, e, al voto non troppo basso (ma insufficiente) datogli dal docente, ben crede di aver motivo di risentirsi. Il docente, allora sostituto, sente, per approfondire, il titolare, il quale gli consiglia di alzare il voto, cosa che il docente sostituto non fa.  E fin qui la serie di “cose”.  Ma il docente sostituto, indubbiamente colto, trova, legittimamente  (ben comprensibilmente), le “parole” per giustificare la “cosa in sé”, o forse il noumeno, ovvero quella da lui giudicata come una traduzione eccessivamente libera e fantasiosa, meritevole d’attenzione certamente, ma punibile per l’eccessivo scostamento rispetto alla “cosa”(...sempre, si fa per dire) del testo.  Sembrerebbe che si sia nel regime delle “cose”, ma sappiamo tutti che le “cose” e le “parole” hanno fra di loro un rapporto molto più complesso di quello che pure tutti intuiscono per naturale intelligenza e/o per studio più o meno approfondito.
  • ...
  • Ma a questo punto, fra le varie riflessioni, tutte stimabili, che il docente sostituto fa, una di queste richiama particolarmente la mia attenzione. Cita Sanguineti (... proprio a fortiori della propria tesi) come esempio di capacità di tradurre con grande libertà ma assieme fedeltà (forse "profonda") il testo di riferimento.
  • ...
  • Ebbene, nel 1991, nella collana esordiente “Tabulae” del paraeditoriale Heliopolis, pubblicammo in tiratura pregiata proprio una traduzione di Sanguineti da Catullo intitolata “Omaggio a Catullo”, con prefazione del caro amico di Sanguineti e mio Franco Brioschi, stimatissimo docente di "Teoria della critica letteraria" alla Statale di Milano. Questo portare Sanguineti è, per me, “l’interruttore” tra parola e cosa.  Ma non per fatto personale, ma perché quel fatto personale specifico collega/discollega eminentemente cosa e parola. Vado a ripetermelo. Ma per farlo devo (non agevolmente) metaforizzare in parallelo questa versione di Sanguineti degli anni ‘90 di Catullo ad una mia storia di adolescente. 
  • ...
  • Quando imperversava il primo americanismo, tra i ‘50 ed i ‘60, che era fatto di tante e tante “cose” che però  impattavano le “parole” molto meno di quanto abbiano fatto poi nel secondo o meglio terzo americanismo “all’italiana”, io non avrei mai indossato dei blue-jeans per questioni ideologiche. Dopo gli anni ‘80 non trovai più motivi incidenti ed identitari per non farlo perché valutai che tutte le motivazioni precedenti s’erano usurate e definitivamente sfilacciate (i buchi/strappi sulle ginocchia) e non significavano più nulla. I cow-boys e nemmanco i teddy-boys avrebbero avuto collegamento riconoscibile con quei derivati (terzoritenzionali) di moda.  Avevamo operato sicuramente (non per merito ideologico ma per pura implementazione di mercato) tanti di quei falsi, successivi e divaricanti, su quel feticcio, quella “cosa/parola”, ovvero capaci (o meglio costretti) a fare per usura ciò che non avremmo mai potuto fare per verità.  Ancora più squallidamente, ma si sa che se si cammina nella polvere ci si intorbida. Ma non divaghiamo e torniamo a Sanguineti, ove però il mio flash apparentemente azzardato forse ci sosterrà nella disamina.
  • ...
  • Perché nella coltissima prefazione accademica di Brioschi  è infatti centrale la chiave del “travestimento”, che però è ancora insospettabilmente solo la maschera di scena, di coloro che sanno rimandarsi dei codici (vulgo ammiccare), tipo Petrolini/Butterfly, “...un po” per celia ed un po” per non morire..” (di noia) e non il “travestitismo” di tutti i sensi e di tutti i campi che furoreggia oggi. Qualcuno di rigoroso, che magari non sono proprio io, potrebbe dire che dal travestimento deriva, in ultima e disgraziata istanza anche il travestitismo, ma forse, allora, dimenticandosi proprio il decisivo originario ruolo delle persone (delle maschere di scena).
  • ...
  • Brioschi,  in Sanguineti,  parla di abbassamenti tonali,  escursioni erotiche, solecismi  grammaticali, anacoluti sintattici, con la permanente sostituzione della sua (di lui)  “persona” (maschera) a quella di Catullo. Personalmente, avendo certo intuito ma forse senza aver potuto, se non mediatamente poi tramite Brioschi, ben riconoscere tutte le “parole” sopra le “cose” (o forse "distanti”), con  una appercezione, diciamo forte, ben in parallelo.  
  • ...
  • Direbbe un altro: ma hai appena sfiorato il problema... che avevi introdotto con tanta sicumera! (stile:  FIRMATO DIAZ)...
  • ...
  • Sicuramente... mica l’archeologia di tutte le scienze...  come ne L'Ordre des choses, The Order of ThingsDie Ordnung der Dinge, e poi nel titolo definitivo Le parole e le cose, per obbedienza al contesto... (guarda caso...proprio)   per   l'episteme di un'epoca.
  • ...
  • Potevo solo cercare di trovare/investigare quel collegamento/interruttore, sicuro, indubitabile, seppur discutibilissimo, ove, da sempre e per sempre, cose e parole si danno la voce.  

  • Sui  “marginalia”... pensarci sopra
  • (non è una dichiarazione di poetica)
  • di
  • Sandro Giovannini
  • Già in passato ho perseguito, a random, interventi ulteriori miei (almeno non troppo lunghi, come al solito) anche sulle più belle recensioni di amici che stimo particolarmente.  Di Giovanni Sessa, figura portante in “Rivista online Heliopolis”, tutti sanno che è studioso serissimo con un suo programma interiore molto marcato ed efficace e quindi con libri di grande impatto e di indubitabile caratura critica, ma ordinariamente anche abile recensore, concentrando essenza e referenza contestuale in modo ottimale.  Spero quindi non sia un atteggiamento saprofitico, il mio... se il suo testo (La filosofia di Jakob Böhme. Un testo capitale di Alexandre Koyré, Mimesis, recensione di Giovanni Sessa, qui in  "Rivista online Heliopolis" precedentemente edito) ed il mio commentare che penso potrebbe divenire meno occasionale - corrispondente ovviamente ad una diversa struttura interiore emozionale e creativa - doppiano su superfici che andrebbero comunque investigate nella loro paradossale profondità. Ma tutti sappiamo che, sovente, più si va a ricercare in un testo il senso che esso potrebbe davvero fornirci in molteplicità di spunti e/o solitudine di taglio, più si rischia sorprendentemente il silenzio della verità che può imbrigliare in molti, forse in troppi, non giustamente la deviante vanaglogia delle congetture infinite ma purtroppo a volte anche l’orizzonte più aperto di sempre ipotetici vivificanti rimandi.  Questo per dire che dal random (ovviamente solo mio) non è detto che sia per forza male tirar fuori magari anche una piccola linea di lettura in più.  L’autore primario rimane solo, responsabilmente e legittimamente, nella sua dimensione interpretativa, avendone pieno diritto e forse sano dovere. Ma il coraggio realmente sostenitore degli interpreti, se c’è, si nutre di scambio e l’osservazione solo fredda e del tutto contenuta (spesso rimproverandomene per primo e che intuisco agisca nebulosamente attorno a me) non sempre corrisponde al nostro “pensare greco e agire romano” come dice - meravigliosamente - un altro caro amico.

  • “Il gioco superiore”
  • (in margine ad una recensione di Giovanni Sessa, sul libro di Koyré)
  • Interessante come sia nato e poi sviluppatosi il rapporto Kojève/Koyré.  E dico interessante ben oltre il dato aneddotico, che pure, a conoscerlo fa più che sorridere... Che, allora, un 31ne (Kojève)  esoticamente franco-russo e ben appartato, dal 1933 al 1939, in sostituzione dell’amico e quasi parente Koyré, incaricato al Cairo, già hegeliano sui generis e titolare di lezioni su Hegel all’École Pratique des Hautes Études, riuscisse con ben celata noncuranza ad affascinare magicamente un parterre in cui si confondevano Lacan, Bataille, Merlau-Ponty, Quenau, Fessard, E.Weil, Gurvisch, Caillois, Hyppolite, Aron, Marjolin e Breton e tanti altri ascoltatori di genio, ha dell’unico.
  • ...
  • A distanza ancora di anni (nel 1954) Bataille  in  “Hegel la morte e il sacrificio” presenta il proprio testo come un sostanziale estratto dallo studio sul pensiero hegeliano di Kojève:  «...Questo pensiero vuole essere, nella misura in cui ciò è possibile il pensiero di Hegel come potrebbe essere contenuto e sviluppato da uno spirito attuale, sapendo quel che Hegel non  ha saputo (conoscendo ad esempio, gli eventi accaduti dopo il 1917, e altrettanto bene, la filosofia di Heidegger). L’originalità e il coraggio, va detto, di Alexandre Kojève, è di aver colto l’impossibilità di andare oltre e, di conseguenza, la necessità di rinunciare, a fare una filosofia originale, la necessità dunque di un ricominciamento interminabile che è l’ammissione della vanità del pensiero...» (G. Bataille, Hegel, la mort et le sacrifice,  in ‘Deucalion’, 5,  ‘Études Hégéliennes’, 1955, pag. 21, grassetto e corsivo mio)  
  • ...  
  • «...Da un lato abbiamo la generazione delle “3 H”, come si diceva nel 1945; dall’altro abbiamo la generazione dei “tre maestri del sospetto”, come si diceva nel 1960.  Le tre H sono  Hegel, Husserl e Heidegger, i tre maestri del sospetto sono Marx, Nietzsche e Freud.  Hegel è il punto di partenza ed al contempo figura chiave per comprendere il passaggio fra le due generazioni. Ma un certo Hegel,  quell’Hegel cioè scoperto da Kojève nel suo seminario parigino al quale parteciparono  tutti i protagonisti della prima generazione...» (Marco Filoni, “L’azione politica del filosofo. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève”, pagg.14-15, Bollati Boringhieri, 2008-2021).
  • ...
  • La sottolineatura di Bataille sulla condizionalità di tempo (l’air du temps,  “virtute duce comite fortuna”... oppure l’esprit du temps, in sorta di "vulgate pathétique", come suggerirebbe Edgard Morin) e che comunque non è mai solo una condizionalità del soggetto nel suo contesto referenziale, ma una somma insuperabilmente intricata di rimandi e ritenzioni primarie, secondarie e terziarie (alla Stiegler) di tutti coloro cioè che prima assorbono e  dopo si confrontano, e magari pure rifiutano, sarebbe forse fuorviante, addirittura ingenua se non del tutto scontata se non si riferisse ad una mente invasiva come quella di Hegel, capace come poche altre d’informare di sé epoche coeve e ben successive.
  • ...
  • Mi viene il sospetto però di essermi liberato di quell’incubo (o “sospetto” ...della  redenzione dal contesto) di Bataille, io stesso, a gran fatica, dato che per decenni ho sempre calcolato molto apprensivamente, anche se forse comprensibilmente, date e coincidenze temporali per opere e climi di riferimento. Con un sottofondo di  forte paura per non riuscire a collegare gli atti ed i tempi  e sempre il "sospetto" continuo che il collegamento fosse illusorio e deviante e non corroborante e  maiuetico.  In tal senso la saggezza sarebbe quella di un Kojève che riferisce maliziosamente che la sua prima opera forzatamente pubblicata è per spinta ed in curatela “di un comico” (l'amico Quenau; che infatti fece poi di Kojève un eteronimo di alcuni suoi personaggi romanzeschi, quasi sempre sopra e sotto la linea... poche volte su,  come direbbero J. ed H. e nel “...sottosuolo della saggezza” come direbbe D.) ...secondo l’assunto che il meglio dell’intelligenza umana possa svelare proprio in quanto a saggezza: “...la vie humaine est una comédie.  Il faut la jouer sérieusement”.  
  • ...
  • Ma se molti testimoniano il vero terrore che i negoziatori esteri statunitensi avevano di trovarsi troppo spesso, di fronte in un bilaterale nella delegazione francese proprio Kojève, nelle sua terza vita d’alto consigliere del Quai D’Orsay, allora tutto torna.  
  • ...
  • O forse, ripensandoci al proposito e confessandolo per la prima volta... di un Filippani Ronconi, somma sprezzatura, che  - me sgomento - impose che il primo editoriale dei suoi due Speciali per i numeri di “L-T” da lui diretti, lo scrivessi io... a firma sua.
  • ...
  • Premetto che nulla di ciò di cui sopra è farina del mio sacco... una 15 d’anni fa fui proprio  folgorato da un testo dell’amico Federico Gizzi che scrisse per l’ultimo numero (43) della nostra “Letteratura-Tradizione”, “L’evocazione del sacro perduto: dal George Kreis al College de Sociologie”, che mi aprì forse ulteriormente le porte della percezione, almeno sull’intricatezza vitale delle consonanze e delle differenze, ambedue abissali (opposte negli esiti ma simili nelle esigenze del dispendio improduttivo e sacrificale) e quindi molto potenti sul piano evocativo se non operativo. Tutte sostanzialmente rimaste però ad un livello teorico, anche per la “soluzione dall’esterno” (leggi: guerra) sopravvenuta nel quadro referenziale. Poco studiate, sino a non molti anni fa anche per le imbarazzanti implicazioni operative, con, poi, i non molti ma decisivi testi al proposito degli innegabili tentativi di “politicizzazione del sacro” e di “sacralizzazione della politica”.  Che molti ve(n)dono come una questione di metodo mentre è ben anche una questione di merito. 
  • ...
  • Da lì persino il mio libro “BORGES ET ALII. Una diversa avventura dell’elitismo” trasse uno spunto convincente per uscire dall’eliodromo di decenni di ruminazione inconseguente... direi logocentrica e conquistarsi almeno un minimo di giustificabile legittimità interna.  L'ambizione interpretativa, fallita grandiosamente, come una sorta di troppo protratto +100... nella benzina avio degli anni '30. 
  • ...
  • Invece è del tutto mia la sottolineatura ed il grassetto di cui sopra: “...l’ammissione della vanità del pensiero”, ovviamente non come certezza acquisita ma come vivificante “sospetto”.  Qui vi è il collegamento con la precedente esperienza del religioso nella tesi di laurea kojèviana - tra la versione tedesca originaria e raccomandata da Jaspers, (“...il mondo dell’idealismo tedesco, e più precisamente il mondo di Shelling...”) e quella francese successiva - su Solov’ev, ripresa proprio a fine ‘32 e presentata all’École, con le istruzioni ed i suggerimenti di Koyré Directeur d’études della quinta sezione.   
  • ...
  • E qui vi è il rapporto più stretto - direi ben rintracciabile - con le esplicite note e le implicite vocazioni dell’amico filosofo, Sessa.

  • Gorlani Maritare il Mondo LE TRE VIE

  • Solstizio invernale
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • (da: Maritare il mondo) 

 

  • I
  • L’inizio dell’inverno è liberazione dall’oscurità che non ci ha mai attanagliato.   Il sole torna a camminare verso nord.  Nei sei mesi precedenti si era attardato tra le ombre dei morti.  E tuttavia gli alberi portavano foglie e cantavano.  Ora il canto è diverso; il freddo morde i rami spogli, mentre cade la neve, ma c’è una nota cristallina, come una stalattite di ghiaccio che va dal cielo alla terra.  Si cerchi il segreto d’una simile ierogamia, affinché anche il buio risplenda.  Le giornate sono brevi, girano veloci.  Inutile è darsene pena; insulso è aggrapparsi alla quantità delle cose reputate di volta in volta gradevoli o sgradevoli, brutte o belle.   L’intelligenza insopprimibile intuisce la libertà, il sorridere di là dagli opposti, pur immersa in un oceano agitato da forze scomposte.  Alla libertà si può attingere con semplicità e immediatezza. Come?  In che modo è possibile sciogliere nodi apparentemente insolubili, balzare al cuore della sofferenza, recidendo i legami che ad essa avvincono?  Ecco albeggiare la Conoscenza eminente, l’unica alla quale val la pena dedicarsi.  In seguito – e non in senso temporale – si celebreranno i fuscelli secchi e i teneri germogli, ma non saranno né gli uni né gli altri ad ispirarci.   Si vedrà la meraviglia in entrambi, nella tristezza, nella gioia, nel franare delle speranze: sfumature di un unico accordo.   Le parole si trasformeranno in gabbiette per grilli; una folata irruente disperderà gli intrecci d’erba palustre e ne restituirà i prigionieri all’aperta campagna.   Affiorerà una voce capace di dire il tutto in ciascun suono.   Si parlerà con se stessi, soli, senza potersene auto-compiacere o disperare.   Si conoscerà il proprio vero volto, il proprio nome originario.   Ci si sarà persi, privi di qualsiasi conoscenza oggettuale.   Che rilevanza può avere stare qui o altrove?    E non poter dire quali siano le differenze tra una direzione e l’altra?  Tutti finiscono con lo smarrirsi; che almeno sia il Sublime ad accogliere il risvegliato.  Non c’è niente nella coppa caduta nel prato sotto il davanzale ornato da gerani; le poche gocce di liquido dorato che essa conteneva si sono disperse tra radici e steli.  Come si chiamava l’antico abitatore del calice?   Chi era?   Nessuno lo sa.   Nell’aria aleggia un profumo, l’eco di un accordo amorevole, tanto intenso da penetrare nel Nome impronunciabile.   Il sole ridistende le braccia sulle querce rossicce al solstizio.   Possa la sua luce illuminare il tragitto di chi si sottrae alla schiavitù, avanzando con pacata fierezza, pur circondato da marasmi di dubbi e paure.

 

  • II
  • La bellezza della natura è inesauribile, non c’è fine al contemplarla.   L’uomo che si sposta di luogo in luogo con frequenza, il turista, l’homo saecularis, non vede nulla.  L’unico suo orizzonte è l’avidità insaziabile, indispensabile ad impedire l’affioramento alla coscienza dell’insignificanza nella quale egli si è auto-confinato.   «Osserviamo dunque, dalla finestra della quiete e della contemplazione, come la volubile ruota della vita secolare si volga nella sua volubilità, e allora potremo cogliere la grande incostanza con cui si agita circolando la coscienza secolare». (1)    Se si è desti, invece, una valle, l’azzurro intenso del cielo decembrino, un cantuccio d’Appennino, una rupe circondata da calanchi diventano aditi sull’infinito.   E non si desidera più andare a visitare altri territori, regioni lontane, mostre, musei, ossari.  Ma nemmeno differenti mondi, paradisi, purgatori, inferni.  L’universo in una corolla raggrinzita, in una ghianda, nella cima tondeggiante della collina è cibo sufficiente alla fame d’Ineffabile.   Lo sbalordimento reverenziale che ci trasmette un angolo di bosco merita di essere considerato attentamente.   È opportuno fermarsi, scavare sotto la superficie dell’apparenza, specchiarsi nel vuoto, nel silenzio.  Chi sono, buon Dio, chi sono?   Cos’è questo?   Che cosa sono l’aria, il respiro, le nuvole?   Da dove emergono i pensieri?   Cos’è il ruotare degli astri, tra fulgore e tenebra?   C’è un fondamento, un sostrato al divenire inarrestabile?   Lo si può fissare?   In esso ci si può riconoscere?   Il punto in cui si incontrano e fondono Dakshinayana (il corso discendente del sole) e Uttarayana (il corso ascendente dal Tropico del Capricorno al Tropico del Cancro) è invisibile, impensabile, sfugge ad ogni determinazione, ma lo si può “meditare”.   Ovvero è possibile concentrarsi su di esso, abbandonando ogni pretesa di sapere, di giudicare, di confrontare.   Soltanto così può emergere l’onnipervadenza della coincidentia solstiziale.

 

  • III
  • Il viatore immobile esce abbracciato alle figure che il vento suscita con sterpi e polvere.   Procede, mentre alcuni passanti gli gridano: «Perché non ti affretti? Non cedere all’inerzia. Vivi, vivi».  Frasi insignificanti.  Un’eminenza grigia, primario d’ospedale psichiatrico, sentenzia: «Sta sprofondando nella catatonia. Avrebbe bisogno di un buon vaccino messaggero rinvigorente.  Morto, malato o ancora vivace, verrebbe rimesso in circolo».   È patente come costoro non “vedano”.   Le immense conglomerazioni stellari sfiorano le loro palpebre senza che ne siano consapevoli.   Elevano cecità ed ignoranza a paradigmi virtuosi ai quali ci si deve conformare.   Il viatore assorbe in sé la molteplicità, anche l’orrore della stupidità più bieca, e valica la Soglia del Sole.   Stupidità e cecità, accompagnati dai loro numerosi corollari, sono pozioni terribili in grado di danneggiare i migliori tra gli eroi o avatara.   Si pensi ad Eracle devastato dalla tunica avvelenata offertagli dalla gelosa Deianira su suggerimento del centauro Nesso.   O a Gesù di Nazareth che volontariamente si lasciò inchiodare alla croce del supremo sacrificio.   Perfino Shiva Nilakantha, dalla gola blu, il compassionevole Dio degli Dei, accettò di ingoiare halahala, il liquido distruttivo scaturito dalla zangolatura dell’oceano primordiale perpetrata da deva ed asura per produrre l’amrita. Sono numerosi i veleni nei quali ci si imbatte lungo il Cammino del Sole; solo la Conoscenza può renderli inoffensivi, risolvendoli in sbuffi leggiadri.

 

  • IIII
  • Il solstizio è una lama che fende, separa ed unisce.  La lama è Janua Coeli, presieduta da Giano, axis mundi, palo sacrificale: quercia secolare alle cui radici, in una cavità, vigila il Lingam, segno aniconico di Paramashiva.   Né Brahma, né Vishnu riusciranno mai a trovarne la cima o il fondo.  Gli uccelli amano questo albero sul quale sostano spesso, si incontrano, amoreggiano, gorgheggiano.   Le sue radici si estendono sino ad incontrare quelle di altri roveri giganti, sostengono il territorio e lo proteggono.   Ai solstizi e agli equinozi ci si raccoglie sotto le sue branche poderose: ad occhi chiusi, si penetra nella terra e si sale in verticale lungo il tronco massiccio.   Non si può vedere il cerchio formato dalle due linee che inevitabilmente si congiungono: circoscrive la profusione dei mondi, una tra le tante possibili.  I momenti astronomici fondamentali sono neumi in uno spartito musicale.   Ricordarsene, viverli significa risvegliarsi all’interno del Canto, non da estranei inebetiti, chiusi in una bolla d’illusoria potenza, bensì come indigeni con l’occhio interiore focalizzato sull’“in Sé”. Intonando le quattro note primarie, di cui il solstizio vernale è quella dominante, si impara a considerare la coincidenza del macrocosmo col microcosmo, del divino con l’umano.   Del resto, senza ritmo non si danno azioni efficaci; qualora si privi l’esistere delle appropriate scansioni esso regredisce ad amalgama confuso, ricettacolo a continue sofferenze.  Come si può creare, manifestare il dharma, se non si aderisce agli accenti del Signore della danza, custode delle foreste, delle montagne con i suoi fiumi, degli oceani e di tutto ciò che batte e respira?   «Per Thomas Traherne Dio può essere conosciuto solo attraverso la creazione, la quale acquista significato quando è rispecchiata e ricreata dalla mente dell’uomo, il cui dovere (morale, spirituale, religioso) è ricreare perennemente il Mondo e offrirlo a Dio». (2)    Ricreare il mondo non significa strepitare o agitarsi vanamente, ma contemplare, contemplare e lasciar agire in sé il Tao.   In uno placido e terribile, formale e informale, Shiva Nataraja riassume qualsiasi contraddizione e protegge dalla follia, oggi chiamata normalità. Non riconoscerlo condanna alla più miserabile inconsistenza, induce a sprofondare nella vacuità, nell’auto-annichilimento.  Si è “liberi”, certo, di permettere all’inerzia di possederci, ma è altrettanto sicuro come tale scelta ci lascerà follemente disperati.
  • Note:
  • 1) Pietro di Celle, monaco benedettino, cit. in R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2020, p. 43.
  • 2) G. Ortolani, Nell’imminenza del pericolo spirituale, in W. de la Mere, L’enigma e altre storie, Edizioni Hypnos, Milano 2022, p. 395.


  • Racconto di un libraio 
  • di
  • Orazio Dell'Uomo
     
  •  
  • venticinque agosto 1983 racconti inediti borges

    • "Non capisci che l’importante è accertare 
    • se c’è un solo uomo che sogna o due che si sognano”
  • Borges, "25 agosto 1983"
  • Ero in chiusura, quel venerdì verso le 19; giornata fiacca, già, con quel tempaccio. Cominciava, tra l’altro, a nevicare e la strada che devo percorrere quotidianamente, da Fabriano a Campodonico, non è delle migliori, specialmente di sera e col nevischio.  Quando mi trovo davanti, senza essermi accorto che fosse entrato, un tipo “alto e secco. Il suo viso allungato e stretto pareva la caricatura di un’apparizione hoffmaniana”.  Non ebbi, però, il tempo d’indagare oltre la sua fisionomia, quando, a me che me ne restavo alquanto meravigliato di quel subito apparire, fece gentilmente, compitamente, la sua richiesta:  “Mi scusi, sa, per l’ora già tarda, ma sono stato attratto dal nome della sua libreria, Pandora, da ciò che evoca, vi si può trovare di tutto, ciò che si cerca, ciò che si è perduto...”   Lo guardai interrogativamente. ? “...è un pezzo infatti – riprese con educato controllato accento straniero, certamente nordico – che io sono impegnato nelle queste di un piccolo libro, ahimè introvabile anche dai bouquinistes, mi è capitato di andare anche a Parigi...”
  • ...
  • Oh, quanto la fa lunga! Pensavo intanto io, guardando inavvertitamente l’orologio; ma ero anche incuriosito e come affascinato dalla sua presenza, la fisionomia, il vecchio soprabito decoroso ed un po’ sfinito, l’accento, i suoi modi.   “Si tratta di un piccolo libro di racconti, ma in particolare me ne interessa uno, che s’intitola Morte mentale, l’autore è Giovanni Papini, già, quel Gian Falco immeritatamente dimenticato, come dice Borges nella sua prefazione.  L’editore... mi pare Franco Maria Ricci, sì, in una collana, la Biblioteca di Babele.    
  • ...
  • Ascoltata, ora, con attenzione di libraio, la sua richiesta, ne presi nota e promisi di cercargli il testo.   Sì, un ago in un pagliaio! Ci demmo appuntamento per la settimana dopo; se ne andò salutando con estrema cortesia, quasi affettazione. Notai, allora, il suo naso lungo, la bocca sinuosa ma un po’ sarcastica, il mento a punta.
  • ...
  • Quella sera mia madre aveva preparato l’aquacotta, alla maniera campodonicese: cicoria, patate ed altre verdure, un bouillon rustico dove alla fine si frangono uova freschissime e s’intingono pezzi di pane raffermo. Mi ricordo quanto la gustai. Ma la mia immaginazione continuava a lavorare intorno a quella fisionomia, come se l’avessi davanti... avrei avuto l’impulso di condividere con lui la mia zuppa, dargli un po’ di calore, di abbracciarlo, quasi.
  • ...
  • Sabato andai, come al solito, a Pesaro, da mia moglie e dal mio bambino piccolo; così si svolge la mia vita di libraio indipendente ed itinerante.  Ma non me ne lamento: Pandora mi dà delle soddisfazioni; è una piccola libreria un po’ eclettica, tratta lo scolastico, l’usato, i libri d’avanguardia, i successi editoriali più o meno meritati, (cerco, però, di selezionare), testi, anche, di nicchia e perfino, un po’ d’antiquaria; così il pubblico è vario, extracomunitari, curiosi, modaioli, lettori forti, qualche bibliofilo. E poi, quel tipo.    Già, dovevo ricordarmi della sua ricerca.    Di solito sono preciso e cerco di essere puntuale con i miei clienti; ma quella volta, non so come, la cosa precipitò in una specie di oblio, una nebbia di dimenticanza; anche se, ogni tanto, mi s’affacciava un pensiero fastidioso, una lacuna, un piccolo vuoto colpevole.  Ma l’uomo non si ripresentò. Ed io presto lo dimenticai del tutto.
  • ...
  • Per fortuna il lavoro aveva ripreso dopo la pausa invernale, clienti andavano e venivano, il ritmo era buono e ci si preparava a Poiesis, evento che richiama sempre un sacco di gente a Fabriano e di cui sono fiero di essere il libraio fornitore dei testi in dibattito.  Giunto, in effetti, il momento in cui doveva aver luogo la manifestazione, a maggio inoltrato, con un’esplosione primaverile di fiori e di sole che inondava Fabriano ed il bellissimo orto concluso del quattrocentesco Ospedale del Buon Gesù, dove si svolgono gli incontri, mi pervenne in libreria una mail, tra le molte in quel discreto traffico elettronico, che così suonava e mi lasciò di stucco:   “Gentile Libraio, sono Otto Kressler; non so se si ricorda di me e della mia queste, oramai però è troppo tardi. Sappia che sono pervenuto al fine che desideravo ardentemente e ho perfezionato la mia morte mentale.  Forse, con il suo oblio, Lei ha contribuito a questo mio annichilimento; ma non ne abbia rimorso, perché era ciò che desideravo.  Le mando comunque, per ricordo, il libro di racconti di Papini, per l’editore Franco Maria Ricci, con la prefazione di Borges. E con le mie postille a matita rossa.  Ma lo dimentichi subito o lo dia alle fiamme.  Con stima e amicizia e con l’augurio di ogni bene per la sua avventura di libraio indipendente.  Suo, Otto Kressler.”

    «...Una dozzina di giorni fa, tenevo una conferenza a La Plata sul sesto libro dell’Eneide.  All’improvviso, mentre scandivo un esametro, ho capito qual era la mia strada. Ho preso questa decisione.  Da quel momento, mi sono sentito invulnerabile. La mia sorte sarà la tua, avrai una brusca rivelazione, in mezzo al latino e a Virgilio, dopo aver completamente dimenticato questo strano dialogo profetico che si svolge in due tempi e in due luoghi.  Quando tornerai a sognarlo, sarai quello che sono io e tu sarai il mio sogno...».
  • ...
  • (Brano tratto dalla stesso racconto citato da Orazio Dall’Uomo: Jorge Luis Borges (1899-1986), “Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti”. Volume in onore di Borges nel suo 80° compleannoFranco Maria Ricci1980, Formato in 8, Pagine 147 + (2), Collana “La biblioteca di Babele”, direttore Borges, Numero 19).
  • ...
  • Per  coincidenze (?) incrociate mi sono ricordato d'un alquanto teso scambio di battute con Borges, a proposito di Pound.  In automobile, in tre, mentre perdipiù guidavo riaccompagnandolo a Venezia da F. M. Ricci, dopo la settimana all’Heliopolis del 1977. Poi ci  fermammo, su sua esplicita richiesta, alla tomba di Dante, ove meditò alquanto, con la Maria Kodama dietro ed io ancor più arretrato ed in silenzio...  Negli ultimi chilometri fino all’imbarcadero ove ci attendeva un molto trepidante F.M.R., riprendemmo sorprendentemente il tono più disteso e quasi gioioso, merito dell'intervenuto collegamento Dante-Virgilio, con delle sue riflessioni che mi restarono evidentemente dentro, proprio sul VI dell’Eneide e sul ramo d’oro...
  • ...
  • Solo tanti anni più tardi lessi il passaggio sopracitato che mi rese ancor più rintracciabile un mio più scarno doppio, sottile ma non flebile. Ancora poco tempo fa intervenne in me l’esigenza, quasi irriflessa, d’impiantare, sul mio mosaico pavimentale dell'albero della vita, il ramo d’oro, come una pulsione di varco, di monito, di pacificazione.  Mosaico infatti da me dedicato a Karl Evver, che da poco ha oltrepassato il fiume.  In molte altre occasioni comunque Borges cita il VI dell’Eneide, che si rilela quindi centrale nelle sue riflessioni. Anche nell’Inscripción (La cifra, La Rosa profunda, dedicate, tra le ultime, a M.K.) la parafrasi virgiliana esprime il fatto in sé, fisico eppur contemporaneamente oltre-fisico (“...le mani tese nel desiderio della riva di fronte”, in traslato lo strumento corporale di M.K e la mente di B.), con una capacità ineguagliabile d’unire cosa e parola, come dice Leopardi nello Zibaldone a proposito di quel ribaldo del Berni: "...quasi come se - per dirla con Berni - ei dicesse cose, mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero..."      (S.G.)

 

  • Può un genio (N) indiscusso dire delle sciocchezze?
  • di
  • Sandro Giovannini
  • ...
  • “...Quasi come se – per dirla con Berni – ei dicesse cose,
  • mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero...
  • Leopardi, Zibaldone di pensieri

 

  • ...
  • Dedicato a Karl Evver...

 Karl Evver 04.11.2023


  • Da un po” di tempo provo un sempre maggiore disagio a ritrovarmi su spunti e riflessioni di tanti amici che pure stimavo e stimo tuttora sinceramente per intelligenza e cultura. Questo l’attribuisco non solo ad una stanchezza generica od ad un esaurimento della riserva personale di capacità reattiva, pur comprensibili dopo decenni di interventi mai attenuati, quanto alla delusione che in me, karmicamente desideroso da sempre di trovare un M.C.D. nel processo intellettuale che speravo attribuire ad una koinè accettabile ed accettata, rende inaccessibile o forse pazza la sempre utopizzata maionese d’apollineo e dionisiaco, magico soma di cui si potrebbe reputare irrecuperabile non certo la ricetta, ma la buona fattura. E questo solo rimanendo sul piano strettamente metapolitico. I tempi dell’in fine velocior evidentemente agiscono con una cogenza sempre più spinta contro ogni criterio di nuove sintesi per le quali abbiamo lavorato molto difficoltosamente per decenni o d’antichi umori, di cui ci siamo insaziabilmente nutriti fino ad ora, per paura dello spaesamento e della perdita dell’identità residuale, le une ancora credute razionalmente (o forse utopicamente) perseguibili, gli altri vissuti (sia pur equilibratamente) come vitalmente ineliminabili. Sempre però con lo spiritaccio inesausto di quell’estroso del Berni: “Scoperchiare le storte fondamenta del mondo”.  Altrimenti non si spiegherebbe la passione che negli anni abbiamo consumato al proposito.
  • ...
  • Anche perché è da tempo che l’idolatria verso la verità (...falsa, ipocrita o terribilmente ingenua), che sia di matrice fideistica o scientifica, non riesce più a rendere verosimile, (=vera per la maggioranza) come un tempo, l’antica credenza dell’esistenza della verità stessa, al limite - per noi - della sua estrema soglia di pochissime evidenze basali - sempre per noi - ancora verificabili, ed allora avanzano, per tutti, in questi strapazzati contesti fosche nuvolaglie di nihilismo spicciolo ma stravolgente che tempestano comunque l’affollato barcone della verità, più o meno mal ridotto. Se la “morte della religione”, almeno in occidente, è ormai appena sotto il livello di coscienza di massa, camuffata da mille riti sostanzialmente desacralizzati ma sostenuta inconsciamente da un senso d’ineluttabilità derivata - parole perfette in tal senso le ha dette ultimamente Stefano Vaj - comprensibilmente per secoli e secoli di ripetizione, l’ancora ben più ampiamente creduta “dottrina senza limiti” (la scienza come ideologia, anche se forse non come pura volontà di potenza), già incomincia a mostrare tutta la sua insufficienza persino tra gli spiriti più critici o più esigenti: “...la circonferenza che chiude il cerchio della scienza guarda fissamente l’inesplicabile e la logica in questi limiti si torce intorno a se stessa...”. (F.N., N.T., pag.103)  E se pure in questi ultimi decenni i tentativi d’interscambio fra le due culture sono aumentati, rimane che i codici di commutazione, come sorta di stanza di compensazione che pur indubitabilmente s’invoca, non sono riusciti ancora a colmare il fossato ove sono cadute generazioni intere di umanisti e di scienziati. A maggior paradossale evidenza perché tutte le nuove ipotesi della scienza ultimissima, consapevoli non si sa fino a quanto, nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande, sembrano sempre più supportare ogni tipo di volo pindarico al limite delle più scatenate visioni esoteriche, ma poco o nulla la semplificazione ortodossa ultimo-positivista. So bene che da parte di molti scienziati questa lettura sarebbe proprio accusata di rovinoso semplicismo traduttivo, ma resta che il saliente anche iconico che loro stessi (gli scienziati contemporanei) si attribuiscono con titoli come materia oscura energia oscura buchi neri e bianchi multiversi e pluriversi depone proprio in questa direzione. E qui siamo ancora, più o meno, all’ufficialità e non parliamo neanche di coloro che convintamente (od in chiaro) declinano da decenni, con i vari tao della fisica... Dall’altra parte, ad aggravare ulteriormente il divario un’ormai sfatto umanismo, ribadisce, in via ulteriore di fuga, un sociologismo del tutto orizzontale, privo di tensioni verso l’alto e l’invisibile, giudicando oggi quasi grottesche le interrogazioni più che fisiche (comunque impresentabili, con la buona scusa della storicizzazione), dall’interno dello stesso mondo religioso colto. ...I giorni passati nell’Eden, le infinite diatribe sapienziali su sacralità e funzioni dei corpi, prima e dopo la caduta, di una Scolastica non minore e di tanti eccelsi Dottori e Padri della Chiesa. Solo per rendere più evidente lo scollamento, da una parte e dall’altra, dentro l’ideologia scientifica e la storia teologica del passato. In tale concordia discors potrei affacciare che la rincorsa al contrario, ultimamente convergente, è segno ulteriore dei tempi, in linea con la percezione comune che segna sulla lista infiniti casi di rincorse e cedimenti reciproci, ma forse non può cogliere subito, per assuefazione secolare e remore attuali d’approfondimento, il quadro d’immane trasloco di tutto in tutti.  Per agganciare tale intuizione all'operatività creativa di Karl Evver, direi che in lui è proprio questa misura, questa comprensione, sempre alquanto difforme dal prevedibile, perché non solo ideologica ma primariamente estetica, a dare la caratura della sua capacità di svelamento. Enigmatico e penetrante fascino delle sue veloci intromissioni dentro ogni contesto, anche il più apparentemente discusso e corrivo, che però rivela il grado sotterraneo, segreto od invisibile del superficiale (della maschera) come verità segreta esposta in evidenza. Che poi lui manifesti un certo fastidio per certa dichiarativite sia di carattere sociologico-storico-scientifico che esoterico, questo ci fa più contenti che scontenti, nel senso che ormai crediamo di aver compreso che ogni sistema, personalizzato o socializzato, tenda troppo spesso, magari senza volerlo o saperlo, a prendersi tutto l’orizzonte conoscitivo solo per sé o tramite sé, anche quando si spertica di comparativismo, in modo che il letterato, il filosofo, lo scienziato, l’artista, rischiano di vedere tutto tramite la propria primaria specializzazione. Se non sono eccellenti, persino il macchiettismo, la radicalizzazione eccessiva, la supponenza, sono appena dietro l’angolo. Certo ci sono, all’estremo opposto i tuttologi, ma non convengo proprio con Sandro Veronesi quando, a domanda rispose, che era meglio essere reputati radical-chic che nazi-snob...
  • ...
  • Così il tempo del nihilismo inverato, sdoppia ancor più l’arte stessa (la bellezza da sola... riesce ad adornare, al massimo, la sofferenza e la morte) come puro lusso vitale, autoaffermazione, autoglorificazione, gratitudine verso la vita (che s’è ridotta di senso riducendosi nevroticamente alla pura sopravvivenza), dépense, eccedenza sovrana, se non ormai come spreco sacro, od in via deviativa ed illusionistica solo come bisogno, pulsione, narcosi... Infatti mettere in contraddizione i due tipi d’arte mediante una genealogia della salute vitale (la... Grande Salute di Nietzsche ) sulla via del ritorno a sé medesimi come vocazione ed istinto, ma anche per definitiva presa di coscienza, è quanto ha caratterizzato N. come filosofo (autoinvestito ed anche definito) dell’avvenire, contro la décadence. Ma l’arte, ora, nel momento stesso in cui diviene massivamente ed apparentemente più perseguibile per l’allontanamento progressivo da un distillato reale, tentato o riuscito e comunque difficile (mímesis), in favore di un mediato e depurato virtuale, non parla più la lingua-codice ed acquisendo sempre più la gestalt dell’iconica (come nell’idiogrammatica, peraltro ricchissima nebulosa di sfumati leonardeschi) perde paradossalmente anche la sottile dialettica verbale che velava e svela ancora, dietro ad ogni parola in successione, la potenza intrattenibile della ragione e contemporaneamente l’inganno sofistico e latamente logico. Così, nell’evasione ammiccante dell’artista veramente furbo, ma forse non geniale, si deresponsabilizza non solo ogni passata etica, ma ormai persino ogni potenziale tensione metapolitica. Il cosiddetto impegno, almeno vissuto come comunemente inteso - che ben altrimenti operato ha ed avrebbe ancora orizzonti foscamente aperti di praticabilità (esempio, fra tanti, Noica), infatti, rischia d’essere solo una parodia di un recente passato da apparatčik...
  • ...
  • Ma anche tutta questa consapevolezza ormai fa parte del mondo dell’illusione (più o meno impotente). Non possiamo quindi legittimarla come emancipazione dell’(dall’)arbitrario. “...riferire di una complessità crescente che non si satura è riferire di un’esperienza, cioè di un alcunché intellettualmente non assimilabile nel senso della riflessione verbale, benché concerna l’intelletto al lavoro simbolico che si deve esperire per comprendere. In tal senso non è nemmeno esatto dire che il testo ideografico è propriamente intraducibile...” (Renato Padoan, Prefazione a Sun Tzu, L’arte della guerra, Sugarco, 2000, pag.16) Una complessità crescente che non si satura, crediamo però, possa avvenire solo nel campo dell’astratto (o del simbolo che più di un astratto è un estratto) con la limitazione comunque di una implementazione sempre più difficoltosamente perseguibile. Nel mondo dell’animato, (il) tutto tende, arrivato all’intraducibilità (all’incomprensibilità diffusa), alla spinta all’estremo, al modo che intende Girard... come fa la politica politicante, sempre e dovunque. Così diviene corrivo e comprensibile, mentre immettendo sempre più codici di scala e complessità di “narrazione”- i sistemi rischiano il collasso comunicativo se quella “narrazione che vince le guerre” non sia manifestamente, ed ormai anche dichiaratamente, ma sempre intelligentemente atta a truffare le masse. (E’ una necessità intrinseca alla truffa mediatica la lucida sia pur subdola ideazione della narrazione stessa, per quanto esteriormente, esplicitata, essa si presenti sempre più suadentemente complessa). Si compiace così la superficialità mezzo colta o paludata bla-bla, ma soprattutto si soddisfa appieno la sete di compulsività e motilità ed inquietudine sorda, ma potente e stravolgente, delle masse. Consegnando necessariamente la vita di tutti ai più ipocriti ed ai più furbi tra i delinquenti. Ancora, come a dire che, solo superando i due universi sempre a rischio d’intraducibilità (o di traducibilità ad un livello molto, troppo, discutibile), si può illudersi (poi) di penetrare nel multiverso (o nei più universi... sempre che esistano veramente), ove la parola, il numero e l’immagine non siano solo più idonei a riferire preferibilmente il proprio stretto orizzonte di riferimento ma una ricercabile comparazione fra sistemi, in crescendo se non in origine, isolati. Che poi dai più marginali (emarginabili-emarginati) si faccia questo percorso, magari affascinantissimo ma inutile al mondo corrivo, al modo in cui proprio l’ha fatto, ad esempio, Majorana con il suo Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, o con altri approcci, credo conti molto... ma non qui, ora, al nostro livello, ovvero al livello di comprendere quanto corrisponda colpevolmente ma efficacemente il semplificare al non semplificabile. Basti (...si fa per dire) solo leggere le ultime parole del suo rivelatorio studio: “...Se è così, come noi riteniamo, le leggi statistiche delle scienze sociali vedono accresciuto il loro ufficio che non è soltanto quello di stabilire empiricamente la risultante di un gran numero di cause sconosciute, ma sopratutto di dare della realtà una testimonianza immediata e concreta. La cui interpretazione richiede un’arte speciale, non ultimo sussidio dell’arte di governo.” La matematica superiore applicata al corpo sociale. Splendida ed antica utopia. Salvo che, per quella “impossibilità”, poi... si finisce per “sparire”. Sarebbe forse utile poter confrontare questa frase con quella - apparentemente lontanissima - di Frazer, scelta per un mio mosaico pavimentale, anch’esso altrimenti dedicato a Karl Evver, che recita: “...per la natura stessa delle cose le nostre idee sono inferiori alla realtà in modo incommensurabile...”  Nella frase del Frazer la parte più seducente e nello stesso tempo problematizzante è forse la prima. Perché potrebbe verificarsi che la natura stessa delle cose non debba essere necessariamente sola nostra proiezione, se non in primissima istanza, come ci suggerisce la neuropercezione.  Certo ogni lettura della natura stessa delle cose implica comunque un certo “positivismo” d’approccio, ma più come sincerità del metodo, credo, che, come dogmatica. Se tentiamo di togliere le etichette da ogni processo logico che esperiamo e non affoghiamo subito nell’indifferenziato, ne viene fuori che possiamo muoverci con maggior libertà, ovviamente in una chiave antidicotomica, che ci appresta a meglio vivere la seconda parte della frase, ove forse ci tratteniamo più volentieri.  Questa è la forza potenziale dell’aforismatica, se fa base non isolata ed apofatica, non di corsetti dubbiamente autoinvestiti con sociosmanie di patenti farlocche, ma di continui ed onesti trascrittori, di lavoratori sull’immane repertorio coltivato per decenni, nella poca (nei due sensi) misura umana.
  • ...
  • Venendo a cose molto, molto più piccole, potrei dire che l’ELOGICON, ma solo come punta di diamante dell’aforistica dell’immagine, sempre ad esempio, è qualcosa che si è mosso in tale direzione, perché statisticamente non sottrae il determinismo che sembra mostrarsi dal dis-umano fino all’umano, anzi lo accoglie tutto, ma ne indica la risacca inestinguibile come personalmente oggettivabile e quindi anche scientificamente rappresentabile. Oltreché artisticamente. Immagine e parola concentrate al massimo, ma non necessariamente nel modo a cui eravamo tenuti con la simbolica, l’araldica, la monogrammatica, la logica blasonica e patronimica, ed ora magari con la teoria del brand, la pratica telematica del website, etc., etc... Non che esse (le prime) non avessero una magica capacità di centratura, ma la globalizzazione attuale insegue volenterosamente la pratica della disseminazione artata, con una logica del tutto priva di volontà uniformante se non ai suoi più bassi istinti e propositi, comunque paludati.
  • ...
  • Così concentrandoci meglio su noi stessi (la serietà del ricercatore) e prendendo dagli altri tutto ciò a cui non possiamo proprio attingere da soli... praticamente tutto (lo scambio comunitario inteso non in termini settari ma noichiani), diventa allora ancor più arbitrario (peggio se ancora poco o troppo consapevole) il battibecco, tra noi, continuo ed infantile, umano troppo umano, e come dice N.: “...risulta che un umanesimo delicato deve provar venerazione per la ‘maschera’ e non far della psicologia insanamente curiosa, fuor di luogo...”. (F.N., A.B.M., Baron, 1924, 270, pag.162)  Per maschera non trattiamo solo di buona educazione, pur sempre ed ora oltremodo necessaria (mi sono già speso, inutilmente, in un mio scritto al proposito, dedicato a Stefano Vaj), quanto di copertura ed espressione assieme di violenza paradigmatica, di quella vita agente in superficie (con dietro un volto altrettanto autodefinibile), in linea colla propria visione del mondo, ma che sa, arrivati ad un certo limite, di doversi fermare di fronte all’inarrestabile confusione montante. Non mai quindi in linea teorica, ma in linea pratica. Per i motivi di cui sopra. All’entropia. Per questo nell’arte (e qui è in gioco, precisamente, la dedica a Karl Evver), ma anche nella politica (...se e quando, sperabilmente, si manifestasse) la figura del collettore carismatico deve assorbire (ed assorbe) in sé tutte le contraddizioni esperite e quelle potenziali. La formula - apparentemente cretina per gli stupidi intelligenti - è sempre stata (ed è) invece, nel profondo, conseguenza carnale d’una esperienza di passo (...scritta, scritto, diatriba, marcia, cazzotteria). Il Duce ha sempre ragione... con annessa volitiva mascella e santo manganello. ¿Che sia vero o no... conta, ma a quale livello? ¿Veramente... dal laudator temporis acti al laudator temporis praesentis, si può pensare di poter andare avanti così, nell’accelerazione (applicata alla folla, alla massa... che poi siamo tutti noi), come andiamo ora, all’infinito? E’ vero che ci sono, comunque, irriducibili incongruenti - anche coltissimi - che negano ideologicamente il clinamen, pur avvertendolo, senza darne, necessariamente giustificazione logica. In tal modo intuiamo perché, con sorpresa di troppi... verso il degrado, verso lo sfilacciamento della logica, verso la guerra, certi tempi concretissimamente precipitino, qualsiasi sia l’episteme che voglia o tenti storicamente (...Kali Yuga, Secondo Avvento, & co), prima durante o dopo, di definirne (comprenderne) la logica astratta. La logica astratta, cioè, alla quale, differentemente, i colti sempre s’aggrappano indipendentemente dalla sua “verità” che rimane intatta (come spiegazione, magari a posteriori sulla base di osservazioni secolari... ecco perché non dovrebbero rinunciarci, seppur “inutile”), comunque, viene annichilita dalla feroce semplificazione della pratica. La pesanteur, o chiamatela come volete, che non demorde mai. ¿In tal senso anche la ormai scontata riflessione sulla perdita di isolamento protettivo e proiettivo, dell’universalmente espanso mondo occidentale, nel definirne l’intrinseca globalistica violenza epistemica, culturale ancor prima che ideologica e strumentale, come è in E. W. Said, in “Cultura ed imperialismo...”, come fa a non considerare che, evidentissima, sul piano della storia di vasto periodo e non solo limitata a strette aree geostrategiche, ma sempre ed ovunque, ha costantemente prevalso la logica che chi non poteva comunque dominare tendenzialmente e con rilevante probabilità e poche eccezioni, veniva dominato? Certo, questa ricorrenza protrattasi per millenni, s’oppone brutalmente a tantissimi desiderata ideologici, sia autentici che strumentali e si comprende facilmente perché, per tanta improbabile salute mentale, ciò debba essere coperto o negato dall’illusione-speranza.
  • ...
  • Ed un esempio grandioso (di contraddizione) viene sempre da N. quando ironizza sulla dama italiana a Bayreuth che trovava meravigliosamente soporiferi (...fanno addormentare beatamente) i grandi preludi wagneriani. Lo riscontra uno come me che da giovane se ne estasiava talmente... Come a rendere manifesto: ¡ecco la prova per gli apoti... quel lussuoso treno wagner di carrozze rigorosamente a vista che trasporta con palandrane sempre riconoscibilmente firmate, la buona borghesia inesaustamente soddisfatta di sé, nell’eterno ritorno del prevedibile!
  • ...
  • ¿Ma nel caso dell’italiana di cui sopra... caro N.?, dove va a finire la Tua(sua) Grande Salute? quella che Tu dici persino favorita massimamente dal dolore (¿controllato?) e che ha insopprimibilmente al suo centro solo vita che preme, spudorata, oltre ogni pensiero, giudizio e scrupolo morale???  Perché per Te - lo sappiamo bene - non esiste che necessità ed il c.d. libero arbitrio è una più che pia illusione. “L’errore della responsabilità riposa sull’errore della libertà del volere (…) [ma] nessuno è responsabile per le sue azioni, nessuno per il suo essere” (F.N., UU., pag. 50).   Lei, di quella grande salute - magari molto in fondo, inconsciamente, forse stupidamente, ma spavaldamente - ne sarebbe stata una perfetta portatrice sana... senza dover passare da colpa, espiazione, tormento (e necessariamente da dolore), che Tu hai ben dichiarato (tentato) d’insegnare a disprezzare.  E se vale per Te, immaginiamoci per quelli come quella...  Per cui la domanda - del titolo - sulla sua(Tua) grande salute.


 


  • Pierre Pascal Lettere ad una Signora

  • A tu per tu con la scrittrice
  • GABRIELLA CHIOMA
  • penna raffinata tra storia e spiritualità.
  • Intervista
  • a cura di
  • MONIA PIN

 

  • (da “Il Piave” ottobre 2023)
  • Quel che avrei voluto impostare come un’intervista si è trasformato ben presto in un dialogo intenso; restare ad ascoltare tutto ciò che la signora Gabriella Chioma mi narrava mi aveva quasi ipnotizzata, tanto era il suo garbo e la passione per la conoscenza ancora molto forte che io, seppur distante fisicamente da lei, sentivo ancora vivere nelle sue parole.  Nativa di La Spezia, Gabriella Chioma è scrittrice, giornalista e poetessa, saggista, editrice e traduttrice, ha conseguito la maturità classica iscrivendosi poi alla facoltà di filosofia e conseguendo la laurea, ma non si è certo fermata qui.  Ha approfondito gli studi del simbolismo e della tradizione, coltivando anche l’interesse per lo studio della psicologia del profondo che l’ha portata a seguire un corso quadriennale con il dr. Giulio Ciampi, appartenente all’Associazione Psicanalisti Junghiani di Firenze.  Questa è solo una breve introduzione alla sua vita che ha vissuto nell’infanzia i momenti tragici del Secondo Conflitto Mondiale, arrivando ad attraversare poi il mondo della letteratura in tutte le sue sfumature, così da riuscire a conoscere e intrattenere proficue amicizie con persone di grande levatura intellettuale e spirituale.
  • ...
  • Vorrei chiederLe signora Chioma quando ha scoperto la sua passione per la scrittura? Le sue opere a quali generi letterari appartengono?
  • “Ho iniziato a scrivere fin da bambina, avrò avuto all’incirca quindici anni e cominciai con la stesura delle mie prime poesie. Alcune all’epoca furono pubblicate sull’Eco di Bergamo, erano gli anni ’40 del ‘900. Dopo una pausa durata qualche anno ho ripreso a scrivere poesie e ho pubblicato quattro o cinque libri.  Ma poi sono passata anche alla prosa e alla pubblicazione di saggi e libri di narrativa.  Ho collaborato con diverse riviste italiane come critica d’arte e letteraria e ho scritto articoli per mensili e quotidiani, alcuni miei scritti hanno trattato anche tematiche esoteriche tanto da fare da sfondo ad alcuni miei libri”.
  • ...
  • Leggendo uno dei suoi libri “Pierre Pascal, lettere ad una Signora”, edito dalla Novantico, ho scoperto la personalità a dir poco eclettica e straordinariamente vivace dal punto di vista culturale di Pierre Pascal; so che lei lo ha conosciuto.  Può dirci cosa le ha insegnato e come ha influenzato la sua vita?
  • “L’ho conosciuto tramite un amico comune, mi ha colpito molto la sua profondità mentale e spirituale, la sua vita è stata complessa, definizione che lui stesso diede. Negli anni ’30 del ‘900 era una personalità nota ed influente nella Parigi cosmopolita del tempo, tanto da frequentare gli ambienti più variegati, dagli intellettuali ai nobili, riuscendo ad entrare nei salotti più in voga dove ebbe modo di conoscere personaggi provenienti da ogni parte del mondo. La sua cultura e la sua creatività non passarono inosservate tanto che ebbe addirittura l’incarico, nel 1935,  da parte dell’allora ministro francese Pierre Laval, di tentare un’azione diplomatica in Italia, per risolvere una disputa. Pascal parlava fluentemente l’italiano (così come molte altre lingue, soprattutto orientali) e il suo viaggio ebbe successo tanto che ottenne l’accordo con il governo italiano.  A seguito del nostro incontro nacque una profonda amicizia e lui fu il mio mentore, mi introdusse all’arte poetica degli haiku giapponesi.
  • ...
  • Dopo aver letto il suo libro “...lettere ad una Signora” ci si stupisce che una persona di tale calibro culturale ed intellettuale sia stata dimenticata.  Cosa può dirmi di Pierre Pascal?
  • “Il mio libro pone l’accento sulle poliedriche capacità di Pierre Pascal, sulla sua profonda conoscenza sia del mondo occidentale dov’era nato sia di quello orientale dal quale era irresistibilmente attratto.  Egli amava soprattutto la cultura e la storia del Giappone.  Tra le molte sue doti ebbe quella di essere uno straordinario poeta e di cimentarsi con successo nella stesura degli haiku.  Pierre Pascal fu così disciplinato e preciso nella metrica da essere ammesso, unico europeo, all’Accademia Imperiale della “Foresta dei Pennelli”.  Ma il suo interesse copriva un universo eterogeneo che lo portò a scrivere opere che riguardavano Leopardi e D’Annunzio, Edgar Allan Poe e Chesterton, fino agli studi sull’Apocalisse di Giovanni e il lavoro al quale si dedicò fino all’ultimo rivolto a Santa Teresa d’Avila.  Ebbe l’onore di ottenere dalle monache Carmelitane del convento di Avila un bigliettino autografo di Santa Teresa che decifrò e pubblicò.  Fu il modo con il quale le monache contraccambiarono il gesto eroico e nobile di Pascal che durante la guerra civile spagnola aveva salvato le loro vite, evitando l’assalto al convento.  Lui era letteralmente infatuato dell’oriente, in lui s’incontravano due mondi lontani eppure così vicini nell’esprimere la forza di valori inviolabili quali la lealtà, l’amore per la bellezza interpretata nel linguaggio universale della poesia, la fede incrollabile che onora la vita fino alla fine, ed oltre.  Purtroppo alcune sue opere, in particolare quella su Santa Teresa d’Avila e su Edgar Allan Poe andarono perdute dopo la sua scomparsa così come altri scritti.  Amava molto l’Italia tanto da stabilirsi qui negli anni ’40 fino alla sua morte, avvenuta nel 1990 e qui ebbe amicizie profonde con personalità della letteratura e non solo”.
  • ...
  • Potrebbe spiegare cos’è un haiku e se ci sono altri tipi di poemi nipponici che ha appreso da Pierre Pascal?
  • “Gli haiku sono composti di diciassette sillabe, all’apparenza il lettore vi vede delle parole messe a caso, ma così non è naturalmente.  Le parole sono disposte in modo da far riflettere, facendo uscire da quelle sillabe tutta l’anima che il poeta ha riversato nella scrittura dei versi. Una delle mie raccolte più famose si intitola Satori richiamando all’esperienza del risveglio tipico del Buddhismo Zen, un momento di grande intensità spirituale e di illuminazione.  Io sono stata e sono tutt’ora considerata una delle migliori autrici di haiku.  Successivamente ho appreso anche l’arte della scrittura dei tanka e dei sedoka”.
  • ...
  • Cos’altro può raccontarci della sua carriera letteraria? Ha dei progetti futuri?
  • “I miei scritti sono apparsi in vari numeri su diverse riviste, dagli argomenti esoterici su Vie della Tradizione fino alle riviste d’interesse regionale come le pubblicazioni Liguria, L’Italiano e Arte Stampa, concentrandomi sulle opere d’esponenti di diverse scuole regionali e del Futurismo, non trascurando ovviamente gli artisti della provincia spezzina. Nel 1980 ho aderito al “Movimento di Poesia” presieduto da Maria Luisa Spaziani.  Come giornalista-pubblicista ho scritto, in tempi diversi, alcuni articoli per Il Telegrafo, La Voce Adriatica, La Nazione, Il Secolo XIX.   Sono stata invitata in veste di relatrice ad importanti convegni letterari e ho contribuito alla stesura di cataloghi di mostre e schede su personaggi storici, in particolare ricordo il convegno riguardante il Risorgimento Italiano, presentando la relazione “La Contessa di Castiglione”, figura femminile di notevole importanza durante il Risorgimento italiano, alla quale ho dedicato un libro edito dalla NovAntico.  Nel marzo 2003 ho collaborato con un articolo alla realizzazione del catalogo per la mostra realizzata dall'Associazione Culturale “Circolo la Sprugola” di La Spezia, “Omaggio a Giovannino Guareschi - Gli anni del Candido”, patrocinata dalla regione Liguria, Comune e Provincia della Spezia e realizzata in collaborazione con l’Istituzione per i Servizi Culturali di La Spezia.  Come relatrice ho partecipato ad altri convegni patrocinati da istituzioni pubbliche locali, nazionali ed internazionali.  Nel 2013 ho ottenuto il prestigioso riconoscimento “Il Sigillo di Dante” e nel 2016 sono stata insignita del titolo di accademica da parte dell’Accademia lunigianese di scienze Giovanni Capellini di La Spezia”.
  • ...
  • Ci sono ancora progetti importanti nella mente e nel cuore di Gabriella Chioma, l’età anagrafica non influisce sulla sua inesauribile volontà di imparare e di aprirsi alla conoscenza, con lo stesso entusiasmo nutrito in gioventù e che il tempo non ha scalfito affatto. La sua produzione letteraria è vasta, la sua abilità di trasformare in parole concetti e sentimenti lasciano un’impronta indelebile nel lettore. Il suo stile alterna la semplicità e la chiarezza ad una raffinatezza che lascia trasparire un ampio patrimonio di sapere e un’intensità emotiva altamente vibrante tanto da rendere la lettura così scorrevole che, approdando al finale di un suo libro, ci sembra ormai di vedere tra le righe le tracce di un altro scritto che presto prenderà forma e troverà la propria sostanza direttamente dall’anima dell’autrice.
  • ...
  • Ci congediamo con la promessa di risentirci quanto prima.   Sono grata di aver dialogato con una scrittrice che ha la rara capacità di spalancarci le porte verso universi nuovi, dove una frase è foriera di domande e la risposta accomuna per un istante lettore ed autrice in un viaggio di scoperta di sé, dell’altro, come fossimo un unico insieme, nell’atmosfera ineguagliabile di un satori che ci proietta verso oriente, incamminati in un risveglio che ci aiuta a scoprire la nostra immensità, illimitata natura della nostra essenza spirituale.

  • giampaolodicocco LEVIATHAN II NEUES KUNSTFORUM KOELN 2015

  • Intervista a
  • GIAMPAOLO DI COCCO 
  • a cura di
  • Roberto Guerra
  • (da  NEOFUTURISMO, n° 21 del 05.10.2023)
  • Domanda di Roberto Guerra: di Cocco, un eccellente background, la sua arte vita. Architetto, scrittore, artista contemporaneo, uno zoom in libertà?
  • ...
  • R: Ho lavorato molto ed in molte direzioni, ho ricevuto molti complimenti e molti dinieghi, sono stato di una curiosità vorace soprattutto di quanto non conoscevo e non sapevo fare, ho praticato molte discipline convinto come sono che le arti vanno esperite di persona per scoprirne le connessioni interne.  D'altronde la libertà è necessaria per fare arte.
  • ...
  • D: di Cocco come artista "postmoderno" evoluto, sculture "giganti" anche, "razzi spaziali" ecc., in Germania Abaco Space, un’astronave personal gallery, come vedi l'arte contemporanea, secondo me, in genere, in decadenza altrove?
  • ...
  • R: Non saprei dire se sono postmoderno né se io sia evoluto, diciamo che faccio lavori nello spazio e per lo spazio, complementi formali per rendere più espressivi gli spazi architettonici, da qui di necessità le grandi dimensioni delle mie installazioni. Quanto ad Abaco Space, che deve il suo nome alla rivista Abaco che pubblico dal 1977, non si tratta di una galleria ma di un centro culturale, dove, oltre a mostrare arte si suona, si canta, si recita. Ho sempre avuto voglia di disporre di un luogo per la cultura e sono felice di averlo trovato a Berlin-Kunow, in Germania e di poterlo gestire assieme a mia moglie Birgit. Vivendo a Berlino vedo nell'arte contemporanea tutt'altro che decadenza, al contrario vedo molta vivacità e intraprendenza.
  • ...
  • D: G. di Cocco, sinergia con autori come Pontiggia, Eco, Dorfles,  etc., in questi mesi "Ferrara mon amour", per la città d’arte estense. E con tutta Europa per la tua arte.
  • ...
  • R: Ho avuto la fortuna e il grande privilegio di poter stringere amicizia e di collaborare con alcuni dei maggiori intellettuali del nostro tempo. Gillo Dorfles scrisse la sua prima recensione al mio lavoro nel 1982, nel catalogo della mostra alla galleria Vera Biondi, a Firenze.  Fu il primo di molti articoli che Gillo mi dedicò, fino all'ultimo, nel libro "Gli artisti che ho incontrato" ed. Skira, Milano 2015.  Con Gillo si sviluppò una vera confidenza, ci divertimmo molto in varie occasioni.  Eco dirigeva Alfa Beta, la rivista d’arte di Gino Di Maggio a Milano, quando ci lavoravo anch’io introdotto da Omar Calabrese.  Giuseppe Pontiggia, “Peppo”, è stato uno dei miei più grandi amici, mi ha onorato della sua stima e della sua considerazione.  Devo a lui se ho avuto il coraggio di pubblicare dal 2001 quanto mi veniva da scrivere. E’ vero, ho avuto il privilegio di essere invitato a realizzare i miei progetti in varie parti d’Europa, dalla Danimarca alla Sicilia, dalla Francia alla Svizzera ed alla Germania e negli Stati Uniti, a New York, nel 2010.  Ed ora che sto per trasferirmi a Berlino, lascio a malincuore Ferrara, dove ho vissuto volentieri per tre anni e che mi ha regalato belle ispirazioni. Per questo ho voluto salutare i cari amici ferraresi dedicando loro un nuovo numero di Abaco, “Ferrara mon amour”.
  • (ABACO, aperiodico di cultura contemporanea, 21 numeri, 1977-2023, 
  • www.abacorivista.it       giampaolo.dicocco@tiscali.it
  • e:
  • Abaco Space Contemporary Art, Thomas Muentzer Strasse 21, D-16866 Kunow (Gumtow), Germany.   
  • SCULTURE: 
  • sopra : Leviathan II, Neues Kunstforum Koeln, 2015,
  • sotto: Acque Alte-Acque Basse, parcheggio della Stazione Centrale di Firenze, 2017.

  • giampaolodicocco Acque Alte Acque Basse parcheggio della Stazione Centrale di Firenze 2017
  • Gorlani Maritare il Mondo LE TRE VIE

  • Il gioco
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • (da “Maritare il mondo”,
  • La finestra Editrice, 2023,
  • Lavis (TN), www.la-finestra.com)
  • Si trattiene il gioco sulla punta della lingua e lo si ingoia. Giocare col mattino, in ogni momento carezzare il paradosso. Che il giorno trascorra veloce o lento non ha la minima importanza.  “Veloce, lento”, che cosa significano?   Giocare è inalare il fumo dissolto attorno alla montagna ove sta Shiva semicoperto da una pelle.   Con un dito persuade la tigre a trasformarsi in seggio e vi si asside sopra.  Se si è fumato una volta è per sempre.  Se si è smesso un istante è per sempre.  È il mondo che arde, non la sacra gangia nella pipa verticale custodita da Balaganesh.  Pipa impalpabile che il gioco richiama e allontana.   Erba intimamente fusa alla carne: sparisce e ricompare col respiro.   È un gioco girovagare, riposare, mangiare, meditare, osservare lo strano viso dell’“altro”.   Ed eziandio sorridere o lamentarsi o tentare l’uscita dal labirinto.  Le volute dell’incenso assumono le forme delle karika alla Mandukya-upanishad; eccone una scheggia: «Questa è la suprema verità: nessuna cosa è mai nata». (1)  E il fornello freddo trasforma lo yogin in pietra vivente assai più del fornello ardente.  I piccioni, le gazze, le ghiandaie e altri uccelli si posano sul suo capo, sul naso, sulle spalle; il muschio cresce sulle sue braccia, l’edera lo incorona.  La pelle gioca coll’acqua gelida, con la neve, col fuoco, con l’aria invernale.  Non c’è nulla da sentire che non sia ananda.  Lo rivela il prana che scende e si diffonde attraverso le settantaduemila nadi, ciascuna delle quali contiene a sua volta trilioni di universi.  La cecità osa dire “io”, sottolineandone l’inconsistenza con un breve cenno.  Osa dire “nasco”, “muoio”.  Il principio di  non contraddizione, il principio di ragione sufficiente continuano ad esercitare la loro autorità nel vicolo cieco che impone un giogo funesto, giacché proteggono dalla follia. Gli smarriti, in fila o sparsi, borbottano minacce, promesse, orrori, ricchezze. Chiamano l’incubo “unica realtà”. Non vedono altro, portano il fardello del “peccato” e nelle loro enciclopedie si fregiano di spiegare scientificamente la tragicommedia dell’esistere. Un’ombra terrificante compare nel sonno e sfiora il dormiente. Non ha consistenza: tocca le unghie sporche del vespillone e si dissolve. Il burattino trema.  L’intrico infittisce, le notti e i giorni di Brahma si uniscono in ghirlande.  Inizio e fine sono supposizioni infondate. Nessuno vedrà mai alcuna conclusione, né una prima volta. Mentre si guarda l’ignoto se ne ha già contezza. Si conosce tutto prima di conoscere.  Uddalaka Aruni chiese al figlio: «Shvetaketu, mio caro, dato che sei così soddisfatto e orgoglioso della tua conoscenza, hai mai chiesto quell’insegnamento per cui ciò che non si era ascoltato è come se lo si fosse ascoltato, ciò che non si era pensato è come se lo si fosse pensato e ciò che non si è conosciuto è come se lo si fosse conosciuto?». (2)   La chiave del labirinto rivela l’inganno: sembra un serpente, ma è una corda animata dal chiaroscuro delle foglie.  Il motivo dell’apparire erroneo non sta nella corda, ma proviene da una fonte estranea ad essa.  Ciò implica dualità, laddove si vuole indicare la non-dualità: l’aporia è insita nella sostanza delle parole. Paramashiva non è toccato né dalla dualità né dalla non-dualità.  Eppure tutto lo riguarda.
  • 1) Gaudapada, Mandukyakarika, Advaita Prakarana, 48, Asram Vidya, Roma 1981. 
  • 2) Chandogya-upanishad, vi 1, 3. Cit. in H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, Mondadori, Milano 2001, pp. 281-282. 


  • Gorlani Maritare il Mondo LE TRE VIE

  • Le tre vie
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • (da “MARITARE IL MONDO”,
  • Prefazione di Giovanni Sessa, Disegni di Sofia Ferrari,
  • La Finestra editrice, 2023,
  • Lavis (TN), info@la-finestra.com  pag.80)

  • All’uomo è dato percorrere due vie solo in apparenza contrapposte: andata e ritorno. Sulla scala di Giacobbe sono discesa e salita. Nel mandala originario, ovvero nel chakra-ruota simboleggiante la Manifestazione, sono l’allontanamento e il riavvicinamento al Centro. 
  • ...
  • Nella prima, in sanscrito pravrit-timarga, ci si riconosce nell’uscir fuori da se stessi, si promuovono le vritti (le onde mentali, i pensieri) e si agisce.  Non ci si chiede dove conduce: si sogna.
  • ...
  • Nella seconda, nivrittimarga, la via illuminativa, ci si volge all’interno, con l’attenzione fissa sul mozzo del mandala, ricolmo di “vuoto” e, per mezzo della Conoscenza, ci si distacca dall’identificazione nei pensieri e nelle attività.  Se il mozzo non fosse vuoto, non potrebbe essere attraversato dall’asse, il motor immobilis.   Scrive Pico della Mirandola in De hominis dignitate: «Così discenderemo, straziando l’uno-tutto nella pluralità delle cose, come i Titani fecero di Osiride, così risaliremo, riducendo ad unità la pluralità delle cose, come Febo le membra di Osiride». (1)   Nella prima vale il motto eracliteo: «Omnia secundum lite fieri»; nella seconda il pensiero mirandolano per il quale l’agire sacro «non est aliud quam maritari mundum».   In effetti nella prospettiva del divenire, l’esistenza è lotta incessante e movimento continuo teso al raggiungimento di una soddisfazione perfetta impossibile.  Nella prospettiva dell’aspirazione al Risveglio (all’interno della quale la teurgia, l’alchimia, lo yoga rappresentano declinazioni del modus operandi) governa invece la corrispondenza, ovvero il riconoscimento di un’identità comune alla trinità principiale e a tutti i fenomeni seguenti. Petrarca, il cui genio segnò la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, nella prima contemplava le esigenze della seconda; riconosceva cioè l’ineluttabilità della violenza nell’esercizio del potere, ma, nel contempo, si piegava al compromesso finalizzato alla pace accettabile, poiché non dimenticava gli imperativi della concordanza.  Ci sono sempre valide ragioni per guerreggiare, ma la ragione più alta svela la pace.  Nella reintegrazione consapevole allo stato di pienezza del Sé le esigenze di pólemos svaniscono.   La Conoscenza-Amore induce a riconoscere la Presenza dell’Uno nella molteplicità: «Se vogliamo conoscere l’Uno, non possiamo ricorrere alla scienza o a un atto intellettivo, come avviene per gli altri oggetti del pensiero. Quel che ci consente di coglierLo è, invece, una sorta di Presenza che va al di là della scienza». (2)   Lo sforzo connaturato al contendere si esaurisce, l’Albero della Vita prorompe nell’intimo in tutta la sua gloria: axis mundi, ma pure punto, cerchio, dato dall’unione di radici, rami, tronco. Il primo passo è l’ultimo. «La fine che cerchi racchiudila nel principio». (3)  Gli opposti coincidono (ma si tratta di opposti complementari o di princìpi in rapporto gerarchico tra loro e solo relativamente opposti?  Non si dà parità perfetta nel Manifesto.  Il principio superiore contiene l’inferiore e il Principio primo li contiene e trascende tutti.  La scala è composta da gradini).  
  • ...
  • Giacché la prassi sulla via ascendente è maritare le differenze per risolverne la contesa nell’Unità ontologica, non si pretenderà di modificare la natura degli eventi, omologandoli, si eviterà l’ennesima prepotenza e si comunicherà.   Il globalismo contemporaneo, invece, è un percorso orizzontale che non supera la contrapposizione e la sua reductio ad unum è parodia dell’Unità; dove l’utopia (nel senso più deleterio) passa, lascia distruzione, squilibri estremi, desolazione, abitudine alla menzogna.   Sul nivrittimarga, il principium individuationis resta inalterato, i colori non vengono stolidamente mescolati, le differenze continuano a valere quali strumenti di condivisione, il male e il bene chiedono sapiente discriminazione, se è indispensabile combattere, si combatte e così pure si preserva la vita qualora questa necessiti d’essere custodita. Semplicemente si vola in alto, di là dal dicibile, verso l’apice sovrumano immanente in ogni atomo.
  • ...
  • Ne deriveranno attività meno brutali, più armoniche, più giuste, non costrette all’interno di gabbie nomate “leggi”, bensì guidate dal Dharma, l’ordine cosmico.  Shri Krishna all’albeggiare della presente Era ne enunciò mirabilmente i capisaldi nella Bhagavadgita e nell’Uttargita. Confortati dalle parole di Shri Keshava, è opportuno non disperarsi, nemmeno di fronte all’impetuoso dilagare dell’ignoranza, con tutti i suoi corollari; piuttosto è indispensabile fortificare volontà e comprensione, senza deviare dalla veduta illuminativa abbracciata.  
  • ...
  • C’è infine una terza Via paradossale; quella in cui si sale mentre si scende e viceversa. È una via divina, trascendente la dualità; non la si può nemmeno considerare una “via”.  Lo shivaismo Trika del Kashmir la adombra.  Le parole possono soltanto vagamente indicarla, tradendola. La si scorge nel più profondo di se stessi; contiene tutto ma da nulla è contenuta.  Non annulla le due vie in precedenza illustrate.   Non esime dall’ascendere.   Esplode improvvisa.

  • 1) G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Il Basilisco, Genova 1985, p. 16.
  • 2) Plotino, La bellezza, l’anima e l’uno, a c. di D. Susanetti, Feltrinelli, Milano 2021, p. 90. Le maiuscole sono nostre.  
  • 3) D. Czepko, Sapienza mistica, a c. di G. Fozzer e M. Vannini, Morcelliana, Brescia 2005, p. 40.

  • Straw dogs

  • A proposito di due libri
  • “Il dramma di Zarathustra” di Hans-Georg Gadamer,
  • a cura di Carlo Angelino, Il Melangolo, 1991,
  • Il ‘terribile segreto’ di Nietzsche
  • di Carlo Angelino, Il melangolo, 2000.
  • Sandro Giovannini
  • Da giovane mi sono seduto, inconsapevole, (...non c’erano ancora tutte quelle targhe in tedesco sui pietroni), sulla panchina proprio vicino alla “...possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlej, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero...”. Inconsapevole, perché non conoscevo ancora la rammemorazione sulla “...storia dello Zaratustra. La concezione fondamentale dell’opera, ‘il pensiero dell’eterno ritorno’, la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta - è dell’agosto 1881 - camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide...”. (1) Senza le targhe... avevo infatti già letto abbastanza Nietzsche, ma tale riferimento dall’Ecce Homo mi era sfuggito, forse perché la sua carica di virulenza paradigmatica l’avrei potuta forse assimilare (ma non allora) all’intuizione discriminante di cui parla tutta “...la tradizione classica indiana - tradizione filosofica, psicologica, spirituale e metafisica - specializzata nella comprensione teorico-pratica dell’intuizione”, (2) o, in campo occidentale, quella che, ad esempio, Jung denominò “immaginazione attiva”. Solo più tardi, ci arrivai, nella perseguita ricerca, tra ripetuti processi assimilativi e differenziativi. E non mi ricordo che altrove N. richiami tale evidenza (violenza) illuminativa a proposito di altri plessi del suo pensiero che pure procede di continuo nel dramma (...prevedibilmente ma conseguentemente sempre poco accomodante) determinato anche dall’intrinseca pericolosità della volontà di potenza e/o volontà di verità. Lo sconcerto “umano troppo umano” dei suoi più vicini corrispondenti e persino dei cari amici, alla fine, ha del facilmente comprensibile, ma porta in sé, soprattutto per chi come Overbeck si esprime, in quel tempo, con concetti molto simili (3) anche l’incomprensibile del differenziale tra personalità perseguita ed essenza esperita. C’è in più che in quegli anni tendevo a tenere lontano da me proprio il “Così parlò...”, per una sorta di recondito e forse inconfessabile fastidio proprio verso quel libro, mentre gli altri li leggevo sempre a riprese, con rinnovato slancio. A nessuno interesserebbe conoscerne le complesse motivazioni e quindi su questo potenziale vortice di elucubrazioni, mi trattengo, sostenuto ancor più dall’acuto passaggio nel saggio di Gadamer. quando accenna: “...Heidegger si è risparmiato la tendenza consueta a sbarazzarsi della fase del Zarathustra e, al contrario, trova nella figura tragicamente minacciosa di Zarathustra che lotta per affermare il suo coraggio della verità, la più coerente espressione della contraddizione in cui si impigliò il circolo magico della riflessione caratteristica del concetto ‘moderno’ di autocoscienza.”  (4)
  • ...
  • Successivamente affrontai per un tempo, diversamente dal mio solito, molto dilatato il libro rosso ‘scuro’ sullo Zarathustra (forse per esigenze editoriali... dopo il successo planetario dell’edizione integrale illustrata in facsimile del 2009 del libro rosso/liber novus, il cosiddetto libro segreto, di Jung), che invece riporta distesamente i seminari del ‘34-’39, interrotti, sullo Zarathustra. L’intero seminario Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche, (tr. it. e cura di A. Croce, Bollati Boringhieri, Torino 2011-2013, 4 voll.), costituisce, nell’insieme, la più lunga opera di Jung e il più vasto commento esistente a una singola opera di Nietzsche - se non a una singola opera filosofica. Quindi, pur tra infinite cose che non mi tornavano (ovviamente per mia carenza), la disposizione interiore cambiò. Questo perché qualsiasi siano le prese di distanza su Jung, comunque con lui si ribalta il paradigma psicologico precedente e si torna ad una compenetrazione organica col numinoso. “...L’interesse fondamentale del mio lavoro non consiste nel trattamento delle nevrosi, ma nell’accostamento al numinoso. Infatti, l’accesso al numinoso è la vera terapia, e nella misura in cui si arriva alle esperienze numinose si è salvati dalla maledizione della malattia...” (5) L’enantiodromia eraclitea attribuita da Jung a N, come un tratto distintivo della sua personalità complessiva coscienziale ed autoriale (che per Jung, a scanso di equivoci, sono la stessa intima cosa), in contemporanea con una durezza di trattamento critico parallela alla chiara ammissione di un fortissimo debito esistenziale, è quello poi che mi creò il quadro di compatibilità, diciamo sentimentale, per quella lettura. D’altronde la stessa linea fenomenologica di Husserl, (basta leggere “Fenomenologia dell’inconscio. I casi limite della coscienza”, (6) nel suo paradossale “attraversare i confini”, ove sono ripensati tutti i concetti, di nascita, sonno e morte e di altre dimensioni sempre tenute ai margini, per me poi mediate tramite la lettura trascendentalista di Angela Ales Bello) e poi della Stein, offre continui impulsi alla sempre evocata luce interiore che riesca ad illuminare, seppur da prospettive di sguardo altrimenti dislocate, il flusso esperienziale. Senza neanche avere quel debito profondo d’avversione verso l’ontologia neo-platonica, come sostiene Lövith a riguardo di Heidegger, che si traduce poi, nella metafisica dell’esigenza delle parole, ben oltre la metafisica dell’esigenza delle prove... anche se allora convenivo (fine anni ’70, da “poeta militante”) che la maggiore potenza del giudizio heideggeriano consistesse proprio nel momento divinatorio del linguaggio, con queste mie: “...Il contatto tra il momento espressivo e momento significativo è delicatissimo ma perseguibile appunto solo lungo la linea di una ricerca radicale”. (7) Domande giovanilmente radicali (al solito) poi senza risposte, che non siano lo scoperchiare il linguaggio morto, tappeto di foglie disseccate e che si reinvolvono nella luce e nell’ombra di questa natura per noi così necessaria, che pur non sembra affatto corrispondere, nell’appercezione umana, a nessuna delle più late e diverse esigenze morali. Forse solo ad immagini evocatrici, stravolgenti, che ci riportino dentro la nostra anima intuitiva. Nella cometa ciclica Heidegger, l’eccessivo logocentrismo pascola, per sempre ormai, l’essere con i cani del linguaggio (greco/tedesco) e nella luce della sua radura, proprio nella corona verde scuro attorno, tiene pure in ombra (al contrario) la romanità riequilibratrice e la sua carsica rinascenza, con un paradossale rientro nella metafisica, seppur del negativo. Questo lo sentii dire proprio da Jünger: “...la patria di Heidegger è il bosco... suo fratello è l’albero...” , nel 1977 a Pisa, in “La riscoperta del sacro da Heidegger ad Eliade”. Il primo personale incontro tra i due - J. e H. - avvenne, significativamente, a Todtnauberg, residenza montana di Heidegger, in Selva Nera), e Jünger, nel post-convegno, ci disse più esplicitamente dell’“inattaccabilità” di H., vera volpe nella selva, che, poi, negli atti è riportato: “...nella sua ricchezza egli era inattaccabile, sì, inattaccabile - perfino se gli sbirri venissero per sequestrargli il cappotto - il suo astuto guardar di lato lo rivelava. Avrebbe entusiasmato un Aristofane”. In quel convegno più che immeritatamente, non per il decente e forse non trombonesco (...la mia sarebbe stata comunque una trombetta) sforzo di assurda sintesi centrata proprio sull’“essere per la morte” a cui contrapposi, il nostro de-siderato “la morte per l’essere”, con un brutale ma efficace ribaltamento, ma per la presunzione giovanile con cui l’affrontai, tenni una relazione. Convegno organizzato da Vettori, aperto da Jünger e chiuso da Eliade. Estasiato da questi grandi, forse rapito nella mia personale sequela della mito-poesia che desideravo potesse scoprirsi proprio allora anche comunitaria e per quanto potessi capire del vero dialogo tra poeta e pensatore e quindi abbacinato dallo sfarfallare verso il verde (scuro e l’oro):... Quando la luce mattutina cresce sui monti...
  • ...
  • Ed a conforto, Eliade, anche da come ci riconfermò personalmente Staglieno, considerava Il mito dell’Eterno ritorno (Borla, 1989) come la sua opera più importante. Il centro di tutto. E quindi tentare davvero di comprenderlo. Sempre cercando tracce, spunti, lacerti, fallimenti, vittorie. La morte, certamente, ma anche la vita. E corrispondentemente, perché noi constatiamo, esistere accanto alla morte, sempre, la vita. E’ la vita che torna uscendo dalla morte... come la morte esce dalla vita. Banale dirselo ma non banale chiedersi perché se possiamo uscire dalla vita, quando vogliamo, non possiamo entrare nella vita, quando vogliamo. Non ci spetta perché noi siamo prodotti della Natura. Liberi nella nostra finitezza e finiti nella nostra libertà. Ma questo pulsare eterno, garanzia di vita e morte assieme, è prova, ineludibile, della ciclicità.   Non-duale.
  • ...
  • Così, lentamente, sono giunto alla lettura di questi due testi su N, che valutai importanti, non solo per il loro valore intrinseco, ma perché ponevano il problema (centrale per la mia equazione personale) della possibile/impossibile concordanza logica (...ora parliamo di cose serie...) tra l’eterno ritorno dell’identico e volontà di potenza. Considerare poi tali due dimensioni centrali del pensiero maturo di N., in qualità di “teorie” per molti studiosi del suo pensiero, è fuorviante, proprio per la sostanziale circolarità (anche come fattore pulsionale e non solo strettamente mentalistico in lui) del processo veritativo. Il “terribile segreto” ed il “dramma”, così fortemente evidenziati da Carlo Angelino nei due rispettivi testi, mi richiamavano già in quel mio tempo di riflessione a qualcosa di più di una problematica strettamente ermeneutica sul problema in questione. Quindi esulando da una apparentemente pura, o libera discussione su una linea filosofica (tra le possibili), che, qualora imboccata e non rifiutata, rimossa o contrastata, potesse riguardare, in parte o tendenzialmente alcuni di noi pensanti, per riferimenti comunque considerati non secondari, ma proprio un fattore di vita del pensiero e dell’azione conseguente.
  • ...
  • Infatti nello stesso periodo registravo il crescere ed il progressivo rinforzarsi di una linea filosofica, proprio inattuale, che riguardava da vicino una nuova risistemazione possibile, oltre che auspicabile, a carico del “pensiero di tradizione”, ovvero di quella linea che ha avuto ed ha tuttora, prima con G.F. Lami e poi con G. Sessa, validi interpreti. Per qualche anno avremmo anche potuto con il movimento di pensiero “Nuova Oggettività”, persino favorire felicemente tale originale ed originaria posizione, come uno dei pochi transiti attivi ed importanti, del tutto nostri - per quanto possa essere nostro un movimento di pensiero - verso una valorizzazione, anche comunitaria, fuori dei soliti logori schemi di bassa dialettica ed antidialettica. Ma la scomparsa del tutto imprevedibile di Lami vanificò il processo in fieri. Ancor più, ovviamente per carenza, questa esigenza di chiarimento mi si è fatta più evidente, ed ora pressante, perché tutta una costellazione di pensiero che, in linea di partenza si sarebbe potuta considerare sostanzialmente omogenea, pur nelle sue geneticamente legittime differenze costitutive, è arrivata ormai alla presa d’atto d’insuperabilità derivate. Ma al centro rimane, spesso incredibilmente, proprio quel terribile segreto e quel dramma, del giovane/vecchio N., ovvero il possibile riscontro tra eterno ritorno dell’identico e volontà di potenza (e/o volontà di verità).
  • ...
  • ¿Che cosa può aver significato in fondo, se non questo (come problema, ovviamente), nella storia intellettuale di un Lami il lavoro di primissima mano su Eric Voegelin, con una serie di antologie e poi i lavori non certo di routine accademica su Tilgher ed infine su Evola, trovando una strada di approfondimento esegetico sulle diversamente plausibili ed attuabili vie realizzative e contro ogni distacco tra vita vocazionale, vita del pensiero e magistero realizzato? “Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente”, (8) suggella meravigliosamente (ed icasticamente) in limine, tutto il suo portato d’interrogazione e di prova esistenziale contro ogni resa diversamente paludata.
  • ...
  • ¿E come altrimenti intendere già tutto il compiuto da Sessa lungo i suoi libri più importanti, quello su Michelstaedter, fondamentale su Emo, centratissimo su Evola, di ricerca sulla physis nella Germania segreta con cinque grandi pensatori come Stefan George, Ludwig Klages, Ernst Jünger, Walter Benjamin, Karl Löwith; gli altri libri pubblicati e curati a corona su questo specifico processo di pensiero e con i prossimi lavori in programma sulla linea d’intersezione tra necessario recupero della physis ed il “sempre possibile dell’origine”?
  • ...
  • A tal punto si capisce meglio perché io giudichi fondamentale una giusta riflessione, non solo demandata alle giuste menti, ma anche a sensibilità comunque orientate a trovare una via di sostegno complessivo, su tale dimensione... Non sapere o non capire o addirittura non riuscire neanche ad intuire, che una visione ciclica, pur non meccanicamente intesa, ed una visione linearista e rivelazionista ed all’interno delle due, una sorta di libero arbitrio pur diversamente declinato, non debbano o non possano trovare un punto di dialettica risoluzione nella prassi anche della vita ordinaria, mi sembrerebbe un’offesa all’intelligenza del tentativo (o al tentativo dell’intelligenza) della comprensione/risoluzione, sempre pur così difficile, delle cose del mondo. Ma è pur altrettanto vero che la ricerca filosofica (¿pura, impura?) ha operato, troppo spesso nel tempo, con un disprezzo totale per la vita reale che è anche la vita dei più, che comunque ci attornia ed assedia, considerati, i più poi, come greggi ad uso dei pastori, tramite i cani. Questo anche indipendentemente dalla specifica visione ideologica, che potrebbe meglio comunque giustificarsi (a poterla giustificare), almeno logicamente, in un reazionarismo organico.
  • ...
  • Gott als Tod, Tod als Gott...(9) (...sia Dio che gli Dei) potrebbe rappresentare questa voragine senza ritorno, la scepsi antimetafisica come dice Angelino di N., prima e dopo di noi, l’infinità senza vita (apparente) che è la morte (ciò che si mostra nel piccolo del grande Niente) ma constatabile da tutti. Ma se operasse davvero - in noi - (e qui non è funzione del credere quanto almeno dell’illudersi di constatare) l’eterno ritorno dell’identico, qualsiasi fosse stata o sia ancora poi la figura geometrica pluridimensionale che noi si alleghi alla metafora, ci sarebbe una vera Volontà di Potenza che sarebbe agente al di fuori di noi e persino senza o contro di noi, magari pur, necessariamente, inglobandoci. In corrispondenza con tale volontà di potenza “esterna” se ne potrebbe definire una come “interna”, ovvero legata (forse, solamente e disperatamente) all’uomo. In tal senso si costituirebbe l’interpretazione letteralista di Heidegger, riportata da Gadamer, (10) lodandola di “prospettiva decisiva”, ovvero il sostituire, nella pulsione umana, una supponibile/indefinita volontà di potenza (che si dovrebbe presumere aver comunque uno scopo) proprio con il dichiarato “senza scopo” (se non reagire al senza scopo medesimo), nella volontà di volere di N. Resterebbe però, il problema, incistato come un tumore, nella dimensione postmetafisica. La volontà di potenza (quella ipnoticamente rassicurativa) sarebbe allora il logico grido dell’umano - Angst del Servo contro la Signora morte - nella subìta vacuità del mondo in favore del nostro desiderato destino. ...come vacuità e destino. Contro l’unica realtà divina (l’unica signoria) che sarebbe la morte. ¿Questo, indifferentemente, sia nel caso di un universo ritenuto ciclico che di uno ritenuto lineare? Indifferentemente forse per il concreto, verificabile, esito umano, ma non per la comprensione che gli umani possano avere dell’alta realtà in gioco, de-siderati sulla porzione di terra con la nostra piccola tabula fati che capita in sorte. Con in più il sospetto che le rappresentazioni della ciclicità e della linearità, siano la basale intuizione che di necessità trasferita linguisticamente, tendenzialmente inganna. Ma essendo l’eterno ritorno dell’identico primieramente pulsionale manda l’eco (qui, nel mondo che vive) dell’antico grido di rifiuto della morte e di conseguenza attiva, consapevolmente od inconsapevolmente, l’umana volontà di potenza. Comunque, silenziare per secoli questo tipo di morte/vita (ricomparsa evocatoriamente con N. in modalità scandalose di “spirito libero”, intellettualmente ateo ma arcanamente più che consapevole dell’enormità della propria personale e indecifrabile, evidenza), morte/vita di scelta ciclica, ha significato sostituire, necessariamente, per secoli, un’altra vita/morte di scelta linearista. E questa non è un’opinione.
  • ...
  • ¿E se conosciamo bene quel grido, chi ha detto che dobbiamo amare per forza l’eterno ritorno dell’identico... sostitutivamente soggiogati dal numinoso e fatale fascino (Signore, Divino) dell’immutabile? ¿Persino considerandolo vero? Esso sarebbe il “terribile segreto” di N. ed il “dramma” di Zarathustra non più la rappresentazione di uno stupefacente veggente alienato, quanto il fatto che stupisce, ancora e sempre, dell’ordinario squilibrio originario. Al quale si può reagire con uscite, comprensibilmente anche se non ugualmente, verso l’assenza o la presenza, (verso l’affidamento, la sottomissione, la pazzia, il suicidio, il gioco estremo, il grande gioco, la sfida, il superamento...).
  • ...
  • Per tutto questo non ho che flebili risposte a fronte di spaventose domande... ove l’invocata innocenza dello spirito del bambino/Zarathustra... “...del gioco, della completa assenza di senso del tempo, in cui la pienezza della vita è tutta nell’attimo¸ è lo spirito di chi riacquista fiducia, anche quando tutte le opportunità sono andate perdute. Questa è per Zarathustra la forma più alta dello spirito e il vero contenuto del suo messaggio”. (11) Parole di Gadamer, ma parole, che per lo stesso Gadamer potrebbero suonare senza senso per chi annuncia l’oltreuomo, a meno che ogni parvenza di progetto, costruzione pensata, programma prestabilito, (magari tutti ridicoli, fallaci o disastrosamente gloriosi), venga assoggettata ad una danza che potrebbe essere valida solo se fatta da un Dio, ovvero in costanza di potenza assoluta. Danzare (non marciare), per non marcire nella propria morte. Ma allora la volontà di potenza sarebbe del Dio/Natura - prima e post tradizione metafisica personalistica (...ma paradossalmente allora anche supermetafisica) e coinciderebbe con “...la trasposizione nel linguaggio concettuale del pensiero moderno, di quell’originaria esperienza del pensiero.” ... “...N. anticipa in questo senso ‘il passo indietro’ teorizzato da Heidegger , e segnatamente in direzione della phisis come archè di ogni movimento (dell’en kai pan) di cui il filosofo deve portare alla luce, mercé l’ausilio del logos, l’ordine che lo governa...” (12) Una sorta di OltreDio, se ci è concessa la folle iperbole, che conterrebbe ciclicità (ovvero ripetizione) e linearità (ovvero potenza novante), il nuovo dentro il vecchio, un’antica conoscenza, deus seu natura, ma sempre tendenzialmente e tendenziosamente additata di maledettismo... - vedi Baruch, il Benedetto - quando di non panteistico ateismo, soprattutto verso i suoi alfieri più dotati, e forse col recupero (addirittura) di una sua pleromatica identità incondizionata, persino nelle sue emanazioni ultime, parallelamente a ciò che ormai si mostra nella parafrasi, nella traduzione linguistica (nelle rappresentazioni), della teoria cosmologica (con la sostanziale indifferenza dei colti per la sua apparente illogicità), tra inflazione eterna, universo unico, multiverso esponenziale e multiverso ridotto. (13) Oltre ogni comprensibilmente classico timor di Dio ed oltre ogni innata paura biologica della morte. Nel nulla totale della referenza logica. La tanatologia (e la sua correlativa rimozione), da tempo imperante nella riflessione allargata. Da cui una mia inversione, appunto, come ingenuamente proposi, la morte per l’essere a l’essere per la morte. Seppure il vedere, così, sarebbe comunque un vedere bifronte. Sguardo bifronte Tutte le grandi conoscenze hanno uno sguardo bifronte). (14) Ma quel Giano Pater è il dio primordiale e non ha solo due volti. La prima duplicità passato/presente (dietro) e presente/futuro (davanti). Ma esistono le quattro vettorialità cardinali e qui il discorso si complica. Il vedere tutto (od in ogni direzione) corrisponde al veder niente (senza il focus) ma non a non vedere il niente. Quell’eterno istante sospeso. Ma ammaestrati da ciò che ci dice Colli, dobbiamo aver presente che il “presente non esiste”... almeno nel senso che “...La vita profonda si attinge dal pozzo del passato, è più vivo ciò che è più remoto nel tempo”. (15) Ecco perché l’origine come meta. “Ursprung ist das Ziel”. L’eterno presente è quindi una “rappresentazione” anch’essa, come il passato ed il futuro, come punto inesteso (solo “volontà” o) condizione di liberazione (“Il Liberatore”, Dioniso), dall’illusione di questa millenaria tensione alla separatezza umana, alla segregazione umana dall’articolazione dei regni, da noi sempre meno associati, dell’animalità, della vegetalità, della mineralità. La physis come divina materia dell’incanto penetrabile... ripenetrabile per osmosi.
  • ...
  • Allora cercare di vedere, non solo, temendo, guardare, ma assimilando il Nulla (che in alcune tradizioni è detto anche “Assoluto” o “Zero metafisico”) che sarebbe poi semplice e diretta vita e morte assieme, (come con un crescendo inestricabile ma inarrestabile ce la filma Husserl, proprio in Fenomenologia dell’...) esperite, depurate, in tal senso però, di qualsiasi velatura di sola ingannevole speranza, che non spetti alla nostra più stretta e privata esperienza. Colli dice: “...Tale è il fondamento dell’eterno ritorno, che svela la morte come qualcosa di illusorio, di strumentale, di non definitivo. Era questo l’ottimismo raggiunto, ma non consolidato da Nietzsche. Con la morte non finisce nulla, neppure quella espressione (se non nel suo contingente momentaneo accadere) che ritornerà eternamente. Tolto l’orrore della morte, anche il dolore è trasfigurato, è visto in una luce dionisiaca, poiché esso è uno strumento, una manifestazione della vita, non della morte. Nell’immediato c’è la radice del dolore, la violenza, ma anche della gioia, il gioco. Dolore, gioia, morte esprimono l’immediato, appartengono alla vita”. (16) Ma dice bene Colli: “non consolidato”, forse per l’abbandono della “pars construens” di Schopenhauer, quella che avrebbe potuto riallacciarlo risolutivamente non solo alla sapienza, ma anche alla lucidità funzionale (il severo sorriso immemoriale della tradizione viva). Nel “Terribile segreto...”, cit., Angelino, infatti, riporta di N.: “:..Non possiamo pensare il divenire altrimenti che come passaggio da una condizione persistente dell’‘essere-morto’ a un’altra condizione persistente dell’‘essere-morto’. Attenzione! Chiamiamo ‘ciò-che-è-morto’ quanto è privo di movimento! Come se ci fosse qualcosa privo di movimento! Ciò-che-vive non è l’opposto di ciò-che-è-morto, sibbene un suo caso speciale”. (17) Il che mostra plasticamente quanto sia reversibile ogni riflessione di N. e quanto lo sia maggiormente, di conseguenza, ogni nostra interpretazione. Ma quel “Come se ci fosse qualcosa privo di movimento!”, se non ci può assicurare in sé della vita, per come noi - ordinariamente - la intendiamo, è però un’evidenza innegabile di quel movimento incessante, di quel processo di continua trasformazione a partire da ciò che noi - sempre ordinariamente - possiamo appercepire come “morte” (vuoto, nulla, niente, assenza, freddo, rigidità...). Processo che, anche quando non crediamo di averne prova od addirittura notizia, è, innegabilmente, un passaggio dalla “morte” ad altro dalla morte (alla “vita”). Mi richiama questa sollecitazione ciò che disse Evola, in un suo testo dei primi anni ‘20 del ‘900 che mutò titolazione da L’individuo e il processo del mondo a L’individuo e il divenire del mondo, ripubblicato in 3 edizioni del 1926, del 1976 e del 2015, ove, come ci ricorda Sessa, “...presentò in nuce i tratti essenziali del suo idealismo magico”. (18) In “un Nietzsche oltre Nietzsche” vengono smascherati tutti gli “abbellimenti dell’oscurità” costruiti dalla rettorica per tacitare il vero. Tutte le spinte incrociate e quasi sempre opposte che, nel continente da prima della Grande Guerra e poi, in successione alla mattanza intraeuropea, molti interpretano, sul versante “spiritualista” e molti sull’opposto “materialista”, pur ferocemente reciproci, come uno sperato e tentato ribaltamento della proterva normalità borghese e capitalistica, ha però incredibile complessità e fluttuazioni continue mediate da mille sette, gruppi, tendenze e professioni di utopia militante, con le maggiori correnti teosofiche e poi antroposofiche. Molto spesso, persino insospettabili, influenze incrociate che solo uno studio critico documentatissimo, riesce a sottrarre alla vulgata del posteriore massivo fatto compiuto ed ancor peggio alla cancellazione della comprensione. “...Per porsi lungo la via della Sophia è necessario non recedere di fronte alla visione terrifica dell’abisso, non abbellire l’oscurità che da essa promana, ma trasfonderla in malia, in meraviglia, nel riso di Zarathustra che dice sì alla terra così com’è”. (19) Queste parole di Sessa relative al N. di Evola, sembrano persino ripercorrere la polemica visione con cui Kojève (...uno per tutti, ma non tutti per uno) manifestava la sua metafisica della realtà oggettiva e che definì energologia “...che vuol essere un aggiornamento di quella hegeliana - una energologia che differisce nettamente da quella hegeliana” e poi tutta la sua paradossale “via verso Dio” con “L’ateismo”. Per lui, infatti, teisti e ateisti, sono indifferentemente diretti e guidati da “tutto ciò che è Altro”... “quel qualcosa che non è l’uomo, né il mondo, né di questo mondo”). (20) Cosa che però ci fa capire - seppur con riserve di vario genere sulle dinamiche implicate - come si possa divenire maestri segreti di due o tre generazioni intellettuali, genericamente definibili, “di confine”.
  • ...
  • Ma questo avviene anche perché: “...Il demone della scrittura, nella versione estrema, inappagata e tragica che assume in N., ci mette in crisi dinanzi alla scrittura stessa. E non significa continuare la strada di N., l’inseguirlo, come hanno fatto alcuni, su vertiginosi ‘ponti di parole”, che senza il suo pathos appaiono come sterili tele di ragno”. (21)   Bell’eco... alle orecchie.
  • ...
  • Ma ritornando a vita/morte, direi però che proprio qui il pensiero antitetico di Angelino, pur ricchissimo di tutti i percorsi classici della più grande filosofia occidentale perde il tempo rispetto al pensiero antidicotomico che non è necessariamente un pensiero solo filologico/filosofico, ma è eminentemente un pensiero del recupero necessariamente attuale (il Qui ed Ora... sempre inteso come sopra) dell’immemoriale. Ciò che si è perso in noi - ciò che purtuttavia rimane in noi - del tempo e dello spazio che non conosciamo, pensiero di quanti ci sono più vicini in questo nostro cammino di ricerca, via che persegue (nel campo delle scienze umane... ma questo vale in modo traslato per ogni campo d’indagine) il trattenere dell’esperienza praticabile. Non solo usando la necessaria prudenza che tratta il modo ascensivo, dalla fisiologia, alla neurologia, al funzionamento patologico e poi a quello integralmente normale, per arrivare a spiegare gli elementi strutturali della realtà allargata, ma, costitutivamente, anche il modo discensivo, ovvero dall’intelletto intuitivo alla consapevolezza meditativa, ciò che unisce la dimensione spirituale, il corpo sottile, il corpo materiale, sulla via della superiore dialettica priva di determinazioni escludenti, in una difficile ma praticabile coscienza soprapsichica.
  • ...
  • Sappiamo bene poi che, anche una volta chiaritasi, per noi, la partita vita-morte in chiave relazionata al dato del credere (di un credere), ma tramite l’esperire, noi non si rimane comunque esclusi dal processo dell’insieme vitale, dipendendo esso non da un credere, appunto, ma dall’avere maturato (o meno) la consapevolezza di tale coscienza soprapsichica, secondo la potenzialità offertaci dalla (sostanziale) tripartita struttura della costituzione umana. Questa rimane l’insuperabile differenza della nostra visione dal riduzionismo materialistico.
  • ...
  • In questa praticabile coscienza soprapsichica, è implicata necessariamente la disponibilità consapevole, l’approfondimento esperienziale ed il metodo appropriato, nell’opporsi ad ogni forma di prevaricazione esterna oltre ogni possibile interno cedimento. Come nei cieli contesi di una volta... (e di sempre), volare con un caccia “ognitempo”.
  •  
  •  
  • Note:
  • I due testi sono: 1) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Zarathustra, a cura di Carlo Angelino, Il Melangolo, Genova, 1991; e 2) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di Nietzsche, Il melangolo, Genova, 2000. Vi è una continuità evidente fra i due testi, uno a cura e l’altro direttamente di Angelino. Nel primo il filosofo di Genova, traduce ed introduce, la conferenza di Gadamer per il centenario dello Zarathustra, sorta di concentrato giudizio delle più importanti interpretazioni sul tema; nel secondo collaziona cinque suoi intensi interventi: “La ‘fisiologia’ della religione di F.N.”; “Una curiosa poesia di F.N.”; “Morte o caduta di Dio? (Nietzsche e Baudelaire)”; “F.N.: Dioniso contro il Crocifisso”; “Che cos’è la filosofia della religione?”.
  •  
  • 1) Hans Georg Gadamer, Il dramma..., cit., pag. 9.
  • 2) Matteo Karawatt, Non sapevo di sapere. Psicologia, yoga, intuizione, meditazione, Teoria e pratica, La Parola, Roma, 2012, pag.25.
  • 3) Carlo Angelino, Il ‘terribile...”, cit., pag.7-10: «...E questo convincimento N. condivideva in particolare con l’amico Overbeck, che poneva proprio il tema della morte al centro delle sue riflessioni ‘filosofiche’ sulla Urgeschichte del cristianesimo: in uno dei suoi frammenti postumi editi da C.A. Bernoulli, (allievo di Overbeck, N.d.A.) in Chistentum und Kultur, 1963. Overbeck così commentava: ‘Matteo5, 48: ...siate dunque perfetti come è perfetto il padre vostro celeste’: ‘der Tod ist die gewältigste Predigt der von uns in der Bergpredigt (an dieser Stelle) gefordenten Vollkommenheit, die wir kennen und abzusehen vermögen’. Tradurrei: ‘Morte è il richiamo più potente alla perfezione, richiestaci dall’Oratio montana, (sino a qui) che si conosca e si sia in grado di prevedere». Potremmo ulteriormente dirci che, data la qualità elevatissima dell’avventura conoscitiva di Overbeck, la posizione immediatamente e coraggiosamente anticonformista e teoricamente sempre ai limiti del socialmente sopportabile, persino la parziale sequela di una teologia prima di moda e poi giudicata discutibile come quella del Ferdinand Christian Baur, guida della scuola esegetica di Tubinga, residua proprio per quel mio “incomprensibile”, di cui sopra, un differenziale comunque riscontrabile tra N. e O.. Perché N. e O. (ed intorno Lou Salomé, Paul Rée, Peter Gast, Erwin Rhode, Carl von Gersdorff, Cosima e Richard Wagner, Malwida von Meysenburg, ed ovviamente Elisabeth Forster-Nietzsche e la madre Franziska) sono anche le dramatis personae di un’avventura unica ed in quanto personaggi anche paramitologici riescono a parlarci dell’avventura pericolosa dell’esistenza (sovente) e soprattutto della ricerca (quando lo è) come sfide, sempre di complessa decifrazione. Parallelamente ai personaggi, Sinn-bilder, Ur-bilder, Denk-bilder, Vor-bilder dello Zarathustra, ruoli simbolici, archetipici, mentali, comportamentali, nell’invenzione di N.: maschere. Azzardo tale trasposizione su altro piano, perché rimasi proprio colpito dal confronto tra il più che lusinghiero giudizio espresso da Löwith nel 1956, reperibile sul libro di Lou Salomé (uscito in prima nel 1894, quindi prima di Ecce homo), ed i marginalia della sorella di N. al testo della russa. Soprattutto perché, al comprensibilissimo ed accresciuto odio per Lou, della sorella di N., dopo il ritorno nel 1893 dalla fallita avventura “Nuova Germania” del marito e di 14 famiglie tedesche in Paraguay (1887-1889 circa) ed il suicidio di lui, si aggiunge la necessità per la sorella di uscire progressivamente con articoli firmati da collaboratori del Nietzsche-Archiv, Fritz Kögel e poi Rudolf Steiner (all’epoca, 1895, anch’egli collaboratore del N.-Archiv, ancor prima di divenire guida del movimento antroposofico), avanti di dover intervenire direttamente. Puntualissima la ricostruzione (di tale progressione) nella Postfazione di Domenico M. Fazio, al libro della Lou Andreas-Salomé, “F. N. in seinenWerken”, (trad. it.: “F. N.”, a cura di Enrico Donaggio e Domenico M. Fazio, SE, Milano,2009, Postfazione, 3. ‘Eva contro Eva’, pagg. 215-225). A differenza del Kögel, però Steiner col suo libro: “F. N.. Ein Kämpfer gegen sein Zeit”, Weimar, 1895, ispirato alle parole di N., in Considerazioni Inattuali II, Sull’utilità ed il danno della storia per la vita, (trad. it.: “F. N. Un lottatore contro il suo tempo”, Carabba, Lanciano, 1935, Anno XIII, rist. anast., 2017), tratta eminentemente la propria interpretazione, ben differente sia da N. che da Lou Salomé, del concetto di superuomo. Testimonianza molto diversa da ogni altra, in quel tempo, e di non facile risoluzione al suo stesso interno. Che si dimostrerà come ben diversa, proprio per il rapporto genio/devianza, da quelle di Mann, Jaspers, Jung, Heidegger. Infatti chi approfondisce, (inserite nella traduzione italiana del libro di Steiner) la Prefazione alla prima edizione, Weimar, 1895, lo stralcio dall’Autobiografia di R. Steiner del 1924, e la Prefazione alla nuova edizione del 1926 di Eugen Kolisko, può comprendere un’unità di fondo nel giudizio nelle pur molto diverse circostanze di contesto (per Steiner) in cui quel giudizio è progressivamente maturato.
  • ...
  • E quindi solo lungo così complesse “rappresentazioni”, tutto possibilmente sommato e detratto, si può considerare quel mio “incomprensibile”. Che Gurdjieff (ma, beninteso, qui solo come collettore di altre tradizioni interpretative al riguardo), porrebbe tra essenza e personalità. Tra chi cioè investe tutto il proprio capitale energetico in un’impresa conoscitiva anche a rischio di fallimento totale (l’égarement orgiastico di Dioniso) e chi sa amministrare, magari per raro merito derivatogli da altre riserve accumulate con altri stili di vita e sempre oculatamente rese stabili e con una gestione magistrale delle maschere di scena (la difficile sintesi apollinea), un vitale capitale residuo. Nella solo mondana vita comune, attestato pure il persistente coraggio testimoniale di O. verso l’amico scomparso, ciò, da parte mia, sarebbe deviante ed ingeneroso. Perché comunque resta il grande lascito di N.: la volontà di verità allo stremo, che coinvolge tutti i suoi più profondi interpreti, coloro che hanno fatto di lui non un mito ma un severo discrimine (per troppi incomprensibile) di differenze ed, al proposito, mi sorprese proprio quella frase di Rudolf Steiner: “Ci si può abbandonare gioiosamente alla luce del suo spirito, col senso di pietà, col senso di piena libertà, poiché ove spuntasse la idea che egli intenda imporci di consentire - come fanno Haeckel o Spencer - le parole di Nietzsche si sente che comincerebbero a ridere”. (R. S., F. N. Lottatore contro..., cit., pag. 25). Le sue parole... forse, il suo indagatore sorriso, meno.
  • 4) H. G. Gadamer, Il dramma..., cit., pag 52. Anche (pag. 26-27): “...Il vero compito filosofico che pone il pensiero di N. consiste certamente nel risolvere l’apparente inconciliabilità di volontà di potenza ed eterno ritorno dell’identico. E in ciò mi pare di poter indicare l’autentico contributo di Martin Heidegger che, pur con l’abituale violenza che caratterizza le sue interpretazioni, ha in questo caso trovato la prospettiva decisiva: una soluzione di quell’apparente contrasto che mi parve subito plausibile e chiara. Le teorie nietzscheane sono fra loro complementari e sono solo le due facce di una stessa medaglia. La volontà di potenza, che non vuole qualcosa ma se stessa, è volontà di volere, e l’anello dell’eterno ritorno smaschera ogni volizione e scelta, ogni evasione e ogni speranza come una sorta di follia. Entrambi questi aspetti dissolvono il problema del senso, dello scopo. E in ciò Heidegger scorge ed individua il risultato ultimo del pensiero nietzscheano...”. Devo dire che se questa soluzione soddisfa Gadamer ed ovviamente Heidegger, non soddisfa molti altri sia in una direzione che in un’altra. Una direzione interpreta lo scoprimento a tutti i costi del senso dell’essere (come tenta di fare Heidegger) restando nella prospettiva sostanzialmente religiosa se non del tutto metafisica, (paradossalmente, ma non eccessivamente perché prima e dopo di lui c’è tutto un milieu di pensiero prima in Germania e poi in Francia, che lo fa convintamente, indagando il proprio rapporto col sacro tramite meccanismi fenomenologici di rilevazione anche a-spirituali se non del tutto materialisti), cosa anche meno radicale di quella di N., che opterebbe, alla fine del suo percorso, solo nell’investimento di senso (pur frustrato), in qualità di volontà di volere o potenza, che dir si voglia ed in un quadro di pura referenza naturale. Nulla di mistico o misticheggiante. E non per tutti, necessariamente, lo scoprimento o svelamento del “non senso”, in tal caso pulsionale e/o metodologico, priverebbe di appiglio, euforia, felicità, rispecchiamento, nel togliere il velo, privando lo svelamento di ogni aura, dorata o nigra che sia. Molti potrebbero persino ritenersi soddisfatti di svelare lo svelamento come ultimo mito dell’ultimo uomo, ovvero il nulla (totale) dietro l’eterno ritorno. Ma questo fa parte - forse - e dico forse perché non riesco bene a capire il grado di correlazione tra moda culturale ed influsso ineliminabile del grande (opposto e pur sovente intrecciato) alone di potenza interpretativa, (-Forschung) quale fu quello kantiano, hegeliano e poi, appunto, fenomenologico e specificatamente heideggeriano. Come dice G. F. Lami in Qui e Ora... cit, pag.42: “...Ogni dis-velamento, ogni operazione che decostruisce e differenzia, all’interno di una struttura preesistente, mette allo scoperto la inadeguatezza di certi supporti, di certi sostegni istituzionali, di certi simboli ordinanti, ma soltanto per sostituirli in un’identità rinnovata e, alla fine, ”ritrovata”. Ogni fase critica incide sulla compattezza di una mentalità, indebolita dall’evoluzione della logica sociale, ma produce, a sua volta, nuovi valori e forze, che si ricompattano in una diversa ‘insularità antropologica’. In questo processo di ordinaria ‘de-costruzione’ e ‘ricostruzione’, suona l’intonazione del Faust goethiano: ‘Fermati, attimo, sei bello!’...” A proposito delle siderali convergenze parallelle Goethe-Nietzsche, proprio Rudolf Steiner ha detto cose interessanti sul non voler parlare di mistica e sul non volere essere mistici: “...Goethe trovò nella realtà della natura lo spirito: Nietzsche perdette nel suo sogno della natura il mito spirituale”.   (F.N. Lottatore contro..., cit. pag. 33) E comunque - per noi, a riguardo della sostanza - tale compiacimento non cancellerebbe la contraddizione di un ritornare, in ogni operazione complessiva, del nulla. Ma il nulla, totale, se esistesse, sarebbe la morte continua e non alternata. Chi la afferma così, l’afferma incondizionata, necessariamente, anche se non appare quasi mai far base logica su questa banale considerazione.
  • ...
  • Invece, da tutt’altra direzione, potremmo noi allora chiederci veramente cosa fosse per N. (per capire poi cosa sia davvero per noi) questo eterno ritorno dell’identico. E cosa sia stato in fondo anche per l’interprete Heidegger, se lo Jünger parla (nel convegno pisano del 1977, cit.), al proposito, del lavoro ben più che etimologico, ben più che filologico, del suo amico Heidegger. Dice infatti: “...è forse cosa consueta l’approvazione universale, al sorgere di fenomeni del mondo dello spirito?” “Fenomeno del mondo dello spirito” sarebbe quindi, e proprio per J., il pensiero di Heidegger. Non credo lo dicesse nel senso dello spirito mondano, intellettuale, filosofico, artistico, etc, etc... Ma forse nessuno parla proprio dell’altro ma solo di se stesso tramite gli altri, o, in caso più rispettoso di sé e degli altri, del portato che gli altri forniscono per la messa a fuoco del sé. A maggior ragione allora per noi... il sentire l’eterno ritorno, in tutte le possibili gradazioni della ripetizione, nel respiro del mondo e non solo come alcuni amici di N. derubricavano “il terribile segreto”, come un scontato repêchage filologico-filosofico della teoria classica. Perché noi pensiamo, effettivamente, in termini di ritmica, di respiro. Di pieno/vuoto. Istruttiva, come posizione limite, al proposito, proprio la parabola che incarna Kojéve per illustrare la logica delle antecedenze causali nel proprio processo a fasi inclusive che parte dal kantismo, s’appropria delle dottrine orientali, fa la tesi su Solov’ëv, frequenta il circolo degli “euroasiatici” filosofi e/o messianici, matematici, storici delle scienze e mistici, (Berdiaev, Karsavin...), studia matematica e fisica, poi affronta con soluzione mediata la querelle du determinisme, nel suo “L’idée du déterminisme dans la physique classique et dans la physique moderne” (1932), l’attraversamento (scopertosi, poi, del tutto) personale dell’hegelismo nei famosissimi seminari del 1933-34 all’École Pratique des Hautes Études, che, come dice Filoni, “rimane, in fondo, l’immagine speculare atea di un’interpretazione teologica” tramite anche la forte mediazione di Heidegger. Ed ancora la fenomenologia husserlaina della assenza/presenza del sacro e sotto l’ala di Koyré l’epistemologia ove le “due culture” transitivamente si confrontano, tramite Bachelard, Natorp, Meyreson, Carnot, Einstein, Bohr, Fermi, Heisemberg, Plank, de Broglie, Born, Langevine..., in quella deriva conoscitiva che Morin definirà come “scomparsa delle Leggi sostituite da costrizioni, invarianze, costanti, regolarità varie e diverse nell’universo”. Ed ancora il proprio sistema filosofico ateista che lo conduce verso l’al di fuori del mondo, e cioè in quella da lui denomina via verso Dio che persegue (quindi, nella sua visione, molto meno isolata di quanto normalmente non si reputi) sia il deista che trova, comunque declinato, Qualcosa, sia l’ateo che trova, comunque dato come condizione certa, il Niente. (Che a questo punto non si saprebbe neanche intuire, nella sua sostanza, oltreché, ovviamente definire). Sino ad arrivare alla risoluzione dell’infinito pensare in una condizione esistenziale ed intellettuale (rimbaudiana rovesciata), di produzione di segretariato ad altissimo livello e capacità di pressione, sia amministrativa che diplomatica e geostrategica - l’Impero Latino - formativa ed informativa.
  • ...
  • La metafora dell’anello d’oro (fatta nei famosi seminari che colpì profondamente l’uditorio e poi trascritta in A. K., Introduction à la lecture de Hegel , Gallimard, 1962, trad. ital.: A. K., Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996, pag. 604), però, a mio avviso, racchiude tutto ciò che Kojéve ci ha potuto indicare, col suo dualismo dialettico (...che mi ricorda molto da vicino il Non Duale Advaita Vedānta... se non ne è solo una sorta di parodia), qualsiasi sia la nostra provenienza e la nostra destinazione, venendo da mondi difficili ed andando verso orizzonti non meno inquietanti. L’oro è Natura, il buco è l’Uomo e l’anello è lo Spirito. Anche se io la interpreto, ovviamente, in chiave spiritualista, lui in categorie logiche universali.
  • 5) C. G. Jung, Lettera del 28 agosto 1945 a P. W. Martin, in: Romano Màdera, Carl Gustav Jung, Feltrinelli, Milano, 2016, pag. 96.
  • 6) Edmund Husserl, Fenomenologia dell’inconscio . I casi limite della coscienza, a cura di Mariannina Failla, Mimesis, Mi, 2021. Testo tedesco-italiano a fronte.
  • 7) Sandro Giovannini, relazione al convegno organizzato da Vittorio Vettori all’Accademia dell’Ussaro a Pisa, inverno 1977 con interventi di Jünger, Vettori, Giovannini, Gianfranceschi, Eliade ed altri e poi riportato in volume nel 1986 in: Revisione, “La riscoperta del sacro da Heidegger a Eliade”, anno XIV, 1985-86 n°59-62, con successivi interventi aggiunti negli atti. La relazione non ripubblicata nel mio primo libro di saggi “L’armonioso fine”, SEB, Milano, 2005, è in capo al secondo libro di saggi “...come vacuità e destino”, NovAntico, Pinerolo, 2013.
  • 8) Giuseppe Casale, Gian Franco Lami, Qui e Ora. Per una filosofia dell’eterno presente, Il Cerchio, Rimini, 2011.
  • 9) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag.10
  • 10) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Z., cit., pag. 27.
  • 11) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Z., cit., pag. 34.
  • 12) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag.15.
  • 13) Art. pubbl. 02.05.2018, Journal of High Energy Physics. Internet.
  • 14) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag. 46.
  • 15) Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, pag. 63.
  • 16) Giorgio Colli, cit., pag 105.
  • 17) F. N., Frammenti postumi, Frammento immediatamente seguente quello in cui N. (Sils Maria, inizio agosto 1881), presenta per la prima volta il pensiero dell’eterno ritorno, pag. 17, di “Il terribile segreto...”, cit.
  • 18) Iulius Evola, Par delà Nietzsche, Nino Aragno Editore, 2015, pag. 17, a cura di Gianfranco de Turris, con Premessa di Alessandro Giuli, testo introduttivo di Giovanni Sessa: ‘J. E. e la metafisica della gioventù’, testo francese di Evola, testo finale di Andrea Scarabelli: ‘Evola e Nietzsche ovvero sulle audaci affermazioni di un giovane scrittore’.
  • 19) Iulius Evola, Par delà..., cit., pag. 18.
  • 20) Marco Filoni, L’azione politica del filosofo. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Nuova ediz., 2021, rif. a: A. Kojève, L’ateismo, trad. ital., Quodlibet, macerata, 2008, pag. 104. In tale direzione - di comprensione degli intrecci imperdonabili, ma non solo - c’è il bellissimo testo di Federico Gizzi, uscito sul n° 43, 2009 (ultimo numero di 3 serie successive) di “Letteratura-Tradizione”, dal titolo “L’evocazione del sacro perduto: dal George-Kreis al Collège de Sociologie”, ora leggibile su “Rivista online Heliopolis”: www.heliopolisedizioni.com   Per comodità si riporta uno stralcio dalla parte iniziale ove F. Gizzi riassume la ragione essenziale del suo scritto:
  • ...
  • «...Il focus di questo contributo è centrato su due ambiti delimitati, il George-Kreis e il Collège de Sociologie, ormai piuttosto ben studiati e sui quali ambiti, ovvero sui protagonisti di essi, esistono diverse opere imprescindibili, alle quali si rimanda [2], il che mi esenta dal trattarne diffusamente e generalmente. Mi è invece sembrato più interessante trattarne a luce radente, diciamo, alcuni aspetti comparativi, marcandone differenze ed analogie, osservandone alcuni aspetti fenomenologici peculiari, e soprattutto inserendo questi ambiti, ed i loro protagonisti, nelle vicende storiche di cui, pur nella discrezione del loro essere ed operare, si sono trovati ad essere spettatori e talvolta anche attori; quell’insieme di vicende, che, tra fine del XIX secolo e metà del XX, possiamo riassumere nel termine Tramonto dell’Occidente ed ingresso (dell’Europa) nella Post-storia [3]. L’interesse per questi due ambiti, ciascuno a suo modo così elitario, è cominciato per me quando incontrai la figura del tutto eccezionale di Alfred Schuler, che potremmo definire lo psicopompo del George-Kreis [4]; di questo autore, e della sua opera principale, ho avuto modo di trattare nel n° 29 della rivista La Cittadella, dove, parlandone più diffusamente, ho abbozzato il confronto con gli ambiti propri al Collège [5]. Qui invece il baricentro della narrazione è spostato su quest’ultimo gruppo, che ho cercato di posizionare all’interno di un vastissimo insieme di relazioni palesi e segrete che segnano la storia culturale, e non solo, del Novecento europeo. Parlare di relazioni palesi e segrete non vuol certo suggerire, gli Dei ci consentano di sfuggirne sempre, una visione volgarmente complottistica degli eventi storici; piuttosto, invitare a vedere, del tessuto storico, la trama e l’ordito. E’ stato detto che quel che spesso ci manca è una storia gnostica, che sappia leggere gli intersignes che punteggiano così di frequente, a saperli vedere, il tempo storico [6]. Questo scritto, con molta presunzione, ambirebbe anche a fornire un contributo in questa direzione. Un’ultima osservazione, relativa allo stile di queste pagine; uno scrittore dei nostri tempi, Jean Parvulesco, ha sostenuto più volte con forza che i tempi presenti, e l’affrontare determinati argomenti, richiedano da parte dello scrittore l’utilizzo dello stile esaltato, l’unico atto a far emergere certi specifici contenuti. Benché non sia uno scrittore, ho tentato di praticare, in una determinata misura, la stessa scelta [7]. Se anche minimamente vi sia riuscito, questo, ovviamente, è giudizio che spetta al benevolo lettore. Le note al testo, bibliografiche o meno, hanno anche il compito di riequilibrare lo scritto e ancorarlo alle modalità consuete della prosa saggistica....»
  • 21) Giorgio Colli, cit., pag 141.

Marco Rossi


  • “LA GRANDE FINANZA E L’OCCIDENTE.
  • I retroscena di una guerra sconosciuta”
  • di Marco Rossi,
  • (Arŷa Edizioni,  Genova, Dicembre 2022)
  • L’infinita diatriba su ciò che è possibile e ciò ch’è impossibile dimostrare di un processo (storico) in corso - comunque sostanzialmente evidente nelle sue linee guida - e sulle sue cause dirette ed indirette, remote e prossime, continuerà, sempre più avviluppato nelle procurate cortine fumogene. La “negazione plausibile” infatti, nata esponenzialmente al centro di tutte le tecniche ibride di confrontazione che dominano il mondo attuale ed a venire, sino ad un esito parossistico e forse non umanisticamente augurabile, ormai traborda in ogni campo dello scibile per meccanica osmosi.  In quello che impropriamente chiamiamo il nostro mondo, tra inestricabili paci e guerre, sempre più confusamente ma strumentalmente avvinte.  
  • ...
  • Al centro di ogni cosa, più di sempre, s’afferma lo stravolgimento totale della diversamente declinata verità da chi possiede il denaro assoluto come mezzo e fine e non solo più come mezzo.  (Fondamentale, al proposito, il passaggio di paradigma dimostrato compiutamente dal testo).  E questo è esponenziale, appunto come non mai, in relazione al vortice complessivo delle totalitarie tecnologie ed arti contemporanee, entrate in un turbine di dimensioni conoscitive sempre più incomunicabili, specializzate ed autoreferenziali, seppur di necessità volgarmente comunicate, “giustificando”, come nel libro dei morti egizio e nel Bardo Thodol tibetano, le formule rituali per i passaggi di stato, con i loro stadi intermedi.  Nel caso a noi più prossimo, col clinamen del massificato ottundimento inesorabile verso la soglia di passaggio ad un’altra epoca.  Nell’attuale condizione astrattamente materialistica, infatti, le paradossali “convergenze parallele” dei nuovi incerti paradigmi cosmologici (nell’immensamente grande... ma avvenendo questo parallelamente nell’immensamente piccolo) si traducono in conoscenze ipotetiche, tra “materia visibile” (“reale”) e “materia oscura” o “invisibile” e tra “buchi neri” ove tutto si perde gravitazionalmente e “buchi bianchi”, da cui tutto ipoteticamente potrebbe irradiare, tanto per cercare di rimanere in metafora.  Ora con il capovolgimento di ogni parametro ordinato intelligentemente alla physis per un’ulteriore successiva ripresa, che non verrà però per sole meccaniche celesti ma per scelte rispecchianti, di quelle forze immani, l’essenziale principio ordinante  E so bene che quest’allargamento di consapevolezza intuitiva o d’intuizione discriminante, che sto ora operando non in linea con una consueta recensione e che, se volessimo proprio esagerare potremmo anche chiamare una sorta d’antindividuale “buddhi”, si presterebbe facilmente a vari sorrisetti e distinguo. 
  • ...
  • Purtroppo la distanza che si pone duramente tra comprendere e rifiutarsi di mettersi in un gioco oltrefisico, è la stessa, ad esempio, per la quale un serio studioso di ideografia usa infinite cautele (...ed è dir poco...) nella traduzione verso una lingua sillabica.  I due mondi, naturalmente referenziati, possono infatti sicuramente spartirsi l’infinita originaria complessità del tutto, ma nelle epoche si sono evoluti (al di là e persino deviando grandemente dalle matrici identitarie) tramite iconologie diversificate per senso e potenza.  E questo non riesce bene a tradursi in comprensione allargata, se non lungo la lama a doppio taglio dell’approfondimento estremo (specialistico e supersettoriale) se vuole concedersi nulla o poco al senso comune.  E, consustanziale all’abbandono del luogo comune, sempre manovrabile a dritta ed a manca, (...potrebbe e dovrebbe avvenire) la divaricazione non insulsa e non costitutivamente deviabile dalla predominanza politica/sociale del “secolo”.  Lo stesso linguaggio postmoderno, cosiddetto “alto”, riacquista così paradossalmente un suo taglio “gnostico”, ma questo in termini puramente verbalistici, attraente trappola formalistica ove la forma perde ogni sua sostanzialità, perché la possibilità della lingua, sfibrata tra un linguaggio massificato/oggettualizzato ed un gergo tecnologico/virtuale incapace di fornire senso se non a se medesimo, supporta sempre meno una vera traducibilità comunicazionale se non con metafore troppo spesso scadute per tempi e scadenti per struttura. 
  • ...
  • Lungo la stessa china, l’universo occidentale, dominato ormai dall’anglosfera (all’interno della quale - come puntualmente investiga Marco Rossi - contraddizioni storiche conseguenti si sono poi sostanzialmente risolte in mutate ma necessariamente accordate nuove complessive proiezioni di potere), non potrebbe essere, per logica deriva, che la massima espressione di certe qualificazioni originarie (ed illuminativamente di certe prassi... quali il divide et impera) quanto assieme il relativo estremo tradimento delle medesime, per eccesso di pressione interna e carenza crescente di attrattiva esterna.  Per perdita di coppia nel motore immobile interno.  Logica ciclica.  Il tutto quindi nella ben prevedibile e terminale hybris imperialistica, non più solo trattenuta in pur immense aree di referenza, ma ormai globalisticamente indefinibile nella propria spinta universalistica. I sempre suadenti paradigmi geopolitici terra e mare et similia (con i loro geneticamente sconcertanti - e quindi rigettabili - trapianti di cuore) ne sono l’emblematica (ma rivelatoria) soglia di passaggio.  Carte del mazzo del Grande Gioco, ove, con suadenti metafore acchiappatutto,  opere d'arte molto intellettualizzate anch'esse, tendono a perdersi i seminali originari.
  • ...
  • Ma, drammaticamente, oltre ogni tentativo di concettualizzazione, l’azzardo massimo, per certe élites di nuovo convintamente e dominantemente “portatesi all’estremo” come direbbe Girad, è, ancor più di sempre, considerato inevitabile e decisivo (...ora e non più) perché vitale.   Nell'era atomica. 
  • ...
  • E tutto questo, diversamente da quanti s’illudano, pur generosamente, di una “separatezza serena”, per un intelletto discriminante definibile una volta “puro” dalle più diverse dinamiche coscienziali, risulta personalmente penoso ed, a maggior scorno di giustizia, socialmente avversato, nella migliore delle ipotesi.  
  • ...
  • Anche se non è sufficiente la più fitta cortina fumogena per toglierci il focus visivo sopra le ciglia chiuse, se prima si è letto ad occhi ben aperti un testo come questo, incalzante, irrefutabile in precisi riferimenti storici e relative interpretazioni, anche ben diverse per provenienza ideologica e stile di comprensione, ma concordanti oltre ogni ragionevole dubbio.  L’autore potrà ben essere silenziato o minimizzato sino all’irrilevanza, ma la sostanza del suo meccanismo logico essenziale e non orpellato da nessuna deriva superficialmente letteralista (...le mode interpretative che vanno e vengono e lasciano sulla spiaggia oceanica i detriti e gli scarti di ogni diffusa passione irriflessa), non rimane toccata ed è libera offerta al libero pensiero. 
  • ...
  • Marco Rossi, come pochi altri da me conosciuti, riesce a governare saldamente un suo taglio critico estremamente equilibrato pur con sincera visione metapolitica (sincera in funzione proprio di quell’equilibrio), all’interno di una progressione ben credibile di eventi e relativi accuratissimi rilievi critici.  Disincantato quand(t)o necessario e mai più del necessario e neanche infinitesimamente vile, nella minimizzazione o nel nascondimento di tutto ciò che è processo naturalmente ed artificiosamente occultato, capziosamente deviato, strumentalmente riversato e sempre finalisticamente gestito.  Anche storiograficamente.  Questo, invece, è il tipico testo storico che se non fossimo governati da infinitamente deboli e/o più o meno consapevolmente servi, potrebbe costituire un vero strumento critico, non solo per diatribe “bizantine” su linee storiche di risacca, ma per procedimenti illuminativi sul senso di lungo e determinante periodo.  In tutti i capitoli s’afferma una consapevolezza coerente e distesa, che procede con un metodo allenato e sempre estremamente cauto pur nella “decisione”.  In più, ad un lettore non professionista come me, l’estrema accortezza di una sensibilità cresciuta con grandi esempi maestrali ma in una minorità di potere e così lungamente addestrata a portare prove ad iosa sino allo sfinimento (probabilmente e comprensibilmente del tutto inefficaci), per un metodo ben consapevole della diffusa malevolenza storiografica contemporanea, risulta addirittura pleonastica, ma questo significa poco (anzi niente), perché qui non è in gioco solo una generica sensibilità di lettura, mia e speriamo di tanti altri, ma soprattutto un’irriducibile qualità d’intuizione discriminante.  
  • ...
  • Il libro di Marco Rossi, profondo, accuratissimo ed onesto, è quindi adatto ad anziani come me ma forse - per il suo crisma non edificante ma problematizzante, ovvero richiamante ad un impegno mai arreso per adattamento a falsi miti - ancor più a giovani che siano veramente capaci di leggere con una mente aperta ed un cuore (minimamente) avventuroso.


 

  • Coloreria Shamash

  • A proposito di
  • Coloreria Schamash
  • di Lorenzo Pica e Raffaele Rogaia
  • (Morlacchi Editore, Perugia, 2017) 
  • rec. di
  • Sandro Giovannini


  • In genere non riesco a scrivere di un libro, immediatamente, alla fine della lettura. A volte faccio passare mesi quando non anni, per un mio difetto di contemporaneità, per un’illusione di atemporalità. Ma in questo caso sono stato indotto dalle varie stimolanti contraddizioni che si sono svolte nel mio cervello in risonanza con la complessità agente del testo. Ed i giorni persi nel labirinto del tempo giocano comunque per una giusta distanza dall’edizione, che è, infatti, del 2017.
  • La struttura innanzitutto, un sentiero erto che sale verso una collina - di pensier in pensier di monte in monte, iter ad Parnassum - da cui si domina dall’alto Parigi, gli idoli della mente e gli echi della vita, ovvero i generi, il racconto, la storia, altre città formicolanti e campagne semidesolate, la vita, l’arte, la cronaca, la guerra, il nascondimento, la circolare discriminazione degli uni contro gli altri, la fuga, la fame, la disperazione, la lotta, la morte, la rara luce e, come suggella il poeta l’infinita vanità del tutto.
  • ...
  • E poi il linguaggio, che s’adatta sapientemente alla costruzione architettonica, ove l’ampio spazio, ma certo non qui, ormai rare volte geniale ed accogliente, trova quasi sempre un bianco accecante di senso storico, a dritta ed a manca del razionalizzato e dell’astratto, diversamente da ciò che un’anima ingenua potrebbe aspettarsi, nel naturale ed ineliminabile cretto terrestre, ovvero un carico di colori che si volga al pigmento denso, scuro ed avvolgente, a questo punto cementificato nel bene e nel male. Oggi, di seguito alle nostre cicliche fobie, sterilizziamo tutto per orrore di batteri e virus ma il marcio unto del mondo ci avvolge comunque alle spalle, appena si perda (...clinamen epocale, guerra), sofferentemente, quell’illusione della pulizia radicale, quel bianco dell’astrazione minimalista, autoritaria o modaiola che sia, comunque quell’esausta utopia sacra della luce.
  • ...
  • I due giovani autori edificano una narrativa matura e necessariamente molto studiata e ben significante alla distanza, anche se a corto raggio potrebbe reputarsi forzata. Infatti si apre, in un continuo braccio di ferro espressivo, la ripetizione dei due moduli narrativi: la prolessi coraggiosamente inaugurando il tutto, in alto a destra della pagina con avvertenza secca di ora del giorno, e di seguito sempre l’analessi, che però non è meno deuteragonista della storia, con un - in alto al centro - ricapitolo d’antan, “...dove si racconta dell...”. Sconcerta forse un poco che si inizi dalla contemporaneità della fine della fabula, ovvero come si dice oggi dal flashfoward, mentre il basso continuo del flashback, non comporti necessariamente un meno drammatico, meno pulsante o forse meno oscuramente sentito incombere della storia complessiva, di suo né edificante, né qui ideologicamente spiattellata. Infatti tutti gli attori sono sospesi in una loro ultimità del momento che tende spasmodicamente al futuro come via di fuga dalla miseria del presente ma ha al piede la palla di piombo di un passato occhiuto e sostanzialmente irredimibile. Tutti moriamo, alla fine, per il nostro aggregato esistenziale, nessuno si salva da se stesso. E questo è un sortilegio immediatamente percepibile della coloreria che porta bene - a mio privatissimo parere - alle quattro mani che scrivono, perché anche se non è dubitabile per quale tesi propendano, è giocato sapientemente il giorno per giorno che spera e dispera assieme, più disteso o più duro, come poi avviene nella realtà della vita di tutti noi, senza che il più delle volte, nell’inesauribili illusioni ed amate riassicurazioni, ci si possa ben render conto di quanto tutto tenda a scivolare, anche o forse soprattutto, contro la nostra volontà. Certo... la volontà... è un cerbero che acquista e conquista quasi tutto l’acquistabile ed il conquistabile, sia degli eserciti più o meno automatici, sia degli artisti più o meno sonnambolici, sia persino degli scettici più o meno propagati che s’adattino a tutte le possibili ed impossibili miserie ed a tutte le favorite umiliazioni. Il successo vero, finto o mimato, domina la vita sino al punto da renderci estranei a noi stessi, non al nostro invisibile e greve sacco nero, ma alle vesti nuove che sogniamo finalmente di sostituire a quelle stazzonate (in un’apoteosi di decorazioni sopra le nostre spalle) e che si rivelano il più delle volte, conseguentemente, bizzarre, incongrue, persino, alla fine, risibilmente insulse.
  • ...
  • Ma qui si porrebbe un’altra interrogazione. Se la discrezione degli autori sulla vicenda morale del “guasto della miseria”, sia una giusta strategia che lasci a ciascuno di noi lettori la libertà e la responsabilità di un giudizio non solo storico, ma strettamente individuale, nostro e personalissimo, sulla stortura medesima ed i suoi effetti decisivi e perversi. Ad esempio, il fastidio che ho sempre provato per la discrasia terminale di molte vite che sorprendono per la loro incongruenza tra sofferenze subite e sofferenze restituite è una mia distorsione del giudizio complessivo, radicale rifiuto per cui qualsiasi genialità anche la più indiscutibile, per ingenerosità non meriti mai il perdono? ¿Ed il perdono stesso non sarebbe poi una dimensione estranea (un dover essere ancor meno vocazionale che sostanziale) ad ogni primario valore della vita? ¿Oppure, nell’incertezza, altrettanto radicale, è meglio sospendere il giudizio e stendere un velo d’umana pietà sulla differenza tra un’anima generosa ed una rancorosa? ¿In attesa di che? (...¿se non di noi stessi?). Questa è una domanda che non necessariamente odora di sacrestie, ma che interroga profondamente e forse irreversibilmente sul nostro intuibile livello esistenziale. Perché poi è facile constatare come troppi - persino dei più, a loro modo, fertili - restituiscano, appena possibile, oblio, distanza, estraneità e persino odio.
  • ...
  • Ed, indipendentemente da quanto possa sembrare involversi la mia reazione rispetto ad una serie di domande imperdonabili, è merito del metodo di tale libro, di averle suscitate. Comunque la buona novella delle quattro mani è che qui non si fa la solita apologia dei belli/brutti e dannati, lieta quanto quasi sempre irresponsabile, e soprattutto falsa, perché i puzzolenti e gli sporchi sono poi aborriti - e giustamente - dalle donne, e il carico insopportato delle sofferenze ci insegna che snaturarsi - ovvero portarsi là dove si avanza sempre (...¿per arrivare a quale traguardo?..e, troppo spesso, nel fango e nella polvere) e non ci si ritira mai - è portarsi all’estremo. All’estremo di noi stessi. Più che guardare in quel vortice.
  • ...
  • Ecco perché, da noi, in un’epoca come l’attuale, si cerca di far dominare la tinta pastello, in un’orgia di giustificata ipocrisia, costretti poi come siamo ad esorcizzare i nostri incubi di sempre... a peste a fame a bello... i bianchi lisciati e lancinanti e il fosco grezzo della materia dura, si combattono come non mai, si rendono estranei come non mai e credo che i due architetti autori, ne siano ben consapevoli, sino al punto di farne la cifra segreta di questo testo, fuori da ogni prevedibile schema. Di questo gli sono proprio debitore come lettore, singolarmente. Il che non significa affatto, anzi il contrario, che il tutto non sia estremamente pensato. Al di là dei due registri narrativi - prolessi e metalessi - ci sono tanti altri segnacoli continui che mimano i diversi livelli di consapevolezza critica, dal “...dico io...” della riconoscibile voce dentro/fuori campo, agli inserti di comunicati della propaganda di guerra, tutti ben adatti alla bisogna del raccordo, e tutti ormai ben presenti nella coscienza avvertita. Le note e le foto stesse, tutte sapientemente marcate e sorta di paratesto vibrante, sono quindi non meri espedienti, ma strumenti ben godibili nell’inconscio medio di un lettore contemporaneo. C’è anche qualche iperbole narrativa, finemente poetica, come la griglia della finestrella nel buco ipernascosto, rifugio dell’ebreo in fuga, che diventa ascissa ed ordinata, more pythagorico, del suo spiare all’esterno, tipico autoriflesso di colui ch’è abituato non solo a vedere ma a guardare, parafrasi ironica, azzarderei quasi sacrale, nel suo... al di là di bene e male. Cosa che in più - criticamente - stringe ed allenta assieme le maglie del velo voyeuristico/artistico e che è rigiocata - a suo modo - persino da un ospite/soccorritore, nella sua totale spietatezza ributtante ma anche illuminante, il grande falsario e mediocre pittore, che s’affaccia alla fine del libro. Ma decisivo per l’esito del protagonista, ovvero la fuga terminale nell’Olanda ancora tra le truppe in lotta ed il suo definitivo annegare, quando quasi libero.
  • ...
  • Tre utilissime introduzioni corredano il testo.
  • Prima: Apocalisse con figure, di Marco Genzolini. Una “geo-estetica” (che poi è il vero e proprio protagonismo dei luoghi tramite il genius loci, ribadito anche da Simone Germini, non solo dichiarato ma ben realizzato lungo tutto il testo) non sembra proprio quella - per l’estrema accortezza espressiva - di un “romanzo divulgativo”. Invece è indiscutibile la sottolineatura della storicizzata profezia sul “suicidio europeo” nel matttatoio duplicato nella prima metà del secolo feroce.
  • Seconda: Parigi come leggenda, di Flavio Cuniberto, che, da par suo, sviluppa una serie inestricabile di urgenze profonde che fanno precipitare in Parigi, nate da ogni vicina e lontana landa, una frenesia espressiva nella compresenza magmatica e quasi insondabile delle corrispondenze fra inconscio, décadence, arcaico, primitivo, simbolico, rarefazione tonale e figurativa, scomposizione analitica, futurismo, dada, surrealismo, costruttivismo razionalizzato, nuovi spiritualismi, infine recupero e piena esaltazione delle pulsioni imperialistiche grandiosamente tragiche ed assieme millantatrici... Tutto interpretato come contraddittorio percorso di riemersione dell’onda lunga del Romanticismo, ma sotto l’influsso di uno sterminato radicalismo nichilista.
  • Terza ed ultima: “L’Introduzione all’opera” di Simone Germini, sodale dei due autori, che puntualizza alcune caratteristiche della struttura, del linguaggio e della poca conformità cartolinesca del tutto. Aiuta a trarsi da facili conclusioni anche la didascalia “Parigi era sporcizia, malattia e povertà mostruosa”... messa, quasi indecifrabile, sotto la vetrina della coloreria, in seconda di copertina.
  • ...
  • Un libro realmente affascinante, che restituisce fra tanta differenziata spazzatura verbale ed ideologica, il piacere grande d’immergersi in un sogno ingegnoso che è a tratti incubo e rêverie, come è, più o meno, tutta la nostra vita. Un solo errore storico, che mi spiace proprio, sinceramente, aver dovuto registrare.

  • Dalla porta cornea

  • “Il   Tricolore,  simbolo  e   logos
  •  di
  • Sandro Giovannini
  • (Questo breve scritto è il testo del "rotolo corto"
  • - volumen -  edito il 21 aprile 2007,
  • dedicato al nostro simbolo nazionale. In finale le indicazioni grafiche ed editoriali)

  • Il simbolo del “tricolore” viene prima del logos del tricolore...
  • ...Perché il simbolo è plurivalente e contiene in sé una potenzialità di possibili e di compossibili.   Il logos ne può essere un tentativo, poi, di esplicitazione, ma, nel sceverare la complessità inesauribile del simbolo, porta ad una frammentazioni di significati e di significanti, a possibili successive interpretazioni, di cui molte sicuramente legittime ed assieme divaricanti. Nel simbolo invece c’è ancora tutta la potenza, inespressa ma inesauribile, degli universi di riferimento ontologici, confessionali, mitici, filosofici, astrologici, rituali, emozionali, materiali e quindi comunicazionali. Quando, ad esempio, ovviamente a contrariis, e quindi risalendo la scivolosa ripa del tempo, cerchiamo disperatamente d’intuire prima e di comprendere poi, perché il 3 agisca (anche) nel campo del colore e ne troviamo barlumi di senso nel mondo a noi ancor noto del rapporto con l’universo astrologico, con la fascinazione del mutamento e del suono promanante dall’interagire dell’Unità e della Dualità, e poi, in mille esempi, nell’esperienza del mondo e del tempo, tra loro collegati o comunque interagenti, nel campo del Sacro, dell’eroico, del sacrificio, del gioco, della rivoluzione, del ritorno all’ordine… allora cominciamo ad intendere che il simbolo può da noi essere ritradotto in logos ma, nella trasposizione, mille valori si aggiungono e mille si possono ottundere.

  • Resta che tale simbolo, unisce e ricostituisce in noi, proprio nella nostra ragione ritrovata ma consapevole delle mille “irragioni”, che non potremmo né disperdere né portarci appresso nella nostra quotidiana esperienza se non come viatico e luce di vita, una unità (tale è - anche - la sua funzione), unità, attraverso la quale, tale simbolo è caro, è bello, è potente.

  • “…E cioè screziato con i tre tipici colori trifunzionali degli Indoeuropei (bianco, rosso e verde - o nero o azzurro-)” …     “…gli stessi tre colori caratterizzano l'arcaico rito dell'evocatio ittita…” (Basanoff, Evocatio, Paris 1945, pp. 141, G. Dumézil, Rituels Indo-Européens à Rome, Paris 1954, pp. 45-55)…     “… Merita comunque di essere ricordato che anche gli Ittiti ricorrevano a formule rituali che presentano singolari analogie con quelle dell'evocatio romana. Era infatti costume presso quel popolo di invitare gli dèi della città assediata ad abbandonarla da tre vie, contraddistinte dal colore bianco, rosso e blu…” (G. Furlani, La religione degli Ittiti, Bologna, 1936, pagg. 223-227). Cosa che suppone - rileva opportunamente il Dumezil – “…una classificazione degli dèi di tipo indoeuropeo, con gli stessi colori simbolici delle tre funzioni sociali sia presso gli Indiani che presso gli Iraniani…” (G. Dumézil, cit., pp. 45-51). L'autore rammenta che, nel mondo indù, Agni, il dio del fuoco, a causa della sua triplice natura, poneva in contatto i tre piani del Cosmo; favorendo la «discesa» degli dèi e  l'«ascesa» delle preghiere e dei sacrifici degli uomini, in quanto «conosceva la strada ed i sentieri» divini (“nerobianco e rosso”Rig Veda, X, 98 55) che egli percorreva  con il suo carro (Rig Veda, I, 31, 17; VI, 16, 2-3; VII, 10, 4).   Tale funzione intermediaria di Agni e del suo carro deve, ovviamente, porsi in stretta relazione con quella rivestita da Giano e dalla sua nave nel mondo romano. …
  • …Comunque presso gli antichi era diffusa la convinzione secondo la quale essi potevano condizionare e quindi piegare alla propria volontà anche le divinità più riluttanti. L'evocatio era quindi un rito attraverso il quale i Pontefici, coadiuvati dal capo dell'esercito, pronunciando una formula incantatoria (carmen), invitavano le divinità protettrici a trasferirsi a Roma. Con ogni probabilità, nei tempi antichi, la conoscenza e la designazione esatta della divinità con il suo nome arcano (segreto ai più), insieme al carmen, costituivano l'elemento essenziale, l'ingiunzione irresistibile che avrebbe provocato l'abbandono delle divinità tutelari. …

  • … Senza poter qui entrare nella complessa questione della tipologia delle folgori, ci limiteremo ad indicare che, secondo l’opinione comune, esse erano di tre colori: nere, bianche e rosse. Il Weinstock, tuttavia ha rilevato, non senza ragione, qualche imprecisione nel testo dello Pseudo Acrone, (Hor. Carm. I, 2, 1-4,: “omnes manubiae albae et nigrae pallida corruscatione esse dicuntur, Iovis rubra et sanguinea”) che evidentemente non era in grado di comprendere quanto diceva ed è giunto alla conclusione che il colore dovesse eventualmente dipendere dal suo archetipo planetario: infatti il rosso è tradizionalmente connesso con Marte e non con Giove, che sarebbe associato invece al bianco, rispetto al nero di Saturno. …   Servio (Ad Ae., I, 335: “sciendum autem … de planetis quinque duos esse noxios, Martem et Saturnum, duos bonos, Iovem et Venerem, Mercurius vero talis est, qualis ille cui ingitur”. Altre conferme in Plinio (NaturalisHistoria, II, 139) ed in Tolomeo, (Tetrabiblos, I, 5)…  … ruota a cui si continuò comunque a riconoscere nel tempo un potere di attrazione nel senso di “incantesimo, attrazione, desiderio” …occorrerebbe soprattutto sottolineare l’importanza del movimento circolare e vorticoso nonché del suono stridulo o ronzante che provocherebbe la fascinazione (fascinus / fari/ fascis = azione magica intesa a circondare, avvolgere l’oggetto o la persona, con una fascia magica - anche - di suoni, circolare, spiraliforme, sia a fini apotropaici che paralizzanti, quindi sia a fini positivi che negativi), proprio a causa della loro ipnotica ripetizione. Non dovrebbe quindi sorprendere, in ultima analisi, che a Roma la captatio della venia deorum potesse avvenire anche attraverso le corse dei carri, che avevano all'origine un carattere magico ed astrale che gli stessi Romani, dell'epoca classica, tendevano a sottovalutare (R. Schilling, Rites cultes, dieux de Rome, pag. 87; P. Wuilleumier, Cirque et astrologie, in “Mél. d’archeo. et d’hist. de l’Ec. Franç. de Rome, XLIV -1927, pag. 191 ; A. Piganiol, Recherches sur le jeux romains, Paris, 1923). Le ruote dei carri avevano invariabilmente otto raggi come da simboli solari riportati ovunque, parapetti, balaustre, scudi, etc. e come attestano indiscutibilmente tutte le riproduzioni su marmo, ancora perfettamente visibili… Poi gli aurighi, in particolare, erano contraddistinti da diversi colori: bianco, rosso, verde e blu. Gli eruditi, sottolinea acutamente il Dumézil ritenevano tuttavia che alle origini i carri delle «fazioni», che gareggiavano per le singole tribù, e quindi i rispettivi colori, fossero tre soltanto in onore di Giove, Marte e Venere: bianco, rosso e verde. (G. Dumézil, Rituels…cit., pp. 51 55).   Sul tentativo fallito di Domiziano di aggiungere altri due colori, «porpora» e «oro», vedi Svetonio… (Svetonio, Domiziano, 7). Svetonio rammenta poi che Caligola era partigiano dei «verdi» (Cal., 56) rispetto a Galba e Vitellio che favorivano i «blu» (Vit.,7).   Giovanni Lido (De magist., I, 47), oltre ad alludere alla tripartizione funzionale primitiva della società romana, aggiunge altresì (De mens. , IV, 30): «Quando il popolo romano fu diviso in tre parti, ciascuna di esse fu chiamata tribù... Tre carri, e poi quattro, partecipavano alla corsa. Gli uni erano russati, cioè rossi, i secondi albati, cioè bianchi, gli altri virides, cioè verdi, quelli che oggi chiamano prasini. Essi ritengono che i rossi appartengano a Marte, i bianchi a Giove, i verdi a Venere.   Più tardi si aggiunse il venetum, il blu...».   Sulla tripartizione funzionale di Roma (ai Ramnes, Luceres e Tities, corrispondevano in origine rispettivamente i sacerdoti, i guerrieri e i produttori), oltre a Properzio, (Prop. IV, 1, 9-32), vedi G. Dumézil, Naissance de Rome, Paris 1944, pp. 86-127; G. Dumézil, Rituels, cit., p. 55.   Vedi anche J. André, Etude sur les termes de couleur dans la langue latine, 1949, pp. 162.194; L. Gerschel, Couleur et teinture chez divers peuples indoeuropéens, in «Annales», XXI, 1966, pp. 608-631. Ancora Dumézil, s’intrattiene sul diverso carattere delle tre convocazioni: sacrale, militare e collettiva.   Per un approfondimento sui tre colori, cfr. E. Wunderlich, Die Bedeutung der roten Farbe im Kultus der Griechen und Rőmer, in «Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten», XX, 1, Giessen, 1925.   Sui fila discolora, i fili a tre colori attaccati agli alberi, vedi anche Stazio, Theb., II, 737. p. 284.

  • … È opportuno osservare però che il verde, oltre ad essere il colore caratteristico di Venere, era associato dall'autore bizantino Lido anche a Flora, accostamento questo che ne sottolinea, ovviamente, il carattere di divinità propiziatoria della fertilità dei campi, della città e, più in generale, della massa, un paredro femminile, quindi, di Quirino. È probabile che l'aggiunta del quarto colore, il blu di Saturno o Nettuno, debba attribuirsi al passaggio, alla fine della monarchia, da un sistema a tre tribù (funzionali) ad un sistema a quattro tribù (localmente distribuite).   Il verde poi, nel mondo latino, si distingueva assai poco dal blu: il termine caeruleus, ad esempio, indicava sia il «blu» che il «verde» e talvolta adombrava persino un colore infernale, un sinonimo arcaico del nero (Servio, Ad Aen., VII, 198), tanto da indurre a ritenere che il terzo colore sia stato in effetti raddoppiato. I tre colori avevano tanta importanza a Roma, da apparire anche, in un altro contesto: quello delle bandiere: album, roseum, caeruleum, che venivano issate sul Campidoglio per convocare diversi tipi di riunioni popolari (comitia curiata, comitia centuriata, tumultus collettivo).   Favorendo quindi la corsa circolare o ellittica dei carri e lo sventolamento delle bandiere, s'intendeva incitare, con i rispettivi colori, gli uomini ed evocare gli dèi, per il benessere e la difesa dell'Urbe.     A tal riguardo non sarà fuor di luogo ricordare che appare quanto meno discutibile l'opinione comune secondo la quale i colori della bandiera italiana sarebbero stati tratti - unicamente - dalla Massoneria (P. Cusani, Storia di Milano dall'origine ai nostri giorni, Milano 1861-1864, cap. VI, vol. V; in particolare, il libro dell'abate Larudan, Les Francs Maçons écrasés, suite du livre intitulé l'Ordre des Francs Maçons trahi, Amsterdam 1747, pp. 169-202 e, soprattutto, l'edizione italiana, I Liberi Muratori schiacciati - Origine dottrina ed avanzamento della setta filosofica ora dominante, Assisi 1793, pp. 140-161), o sarebbero legati - unicamente - al tentativo rivoluzionario di Luigi Zaniboni a Bologna ne1 1794. Il tricolore viene comunque adottato il 7 gennaio 1797 con la costituzione della Repubblica Cispadana e, dal Parlamento italiano, a Torino, il 17 marzo 1861. E’ evidente infatti come l'ispirazione del tricolore, che ammanta Beatrice, Dante (Paradiso, XXX, 28: «sovra candido vel cinta d'oliva // donna m'apparve, sotto verde manto // vestita di color di fiamma viva»...), l'avesse mutuata dal suo Maestro Virgilio che, nel descrivere l'Elisio (En., VI, 637 ss.), intreccia ripetutamente la luce purpurea con i verdi boschi e le candide bende... (vedi: Marco Baistrocchi, Arcana Urbis, Ecig, Genova)

  • Evocatio, carmen, folgore e folgorazioni, ruota, carro da corsa, incantamento, rumore degli strumenti che girano accerchiando e fascinando, e mille altri plessi di valore e di significato.   Tutto ciò sta intorno al logos del tricolore ma solo nel simbolo, ognuna di queste dimensioni, non viene separata e non acquista una propria autonoma assolutezza, auto-significante ma, a suo modo, potenzialmente, deviante. L’unità impregiudicata del simbolo viene così confermata, divenendo per noi motivo di riconoscimento, di ricostituzione, d’identità.

  • Grafismi vari - da sinistra a destra: tavoletta La profezia di Enea, per incisione laser, s.g.; collage dall’opus sectile della Basilica di Iunio Basso e da Pompei, decorazione interna, rielab. di s.g.; Auriga, fazione verde, da Piazza Armerina, con testo di Rutilio Namaziano, opera materica, 1990, s.g.; collage da Mollino, Faravelli e Giovannini, rielaborazione con poesia, di s.g.; collage con poesia di Kavafis e testo di Giuliano Augusto, rielab. di s.g.; collage di s.g.; copertina pergamenacea, con testo di Rutilio Namaziano, di s.g.; Augusto romano, opera materica, 1991, di s.g. .
  •  
  • © - HELIOPOLIS EDIZIONI di idee e materiali di scrittura
  • Ideazione e realizzazione di Sandro Giovannini.    
  • Tiratura 100 esemplari numerati e firmati dall’autore, 21 Aprile 2007.
  • Esemplare n° …     Questo esemplare appartiene a : ……
  • tricolore bighe

  • Rivista online Heliopolis:
  • SECONDA SEZIONE:
  • “Articoli/saggi/segnalazioni Autori diversi,
  • indipendenti dalla Scuola Romana”   
  • coordinata da Sandro Giovannini
  • Tutti gli ARTICOLI leggibili  al   16.12.2022
  • ***
  • (...in alto i più recenti...):
  • A proposito di  "Amo l’America nonostante...",   di Luca Gallesi,   rec. di Sandro Giovannini.
  • A proposito di  "Opera interrotta", di Evelyn Waugh, rec. di Sandro Giovannini.
  • Rivoluzioni, Marce ed altre Bagatelle,   art. di Andrea Marcigliano.
  • Su LA MISERIA SIMBOLICA di Stiegler, nuovo testo (parziale) del saggio di Sandro Giovannini.
  • Le forme dell’uomo, art. di Andrea Marcigliano.
  • Cultural Intell igence e Etnografia di Guerra, di Federico Prizzi, rec. di Sandro Giovannini.
  • A proposito di "Il sole alle spalle", di Mario Dessy,  rec. di Sandro Giovannini.
  • A proposito di "Antisnobismo", di Mario Carli,   rec. di Sandro Giovannini.
  • NEMESI può attendere, art. di Sandro Giovannini.
  • Esempio di un prototipo di ‘Tavoletta Heliopolis’, art. di Sandro Giovannini
  • Metodo ideogrammatico?     art. di Sandro Giovannini.
  • La fantesca in casa Bismarck,   art. di Curzio Vivarelli.
  • CRONACA. Sull’esposizione al MART di Evola,   art. di Curzio Vivarelli.
  • A proposito di  "CANE SCIOLTO"   di Miro Renzaglia,   rec. di Sandro Giovannini.
  • Le evocazioni di Giovannini, un arcobaleno che unisce l’arcaico al futuro, saggio di Marco Rossi.
  • Il piacere di stare in una solitudine ideativa, art. di Jakob Shalmaneser.
  • I SENTIERI DELLA TECNICA, di Stefano Vaj, intervista di Roberto Guerra.
  • P. P. P. ,    art. di Andrea Marcigliano.
  • ALESSANDRO III   e   PUTIN,   art. di Marco Bordoni.
  • A proposito di “338171” di VICTORIA OCAMPO,   rec. di Sandro Giovannini.
  • La CORTESIA come sfida,   art. di Sandro Giovannini.
  • Gli EROI dimenticati di una guerra perduta,   art. di Gianandrea Gaiani.
  • A proposito di  "URBS AETERNA", di Sandro Consolato,   rec. di Sandro Giovannini.
  • Intervista a VITALDO CONTE, a cura di Roby Guerra.
  • Psicanalisi del futuro, art. di Roberto Guerra.
  • L’evocazione del sacro perduto. Dal GEORGE-KREIS al COLLEGE de SOCIOLOGIE, saggio di Federico Gizzi.
  • I Sabei di Harran e la Scuola di Atene, di Nuccio D’Anna, rec. di Sandro Consolato.
  • Obiettivi nefasti, di Dmitry Orlov, con preambolo di S. G..
  • I rinnegati del terrore, art. di Sandro Giovannini.
  • Borges a Pesaro, rievoc. del 2016 dell’evento del 1977, art. di Sandro Giovannini.
  • Properz-Gedichte, il Volumen latino-tedesco, opera prima Heliopolis, di Sandro Giovannini
  • I Liguri. Etnogenesi di un popolo, di Renato del Ponte, recensione di Daniele Verzotti.
  • Intevista di Luigi Sgroi  a  Sandro Giovannini, (su Emo-Sessa).
  • Lettera aperta sulla giustizia e la libertà del dibattito, + commento di S. Giovannini
  • Gli iconoclasti e gli oikofobi, art. di Andrea Marcigliano.
  • Ri-orientamenti occidentali,  art. di Luigi Sgroi.
  • Giaconi e Filippani Ronconi, di Federico Prizzi, seguito da  nota di Sandro Giovannini.
  • Apocalisse minore, di Biagio Luparella.
  • Le Ninfe, art. di Mario Bernardi Guardi.
  • Beethoven, art. di Curzio Vivarelli.
  • Armageddon, determinismo e rabbia,    art. di Gordon Duff.
  • Fumo di Londra, art. di Gabriele Adinolfi.
  • Intervista ad Assad,  a cura di Monica Maggioni.
  • La paideia negativa,  art. di Sandro Giovannini
  • La somma di tutte le paure di Washington, art. di Patrick Henningsen.
  • La paura di dire... art. di Sandro Giovannini.
  • Ritrovare il ‘Canone’,   art. di Andrea Marcigliano.
  • Il più Ricco il più Povero, art. di Federico Pieraccini.
  • Discentrare il disordine, art. di Sandro Giovannini.
  • Beethoven, art. di Curzio Vivarelli.
  • Dugin intervistato  da Adriano Segatori.
  • Contro il liberalismo, di A. de Benoist,  rec. di Gilbert Doctorow.
  • Ahnenerbe in Finlandia. Un nuovo libro di Federico Prizzi, rec. di Emilio del Bel Belluz.
  • 7 navi tedesche..., Fecia di Cossato, art. di Nicolò Zuliani.
  • La fantasia del complotto (2),   saggio di Sandro Giovannini
  • Inganno Bannon, di  AA.VV..
  • Della bellezza dei corpi, di Riccardo Campa, (Comunicato Editoriale).
  • A proposito di   "Il primo Re"Subito, od un poco più in la?    rec. di Sandro Giovannini.
  • La diversa avventura dell’elitismo, Borges et alii,  art.di Sandro Giovannini.
  • I ‘demoni’ sono tra noi, art. di Adriano Segatori.
  • Una prima lettura su Karl Evver,   di Sandro Giovannini.
  • E se ‘questa’ democrazia fosse il ‘male assoluto’?,  art. di Sandro Giovannini.
  • Nuovo colonialismo e media coloniali, art. di Tim Anderson.
  • La legge non è uguale per tutti,   art. di Adriano Segatori.
  • Orfani di Marte, art. di Piero Visani.
  • L’Europa che vogliamo,    art. di Vittorio de Pedys.
  • Una diversa versione di “cattivi maestri”,  art. di Sandro Giovannini.
  • Faide ed interessi. La difficile lotta ai trafficanti, art. di Gianandrea Gaiani.
  • Il demone della decadenza, art. di Adriano Segatori.
  • La fantasia del complotto,   saggio  di Sandro Giovannini.
  • Scrittura-pittura in Italia,  di Vitaldo Conte, seguito da: Norma, scarto, stile,  art. di Sandro Giovannini.
  • Il barone immaginario. 18 racconti su Julius Evola, di Autori Vari, a cura di Gianfranco de Turris.
  • Cosa ci insegna il popolo siriano, art. di Sebastiano Caputo.
  • E’ necessario…   art. di Sandro Giovannini.
  • Storia della guerra dall’Antichità ad oggi, di Piero Visani, 1 Volume di due, OAKS Editrice.
  • L’ispirazione,   art. di Giuseppe Gorlani.
  • La Parola,  art. di Giuseppe Gorlani.
  • Il sogno del cavallo,   art. di Sandro Giovannini.
  • Due articoli sulla SIRIA,  di Autori Vari.
  • Il Capitalismo struttura la psiche individuale…, art. di Adriano Segatori.
  • Mostra Vivarelli, 13 Aprile 2018, Palazzo del Governo, La Spezia.
  • Colin Wilson & Jacques Bergier. Ovvero la congiura della storia, art. di Andrea Scarabelli.
  • Fato ed Estinzione,  saggio di Sandro Giovannini.
  • Mostra di Sibò, a Latina, a cura di Roby Guerra
  • Antico Futuro. Richiami dell’origine. Conte, Frau, Ricucci ed Altri…
  • Il Tricolore, simbolo e logos,  art. di Sandro Giovannini.
  • Lo straniero, colui che porta i mali…, art. di Paolo Aldo Rossi.Il male necessario,  di Gabriella Chioma.
  • Per dirsi con la scrittura..., art. di Agostino Forte.
  • Intervista a Luca Gallesi, (OAKS Editrice), a cura di Sandro Giovannini.
  • Manifesti futuristi, a cura di Riccardo Roversi, prefazione di Roberto Guerra.
  • I “libri-idea”, art. di Sandro Giovannini.
  • Prefazione del generale paracadutista incursore Marco Bertolini al libro: “I ragazzi della Folgore”.
  • Comunicato Stampa, post inaugurazione Mostra di Curzio Vivarelli.
  • La decrescita prima della decrescita, art. di Eduardo Zarelli.
  • La Torre-Gru di Alexander Rodchenko e la linea summae tenuitatis, di Curzio Vivarelli .
  • Tre Graffi, di Karl Evver…
  • La connettività…di Vittorio de Pedys.
  • L’eclisse della ragione…, di Paolo Aldo Rossi e Ida Li Vigni.
  • Gli eroi di Kuwereis, di Gian Micalessin.
  • Intervista a Stefano Vaj, a cura di Adriano Scianca.
  • Brevi note sul cambiamento, di Giuseppe Gorlani.
  • Lo specchio e le simmetrie dell’anima, di Barbara Spadini.
  • Ecco perché le élites ci odiano, di Adriano Scianca.
  • Reem, giovane siriana...
  • La capitale del tempo, romanzo di Sandro Giovannini, rec.di Giovanni Sessa.
  • Un inarrestabile impulso al suicidio,  art. di Sandro Giovannini.
  • La fragile e deliziosa Italia ferita che non muore, saggio di Sandro Giovannini.
  • Futurismo renaissance. Marinetti e le avanguardie virtuose, a cura di Roby Guerra.
  • La parola a Ezra Pound, di Miro Renzaglia.
  • Un popolo di debitori,  di Miro Renzaglia.
  • "Notturni,   di AA.VV.,    Prefazione di Sandro Giovannini.
  • A proposito di  "Diocleziano", di Umberto Roberto. Rec. di Sandro Giovannini.
  • Lo scontro d’inciviltà,  saggio di Sandro Giovannini.
  • L’altrimenti inaffrontabile, di Sandro Giovannini.
  • Dentro questo occidente siamo tutti condannati, saggio di Sandro Giovannini.
  • E’ la mia vita che muore. E’ la vita che rinasce,  saggio di Sandro Giovannini.
  • A proposito di Crescita/Decrescita, di Stefano Vaj.
  • Intervista a Roberto Guerra e Sandro Giovannini, a cura di Luca Siniscalco.
  • Per ora, intorno al dilemma “crescita/decrescita”,  art. di Sandro Giovannini.
  • Iperborei,  art. di Paolo Casolari.
  • Riflessione sulla pratica dei trapianti,  art. di Giuseppe Gorlani.
  • Chimere urbane… l'arte di Domenico Marranchino, art. di Luca Siniscalco.
  • Oltre la Filosofia, la Sapienza!,   art. di Luca Valentini.
  • Sei connesso… da dove?...,   art. di Luca Siniscalco.
  • Riflessioni sul pensiero e sull'estetica di Walter Benjamin,   art. di Umberto Petrongari.
  • Lo Stato Organico, secondo Carlo Alberto Biggini,  rec. di Primo Siena.

  • ALTRI   TESTI 
  •  in diverse
  • "SEZIONI"
  • del sito
  • Heliopolis
         
  • Borges a Pesaro, Maggio 1977, Rievocazione del 21 Luglio 2016, nella sezione “NOTIZIE”,   di S.G..
  • Properz-Gedichte, il volumen manufatto prototipo, nella sez.“RUBRICHE EDITORIALI, B) Paraeditoria”,   di S.G..
  • Symposium, il volumen manufatto stampato, nella sez. “RUBRICHE EDITORIALI, B) Paraeditoria”,  di S.G..
  • Quarto d’ora di poesia della Decima Mas, nella sez. “RUBRICHE EDITORIALI, B) Paraeditoria”,   di S.G..
  • ELOGICON, Progetto generale e pratica attuativa, nella sez. “RUBRICHE EDITORIALI, B) Paraeditoria”,   di S.G..

  • Gallesi Amo lAmerica

  • Amo l’America nonostante...
  • Le vite parallele di Ezra Pound e Gore Vidal
  • di
  • Luca Gallesi
  • Prefazione di Francesco Ingravalle
  • MIMESIS. Eterotopie, ottobre 2022
  • Rec. di
  • Sandro Giovannini
  • Ultima potente opera di Gallesi questo libro ripercorre due vite parallele non forzatamente poste solo sul piano delle ricorrenze epocali ma di quelle etico/utopiche. Nell’esauriente introduzione d’Ingravalle viene ben messo in luce complessivamente la disamina, concentrata meravigliosamente in una citazione da Sombart... quella del destino manifesto del capitalismo trionfante ed ora terminale:
  • ...
  • “...Come da nessun’altra parte Paese e genti erano create per stimolarne lo sviluppo alle sue forme estreme”. (pag. 11).
  • ...
  • Ma Ingravalle mette anche in controluce critica una contraddizione palese nelle facili interpretazioni storiografiche perché in America si determina una rivoluzione:
  • ...
  • “...per il diritto antico, tradizionale, per la Magna Carta per i Bills che il Parlamento di Londra calpesta senza scrupoli. Una rivoluzione radicalmente diversa dalla Rivoluzione francese che instaurerà un nuovo diritto che la ragione giudica eterno (non a caso un conservatore come Edmund Burke appoggerà la rivoluzione americana e criticherà senza indugi la rivoluzione francese). Una rivoluzione conservatrice, si potrebbe dire con un - a nostro avviso - sensato anacronismo; che però, ha messo capo a uno Stato senza una nobiltà e fondato sull’unico criterio gerarchico del merito in materia economica, oltre che politica”. (pag. 12)
  • ...
  • Direi che il nesso di queste due dimensioni, un destino manifesto ed una innocenza tradita, con tutte le prevedibili... persino ben previste ed infine automatiche opposizioni dettate dal potere spesso in ombra e dalle conseguenti dissimulazioni storiograficamente complici, sono i poli, che nell’interpretazione di Gallesi riguardo al rapporto Pound-Vidal, si sviluppa - direi – plutarchianamente, se il dato metastorico pur non prevaricando affatto quello “materialisticamente” storico, prende decisamente la guida “sottile” dell’esegesi. Ricordandoci sempre che parliamo di due giganti espressivi.
  • ...
  • Capirete bene che passare dal regno della virtù a quello dell’usurocrazia o dall’età dei governanti a quella degli sfruttatori, tramite il performante mulino macinatore dei media, ovvero dalle cd. ritenzioni secondarie a quelle che Stiegler definirebbe ritenzioni terziarie, è un processo che per tutti i convinti liberal-democratici (ancor più per quelli di ora, beninteso) risulta follia interpretativa e postura eversiva, in quanto sia pur sotto la veste del processo fenomenologicamente sperimentato, ormai, da masse sempre più vaste, non può non essere se non negato e ferocemente avversato e quindi organicamente combattuto con ogni mezzo tra i più sofisticati. Se poi questa nazione è più o meno permanentemente in guerra la funzione imperiale occidentalizzante, oltre ogni già immane problematica d’origine europea, non può che portare all’estremo le contraddizioni che lo spirito volgarmente trionfante del capitalismo onora costitutivamente nella sua patria d’elezione.
  • ...
  • “...Ad un primo sguardo non potrebbero sembrare più lontani tra loro. Ricco, proveniente da una potente famiglia inserita nell’apparato politico, radicale di sinistra e omosessuale dichiarato il primo, poeta difficile, playboy spiantato, rinchiuso per dodici anni in manicomio criminale e privato della personalità giuridica il secondo, Vidal e Pound sembravano davvero non avere nulla in comune. Eppure, andando oltre le apparenze, sono molti ed importanti gli interessi condivisi da entrambi; le vicende della storia americana e la passione per la giustizia uniscono, infatti, sia le personalità sia le opere dei letterati, tutte e due consapevoli della necessità di sviluppare, come intellettuali, la coscienza critica nei confronti degli U.S.A., da loro molto amato, e proprio per questo criticato spietatamente”. (pag. 21)
  • ...
  • Il genialmente definito da Galbraith “complesso militar-industriale”, ripreso dalla coraggiosa definizione d’Eisenhower, riesce efficacemente a “...troncare e sopire... sopire e troncare” e forse ancor più efficacemente deviare ogni ritornante e pericolosa istanza critica nel nuovo conformismo/benaltrismo che può sempre essere dirottato su strade inoffensive per l’impero seppur ottusamente feroci per la cd libertà democratica (woke, BLM, cancel, political correctness), ovvero ‘l’oppio degli intellettuali” o forse meglio degli “stupidi intelligenti”, dai media alle università ai consumatori massificati/atomizzati e ritorno) rispetto ai sentieri (Paths of Glory) indicati su carta pecora dai discendenti ancora memori dei Founding Fathers. La distanza tra Cantos e Narratives of Empire, è abissale dal punto di vista estetico ma si riduce quasi a zero considerando la matrice eidetica dei due.
  • ...
  • Unica sorpresa per me, a totale lode di Gallesi, è la retrodatazione del meccanismo invalidante del “troncare sopire... sopire troncare”, non solo “misfatto elegante e farisaicamente onesto”; come recitò, al proposito, un famoso critico letterario. Retrodatazione, puntigliosamente documentata lungo tutta la vicenda storica americana, interpretata (ovviamente a loro modo, o forse meglio, secondo il rispettivo stile espressivo) da Pound e Vidal. La mia ingenuità, reputo più diffusa di quanto si creda, è quella di aver sopravvalutato le condizionalità sopravvenienti della pratica e dell’etica capitalistica, come stravolgenti novità (vulgo terminali) per un’ormai innegabile deriva d’allontanamento dai propositi originari, più o meno idealistici, pur avendo frequentato la critica sia storico-aristocratica che populistico-libertaria, a certo tipo d’americanismo, sin dalla giovinezza.
  • ...
  • Questa è la prova del lavoro eccellente di Gallesi con la sua forza testimoniale ed il suo genio interpretativo, piana nella sua totale leggibilità ma rotonda nel suo assommarsi documentativo come un boléroraveliano, e quindi inarrestabile per la novità in crescendo sul campo della ricerca mai finita.

  • Opera interrotta Evelyn Waugh

  • A proposito di  Opera interrotta  di Evelyn Waugh 
  • rec. di
  • Sandro Giovannini

  • L’apparato critico a corredo del libro è esauriente seguendo passo passo la costruzione del romanzo e facendoci partecipi di quanto sia sostanzialmente autobiografica la scrittura di Waugh. In un solo capitolo di un intero libro sull’autore (Jeffrey Heath, The Picturesque Prison: Evelyn Waugh and His Writing, Weidenfeld and Nicolson, London, 1982, Cap. 10), diversifica questo testo rispetto ai precedenti, in direzione di un cambio di vita interiore per una più spinta autenticità.
  • ...
  • Per noi, permane comunque una distanza evidente della nostra complessione nazionale rispetto al ritratto “a tutto tondo inglese” di Waugh, quasi catafratto in funzione magistrale nei possibili archetipi e stereotipi. Questi nella nostra presumibile rappresentazione al proposito e nella nostra conseguente capacità recettiva. Anche motivo di sorpresa continua e di sorridente compiacimento assieme, a rendere più arduo però il nostro scandaglio veritativo, posti di fronte come siamo ad un geniale mix di commedia ch’è ritratto di costume, oltre che ritratto di ripetute generazioni tra college viaggio all’estero e case alto borghesi (preferibilmente di campagna). Reiterazione che contrappone a dei padri ingombranti e diversamente irresponsabili dei figli sfuggenti ed altrettanto prevedibilmente difficili. Affondati in una convivialità eccessivamente consueta per un’intimità costitutivamente ambigua costruitasi nei lunghi anni studiosi e collegiali, poi cinica e convenzionale da club e brillante da salotto, risolta troppo spesso con ipocrita naturalezza. O levitas obbligata dalla gravitas del contesto ancora imperiale. Così si crea il doppio dello scrittore e dei suoi protagonisti e deuteragonisti, sempre sul filo della sopportabilità ritmica (la scrittura necessariamente opta per più registri) e quindi in una tensione sicuramente soddisfatta ma mai troppo sparata o del tutto irredimibile, come avviene sovente nei casi del poliziesco del nero e dell’horror, ma giocata comunque per rimbalzo (interiore) degli stessi archetipi e stereotipi. Che in magici casi possono (come avviene per il protagonista del romanzo e prima ovviamente per Waugh) persino provare a trasformare potenzialità intellettuali in esistenziali. Ma il tutto nella sublimazione scritturale d’una continua schermaglia (guerriglia asimmetrica) tra simili e dissimili che, nel migliore dei casi (come in questo percorso di cambiamento in Opera interrotta), racconta prima la stanchezza e la nausea di sé ovvero del sé immaturo e poi una sia pur fragile ma meno incerta presa di coscienza d’amore, in crescendo progressivo.
  • ...
  • Questo, nella trama, attraverso l’abbandono lento del cinismo colto e dell’affettata crudeltà e della forzata brillantezza intellettuale verso una minore competitività allargata e poi dell’amore individuato, riconosciuto e delle sue responsabilità implicanti. Che molti potrebbero leggere (superficialmente) solo come una resa borghese. In tal senso mi sembra illuminante un passo della Postfazione:
  • “...Anche in Work Suspended (Chapman and Hall, London, prima edizione, 1942), quando John Plant (il protagonista, appunto, d’Opera interrotta) accetta lo stile del padre, non vi si conforma ma si limita a riconoscere quanto ha di valido. Nel farlo, si libera dai vincoli della ribellione e si prepara a crearsi una propria identità. Ora può respingere il proprio stile immaturo, cercarsi una dimora stabile e una relazione amorosa matura”                                                          ...
  • Diversi come potremmo credere di essere rispetto a quel mondo di interconnessioni sociali vissute nella culla storica di un’inconfondibile modalità del pudore che col nome di privacy da noi è stato malamente importato (e poi tradotto ancor peggio coll’assimilazione globalista) perlopiù in furbizia risentimento protesta e separatezza narcisistica, quando invece avremmo potuto compararla con le nostre antiche (aristocratiche) qualità di “vita nova”, inferiori a nessuna altra immaginabile... ebbene, diversi come potremmo credere di essere, ci riscontriamo invece proprio simili, appena si scostino le velature del tendaggio consuetudinario, ammantato con diverse bandiere.
  • ...
  • Opera interrotta... è mutila perché è certo che il romanzo, nelle intenzioni prime dell’autore, dovesse ancora procedere... ¿Ma verso dove? A me appare come comunque risolto anche perché la corrispondenza del protagonista (scrittore a sua volta di un romanzo... è un maestro di polizieschi di successo di cui l’ultimo rimane anch’esso incompiuto)... senza affermare o negare fa segno, (...come dice l’Oscuro) che il dicibile sia, più o meno, già tutto dentro. Il gioco di specchi è poi una risorsa di consapevolezza (perché riflettente), sempre che non divenga un alambicco demonico od un bussolotto autorale eccessivamente sfruttato, come in casi letterari pur eminenti.
  • ...
  • Ma vorrei finire con un ulteriore passaggio dalla postfazione:  
  • “...L’incapacità di Waugh di liberarsi di John Plant è interessante sotto l’aspetto tecnico, poiché getta luce sul metodo con cui crea i suoi protagonisti-alter ego. In ogni romanzo Waugh crea un alter ego che rifiuta, come un serpente che lascia la sua vecchia pelle. Nei primi romanzi l’infelice destino del protagonista rappresenta una tappa dello sviluppo del suo creatore; egli è lasciato a soffrire nella sua ignoranza mentre l’autore approda a uno stadio superiore, sfuggendo grazie al suo esempio. Nelle opere più tarde la critica dei suoi alter ego da parte dell’autore appare più esplicita, ma invece di abbandonarli alla catastrofe Waugh permette loro di superare le loro manchevolezze, conferendo loro la percezione morale che aveva sempre negato ai suoi primi personaggi. Opera interrotta segna il tentativo di attuare la transizione. Qui, per la prima volta, Waugh aveva intenzione di sviluppare un protagonista anziché accantonarlo. Ma, per qualche ragione – ed è dubbio che si trattasse davvero della guerra – John Plant non riuscì ad arrivare alla sua palingenesi. E’ possibile che Waugh avesse semplicemente troppa simpatia per Plant così com’era, o ritenesse che in certi periodi l’immaturità sia un vantaggio, o, non sentendosi ancora capace di trattare bene il tema dell’amore, non riuscisse ad operare la trasformazione in maniera convincente”. (pag.133)
  • ...
  • Al di là delle varie ipotesi di Jeffrey Heath, ragionevolmente indimostrabili, e della sempre dubitabile coincidenza della progressione - non filtrata - tra autore e protagonista, ciò che convince del critico è il considerare Opera interrotta: “...il culmine del primo periodo di Waugh”. Una delle più alte cime espressive entro la decade che termina nella II Guerra Mondiale. Una metafora incombente perché la dura lezione della storia prevarica ogni precedente conflitto interiore, assorbendolo in un smisurato incendio attraverso la combustione delle precedenti usualità, per riconsegnarci tutti, autori e protagonisti, diversi e pi(e)agati, alle seppur mutate ma sempre ineludibili problematiche del vivere.

  • RIVOLUZIONI,  MARCE  E  ALTRE  BAGATELLE
  • di
  • Andrea Marcigliano

(da    https://electomagazine.it/rivoluzioni-marce-e-altre-bagatelle/     di venerdì 28 ottobre 2022)


  • Rivoluzioni, colpi di Stato, marce e affini...  la storia del scorso secolo - breve, lo ha definito   Hobsbawm,   sterminato,   ha   risposto   Marcello   Veneziani   -   è   stata   caratterizzata   da minoranze rumorose, determinate, sovente violente.  Le masse, i popoli mai, in precedenza, avevano contato così poco.  Anzi, proprio perché non erano più popoli, proprio perché erano divenute masse informi avevano perso ogni peso.  Ogni controllo delle loro storie.  Certo, erano attraversate da una febbre, un desiderio viscerale di rivolta.   E aveva ragione Ortega y Gasset nel vedere in questo il segno di una nuova era.  Non, però, perché siano state le masse a fare la storia.  Al contrario, sono state il, più o meno docile, strumento nelle mani di gruppi ristretti e organizzati.  E qui viene fuori Pareto. Sono le  élites che fanno le rivoluzioni.  Punto e a capo   Non a caso, quando  il teorico dell’elitismo   insegnava   a Zurigo,   ebbe due uditori, se vogliamo studenti, di eccezione  Uno era esule dalla Russia. Si faceva chiamare Lenin.  L’altro un maestro elementare romagnolo che sbarcava il lunario facendo il muratore e  con   episodiche,   e   mal   pagate   (come   sempre   direttore)   collaborazioni   giornalistiche.   Benito Mussolini.  Con il senno di poi, si può dire che entrambi ascoltarono bene il prof. Pareto.
  • ...
  • Oggi, 28 ottobre, sono cento anni dalla Marcia su Roma. E, tra pochi giorni, cadrà il 105° anniversario della Rivoluzione di ottobre. I due eventi che, senza retorica, hanno segnato in modo indelebile e profondo la nostra storia.
  • ​...
  • Certo, di rivoluzioni ce ne sono state molte altre. E anche molto importanti. Mao in Cina, Nasser in Egitto, Castro a Cuba... e visto che ci siamo anche Khomeini in Iran.  Per inciso, escludo Hitler.  Lui, in Germania, andò al potere con i voti.  Democraticamente...  Tuttavia,   i   due   archetipi   e   paradigmi   restano   quelli.   La   Marcia   e   la   Rivoluzione  di  ottobre.  E con queste, ci piaccia o meno, dobbiamo ancora confrontarci.  Quella di ottobre, quella bolscevica, fu rivoluzione cruenta. Seguita da una guerra civile, tanto sanguinosa quanto caotica. Una sorta di precognizione della biblica “Guerra di tutti contro tutti”. Leggete, per capire, il ciclo de  La ruota rossa   di Solgenicyin.  Ed anche  Il placido Don  di  Solochov.   Forse il più allineato degli scrittori sovietici.   Ne avrete uno spaccato da diverse, e lontane, angolature....
  • ...
  • La Marcia fu altra cosa. Meno cruenta e sanguinosa. Violenta, certo, ma di una violenza strapaesana. Non battaglie, ma risse. Molto più consonante con l’anima italiana, in sostanza.   Eppure anche la Marcia fu una, grande, rivoluzione. Perché una rivoluzione non si misura dal sangue e dai morti. Ma dal cambiamento che provoca nella società. E nella mentalità.  E la Marcia su Roma ha rappresentato un cambiamento epocale.   In Italia e non solo.   Piaccia o meno, ha portato al potere un coacervo, o meglio un fascio di forze che hanno forzato una società arretrata, come quella italiana, a divenire moderna.  Industrie, reti stradali e ferroviarie, le grandi bonifiche, il sistema sanitario, assistenziale e pensionistico.  La scuola, i primi media, la cultura di massa...
  • ...
  • Certo,   fu   dittatura.   Per   molti   aspetti   dura.   Ma   rappresentò   una   svolta.   Diversa   dalla Rivoluzione russa.  Ma con una funzione, necessaria, non molto dissimile.  Riconoscere questo, oggi, non è retorica nostalgica.   È, semplicemente, fare i conti con la nostra storia.   E con noi stessi.

  • Sun Tzu

  • Metodo ideogrammatico?
    Citazione:
  • “...Ordunque nessuna arbitrarietà riuscirà a superare l’arbitrarietà massimale del volgere un testo ideografico in una stesura verbo-fonetica.  Un quadro non si parla!   Il testo ideografico lavora sul cervello in modo completamente diverso. Ed è per rispetto alla riproduzione di questo  lavoro che si deve giudicare la coerenza del tradurre. Donde un primo criterio di metodo: l’abbandono di una corrispondenza biunivoca o quasi tra ideogramma e parola. L’ideogramma è assai di più di una parola sia estensivamente che intensivamente. E’ perlomeno una descrizione e/o definizione, ma soprattutto continua a vedersi senza dissolversi nell’immagine sonora, e pertanto ad agire nel modo che gli è peculiare.  Ha natura d’emblema, purché al termine “emblema” si conferisca l’antico significato d’icona didascalica. L’ideogramma è un segno compresso e ciò si evidenzia nell’etimologia.  La congettura etimologica non ha valore precipuamente scientifico, bensì euristico. Essa offre col sussidio mnemonico un condensato di definizione ed un’integrazione di concetti che è insieme solida  e flessibile, fantasiosa e logica. Si tratta più spesso di etimologie al modo delle “Origines” di Isidoro di Siviglia il cui valore mnemotecnico, se non è attendibile quello scientifico, è però sempre efficacemente immaginifico.  E così ogni volta che ho potuto disoccultare queste etimologie e fare “vedere” il carattere, l’ho fatto, riprendendo un procedimento che fu già di Ezra Pound.  E’  da ciò che deriva l’aspetto di ridondanza fra l’altro. Se si dispongono gli ideogrammi del testo evidenziando analogie trasversali, come ripetizioni ed enumerazioni, si “vedono” anche i nessi sintattici, e questa struttura complessiva è assai più importante delle particelle sintattiche vere e proprie, o come sono tradizionalmente definite, degli “ideogrammi vuoti”, gli Hsu Tzu. Per rendere questa simultaneità di parti ho studiato tutta una serie di varietà che conferiscono alla stringa verbo-fonetica un andamento più complesso fatto di richiami e anticipazioni, che non quello meramente lineare-transitivo. Accade poi che a mano a mano che si proceda nello studio dell’ideografia, si diventi il soggetto di fenomeni che grosso modo si potrebbero definire come concernenti l’organizzazione di campo, cioè del campo concettuale, non perfettamente controllabili, e pertanto non previsti. Di uno stesso testo ideografico si rende possibile allora una molteplicità di traduzioni diverse, sia per rispetto al numero dei traduttori che per rispetto allo stesso traduttore in tempi diversi.  Ciononostante non vi e nulla di arbitrario in tutto ciò. Semplicemente bisogna lasciare fare al tempo. Il tempo lavora sedimentando sempre nuovi conii ideografici ed integrazioni analogiche insospettabili. Il testo originale si arricchisce di sempre nuove possibilità di significazione che coesistono perfettamente con le precedenti. Non vi e alcuna ambiguità o genericità. Riferire di una complessificazione crescente che non si satura è riferire di un’esperienza, cioè di un alcunché intellettualmente non assimilabile nel senso della riflessione verbale, benché concerna  l’intelletto al lavoro simbolico, che si deve esperire per comprendere. In tal senso non è nemmeno esatto dire che il testo ideografico è propriamente intraducibile. E’ esatto dire che è sempre traducibile, che ciascuna traduzione ha un suo valore e realizza comunque il testo.  Ma il testo nella sua essenza ideografica è sempre al di là, è per sua natura archetipo. L’ideogramma giace nel silenzio - un rapido suono contratto soltanto può evocarlo sinestesicamente - e propriamente si offre alla contemplazione. E’ un ineffabile armamentario d’invenzioni remote integrate in un universo d’oggetti e di trame che tende a conservare il suo aspetto di cifra...”
  • ...
  • (Da:  Renato Padoan, Introduzione a:  Sun Tzu, "L'arte della guerra",  Sugarco, 2000, pagg.: 14-16.  S.G.:  il grassetto finale della citazione è mio)
  • ...
  • ..
  • .
  • cheng ming

  • Commento:
  • Il lavoro specialistico di scavo, comparazione e riproposizione porta - in tal caso - ad una presa di coscienza complessiva, oltre ogni intellettualismo. Persino una rinvenibile (in altri passaggi) diversità ideologica non porta ad una difformità di stato d’animo, ma anzi  - supponiamo  arditamente, per  evocazione insopprimibile dalle profondità  archetipiche della materia trattata - ad un essere vicini e consentanei a letture che - nel mondo dell’ordinarietà corretta attuale - sarebbero impensabili. (Altro caso eminente, è l’ancor più eclatante, al proposito, Girolamo Mancuso di Pound e la Cina, Feltrinelli, 1974). Ma non è solo questo a poter interessare. E’ forse il non potersi sbarazzare di una testualità che non è stata ancora globalisticamente normata sull’occidentalismo corrivo e pubblicitario delle 300 parole o sulle primarie esigenze commerciali delle crescentemente esponenziali “vie della seta”, e quindi poter far base sulla radice della cultura ideografica... A lato dell’assillo incoercibile della volontà  di potenza e sperare di poter essere difesi - prima di ogni successivo calcolo (ma non senza o contro...beninteso) - dalla potenza primaria delle originarie comunicazioni metafisiche.  Quando in un numero di "Letteratura-Tradizione" misi brutalmente, senza alcun apparato di servizio, sette versioni di uno stesso famosissimo passo della Bhagavadgītā, non era l’impianto antifilologico o la verve canzonatoria a darci ragione della sciarada traduttiva, quanto il risultato esattamente espanso (per quanto il sanscrito sia ovviamente del tutto difforme da una specifica scrittura ideografica... a minori ad maius), proprio secondo ciò che dice Padoan  “...la complessità che non (si) satura...”. Ovvero che non ...straborda... se non per etilisti compulsivi. Il SunTzu, a tal punto diviene una delle tante porte mistiche, rinascimentali o barocche, a scelta... Ove ciò che sta dentro, se è un vero giardino concluso od un alto labirinto verde, si riesce a vedere solo dal palazzo. Da quell’ampio balcone, magari posteriore, che presiede alla riflessione meditativa. L’introduzione (...the Ideogrammic Method...) ci apre sugli orti di servizio, colla prassi della coltivazione artistico-artigianale e col vocazionale intuito identitario, a partire da ciò che è il seme del nome (asema onomata), nel mot juste, sino al frutti celati dei nomina arcana, pur e pura euristica - sempre congetturale - come felicemente dice Padoan, ove si cura la primizia e la semina di chi sa lavorare per il raccolto finale e prezioso, mai sicuro e mai indiscusso, della scrittura.


  • CURZIO VIVARELLI quado similfantesca

  • La fantesca in casa Bismarck 
  • novella futurista con illustrazione
  • di
  • Curzio Vivarelli
  • La fantesca di casa Bismarck era di origine italiana. Accolta nella magione del Cancelliere ancora fanciulla vi era cresciuta imparando la vita d'una gran casa con ospiti quali ministri e junker e diplomatici e generali in una capitale europea!
  • ...
  • Il Cancelliere che ne apprezzava il temperamento naturale unito ad un garbo innato non perdeva occasione d informarsi sulla sua educazione e sui suoi desideri. Aveva notato, fra l'altro, che questa giovane donnina metteva del gusto nel riporre ed ordinare i numerosi quadri che venivano recati in dono alla magione cancelieresca. Sappiamo dai biografi e dai cronisti di fine ottocento quanto poco tenesse in conto, il Bismarck, le "croste", spesso di pittori di fama!, che finivano, dicevo, appoggiate fra pavimento e parete, abbandonate a celebrar il fasto dell'arte giusto all'altezza degli occhi dei cani che facevano compagnia al burbero Cancelliere temprato alla solitudine e agli occhi intenditori del gatto di casa. Primo effettivo esempio - davvero futurista!! - di un'arte plastica finalmente fruibile anche da animali domestici ed istruiti...
  • Dunque il Cancelliere, che dai più si crede attento solo ai desideri di ministri e di monarchi (spesso questi ultimi corti di comprendonio) e dame e industriali di quella Berlino inquieta e volitiva, aveva un riguardo curioso per la cura che la fantesca metteva nello spolverare e mettere i quadri di quella che sarebbe potuta benissimo essere una esposizione futurista di pittura per cani a gatti in bell'ordine e seguendo una certa affinità di temi!
  • ...
  • Al punto che un dí, invece di comunicare con la fanciulla pel tramite dell'anziana capocameriera di casa il Cancelliere volle interrogarla da sé. Ora non scomodiamo assolutamente inclinazioni dell'affetto: al Cancelliere era bastata ed avanzata di molto la famosa vacanza di Biarritz con la dolce Katharina Orlow, nata contessa Trubezkoy, e tollerata dalla piissima Frau von Bismarck che sapeva, ne va dato lealmente atto, riconoscere i propri limiti passionali di moglie devota e madre esemplare.
  • ...
  • Al Cancelliere era gradita la presenza timida di quella fanciulla italiana spontanea e con uno stile che oltrepassava il proprio modestissimo rango, punto e basta.
  • ...
  • Sta di fatto che un dí, appunto, egli volle parlar con costei e dopo i convenevoli dell'etichetta, le chiese senza preamboli se gradisse in dono uno di quei bellissimi quadri ch ella sempre spolverava e poggiava con garbo. Era un pretesto invero anche nobilmente generoso per disfarsi d'uno almeno di quei quadri ai quali la sua sensibilità di arbitro del destino di Prussia, prima, e poi d'un Reich attribuiva appunto l'importanza pari a quella della posizione: labile alquanto e adeguata se sia fra pavimento e parete.
  • ...
  • La giovine donnina palesemente intimidita accettó ma con un lieve disappunto del Bismarck che sperava levarsi di torno delle grosse tele celebrative e retoriche recanti in casa null'altro che intrigo, disordine (se non le si appende debitamente...) e soprattutto polvere, si scelse un piccolo panorama paesano debitamente incorniciato. Scelta che ora riconosciamo obbligata quasi visto che il soggetto le rammentava il bel paesaggio natío...
  • ...
  • E se lo appese, usando chiodo e martello, nella sua cameretta berlinese entro la dimora del Cancelliere di ferro.


 Curzio Vivarelli 2


  • CRONACA
  • (Sulla esposizione in Rovereto dei quadri di Evola) 
  • di 
  • CURZIO  VIVARELLI
  • Se l'esposizione è bella e lo è oltre ogni critica, i quadri sono molto ma molto belli. Tutte le fotografie che di essi avevo visto per poterne studiare lo stile non ne rendevano ogni ragione.   Mi sono trovato a guardare delle opere ora futuriste e pervase di gioioso dinamismo oppure opere astratte per le quali era palese il fatto che fossero state rifinite con estrema cura e ad esse fosse estranea qualsiasi grossolanità di linea, di forma, di sbavature di colore.    Erano suggestive al grado atteso anche le opere grafiche, in chiaroscuro o semplicemente a tratto di penna.  Non vado oltre perché qui le descrizioni dovrebbero farsi precise per ogni opera singola e questo resoconto è, come prevenuto, volutamente breve.
  • ...
  • Il catalogo mi fu regalato dalla congrega di bravi Veronesi che vollero mettere in atto questa escursione: catalogo elegante, poco costoso - e qui un bravo a coloro che lo idearono perché un'opera dedicata a questo nome non può sprofondare nella palude del commercio ma deve essere per quanto possibile a portata di tutti - e con interventi di autori che hanno superato le banalità critiche, sempre pronte a fiorire quando si argomenta d'arte astratta: ovviamente io avrei redatto i testi in altro modo e con altri riferimenti ma ciò non toglie che il lavoro compiuto dagli autori sia egregio.    Ho trovato ad esempio una notizia che per me oscura ogni altra divagazione documentaria: essa è stata per me l'"unica notizia" veramente illuminante:    forse fu nel 1919 o nel 1920 che di una esposizione futurista, con opere del nostro filosofo, un oscuro cronista avesse redatto l'accaduto: Ad accompagnare Marinetti vi era nientemeno che il D'Annunzio il quale, annota il cronista, apprezzò queste opere d'una arte della nuova avanguardia italiana, ma anche - ecco il punto che per me è sigillo assoluto e colonna monumentale! - si soffermò sui quadri di Evola e nominò e indicò come particolarmente bello l'opera intitolata "Dreadnought". Il fatto è riportato dal cronista e della pagina di quel tempo ora lontano è restato il documento originale!    Non aggiungo altro: chi conosca lo sterminato conoscere dell'arte figurativa italiana ellenica ed europea ed orientale del beethoveniano D'Annunzio sa già cosa intendere sotto questo trascurato piccolo avvenimento.
  • ...
  • Qualcosa sul luogo: il museo è un capolavoro dell'architettura moderna, talmente originale che io senza alcuna remora darei ordine ad una batteria di cannoni che fosse sulla collina di Rovereto di fare tabula rasa dell'area. E darei quest'ordine bevendomi una meravigliosa birra spumeggiante. Penso di avere espresso abbastanza bene...   Le sale del museo erano abbastanza intricate ed in una vi era, malgrado la giornata inondata del più bel sole di maggio e della più florida fioritura di rose nei giardini, la luce che ci si attende in una sala da consulti di chiromanti e da lettura di carte o da fatture per trovare la prova del marito cornuto.     Io dissi ad un certo punto al gruppo: sono opere bellissime queste di Evola ma l'ambiente, pure museale, pure studiato e ben disposto non lo vedo ancora adatto.  E mi rispose dal gruppo uno studente universitario che disse: è vero! Queste opere starebbero benissimo sotto i capitelli delle nostre vie crucis sulle vie di montagna!  Una nuova via crucis d'un rito non più religioso ma semplicemente interiore, all'aria aperta e sul panorama maestoso dei nostri monti, dove le opere illuminate dalla luce solare troverebbero il loro valore ideale, fu la mia aggiunta!    E devo dire che da qui con i membri del gruppo abbiamo cominciato a fantasticare con senno e senza sosta: si disse
  • I) ...esposizione in un castello tirolese  magari sui muri esterni!
  • II)...nell'elegantissima Halle d'un Hotel a Cortina d'Ampezzo o a Brunico o a Bad Reichenhall, dove la sala ha le sue piante di fiori, le pareti di legno con gl'intarsi, e bellissime vetrate che guardano i monti ed il paese con il campanile a cuspide che saetta verso gli eterni...
  • E si disse anche:
  • III) perché non della sala d'onore del cinquecentesco palazzo degli Agiati, vicinissimo e sempre in Rovereto, in quella sala dove Mozart fanciullo, portato dall'orgoglioso padre Leopold, deliziò i Roveretani con le sue composizioni al piano?
  • IV) nella sala di una vecchia casa del fascio di periferia, a Bologna o a Forlì, magari recuperata un pochino con gli intonaci rinnovati dove le vaste vetrate ti fanno vedere la stradina con il canale ed il filare di pioppi che va in fuga...
  • ...
  • In pratica a questa mia osservazione si scatenò la ridda di ipotesi su come avremmo noi allestito questa esposizione e fu un giuoco che ancora mi diletta perché le possibilità sarebbero state tante e davvero suggestive. Ben di più che non...   I miei passatisti (e futuristi) veronesi erano attenti, disciplinati, concentrati. Vi era fra loro anche una bella presenza femminile che però non venne con noi in trattoria.   Perché a mezzodì circa si usciva e per una strada che costeggia un bellissimo giardino fiorito di alberi imponenti e continue aiuole di rose, dove dalle due bande alzavi gli occhi e sopra i cornicioni dei palazzi di metà ottocento vedevi i declivi verdissimi dei monti, arrivammo al "poemetto conviviale": una bella trattoria che ci prese nel cortiletto sotto un vasto ombrellone: sole accecante, temperatura calda, allegria ragionata dove gli studenti e l'editore e gli avvocati discussero delle dottrine di Carl Schmitt, del cattolicesimo di De Maistre (sul visionario savoiardo uno dei due avvocati vi aveva scritto un saggio), dei canederli a Napoli e della pizza a Bolzano, delle qualità di birra.   E della birra devo dire che me ne sono inebriato da toglierne la voglia per una settimana almeno. 
  • ...
  • Un simpatico mattoide fra gli studenti sarebbe stato pronto a portar il gruppo fino a Trento o addirittura a Bolzano per andar tutti a mangiare alla Forst, che, diceva, era stata rinnovata e con i nuovi mastri birrai venuti da Kulmbach, la celebre università delle birre, aveva un carico sopraffino di novità "potabili"...
  • ...
  • No, sull'entusiasmo prevalse il buon senso. Avevamo già sognato la "nostra" esposizione dei quadri astratti svincolata da quel Pantheon museale con aria da palazzo assicurativo: il gruppo si divise: quelli del Garda ripresero la strada verso il lago via Riva e Torbole - e abbiamo rievocato prima di dividerci la finestrella della pensione in Torbole da dove Goethe guardando il viavai scriveva alla madre che la notte aveva composto nuovi bei versi all'Ifigenia in Tauride -  mentre il gruppo restante prese la via di Ala verso la villa scaligera.    A casa tornato volli fare la solita passeggiata e poi ho rifinito la casa di Heiligenstadt in stile boccioniano.
  • ...
  • ..
  • .
  • Proscritto
  • ...
  • E dunque, tornando sulle impressioni avute in quel di Rovereto e annotando stralci della ridda di conversazioni che abbiamo intrecciato lungo la visita alla grande esposizione dei quadri di Evola, e poi nella passeggiata verso la trattoria e poi in trattoria infine in birreria saltò fuori pure questo che vado a scrivere: si parlò del rapporto critico avvenuto su questioni linguistiche e grammaticali fra Alessandro Manzoni e il roveretano Antonio Rosmini Serbati.  Manzoni ascoltò le critiche mossegli dal Rosmini e in vari passi corresse il suo capolavoro apportandovi qualche variazione stilistica.    Rosmini come ben noto ai cultori della filosofia è un grande scrittore egli stesso.  Ulteriore prova, ma ne avevo di già a palate, che se non i futuristi stessi, almeno i cultori del futurismo hanno molto spesso una coltura davvero vasta e panoramica.
  • ...
  • Sui futuristi stessi fatta l'eccezione di Marinetti, Masnata, e naturalmente anche Evola non si può dire che la rivolta contro il passatismo non avesse avuto in certi casi risvolti diciamo patetici.   Conto di riassumere presto un notevole saggio su Rosmini scritto dal quel vecchio e simpatico archeologo filologo e diarista che era il versiliese Ermenegildo Pistelli che fu un favoloso biografo del giovanissimo Carducci e un insigne commentatore del romanzo di Alessandro Manzoni.    Tutto ciò a margine, appunto, dell'esposizione con i quadri di Evola, con opere di Balla, di Sironi, Carrà et cetera.
  • ...
  • Futurismo divenuto ormai branca matta e dilettevole del passatismo. Un pochino, voglio proprio riportare questa analogia!, un pochino dicevo come quella principessa Bagration che, raccontavano i cronisti del tempo di Metternich, ai ricevimenti del tempo della Restaurazione, lei nonna e forse già bisnonna si ostinava a comportarsi ed abbigliarsi come una giovanissima e anche aveva i vezzi e le tirate e il modo di intonare la voce come una adolescente.
  • ...
  • Annotato ciò a guisa di promemoria mi rimettevo a lavorare su di una casina di Heiligenstadt essendosi trasformata Pfarrplatz in un laghetto con tanto di navicella a vela.Curzio Vivarelli 1
  • Le   FORME   dell'UOMO
  • di
  • Andrea Marcigliano
  • (da    https://electomagazine.it/le-forme-delluomo/  di lunedì 21 febbraio 2022)
  • Ogni epoca ha le sue forme.   Se preferite i suoi modelli.   O meglio ancora, archetipi.   Archetipi che rappresentano l’uomo.  Le diverse declinazioni dell’uomo.   I  “tipi”  che quel periodo, diciamo così, storico, meglio rappresentano ed incarnano.  L’età del Barocco, che è stata un po" il crogiolo della modernità, ha avuto, e prodotto, alcuni grandi archetipi dell’uomo.    E li ha saputi rappresentare con  arte,  sotto molti profili, insuperabile.  Anche perché a dare a questi archetipi forma artistica furono alcuni dei più grandi geni della nostra storia culturale.  Don Chisciotte, o dei sogni.   La follia come scelta di vita.  Il rifiuto di una (apparente) realtà in nome di un ethos. Superiore.   Ad onta della beffa e del ridicolo.  Apparente.  Il capolavoro di Cervantes.  Poi, nel tormentato ‘900, la rilettura di Unamumo. Don Giovanni.  Il libertino. La ricerca del piacere come agone con il Convitato di Pietra.   La Morte...  L’amoralità come punto d’arrivo d’una ragione che tutto distrugge. E lascia solo il vuoto. Tirso de Molina e, soprattutto Molière.  E da Molière viene anche un altro archetipo, totalmente negativo, della modernità.  Il Tartuffe.  Il grande ipocrita.  La finzione dei sentimenti.  L’interesse materiale che prevale su tutto e che trionfa. Non  piacque a Luigi XIV.   E   Molière dovette scriverne una nuova versione, facendo trionfare alla fine l’onestà di Orgone.   Ma  la stesura originaria, con la vittoria dell’ipocrisia, resta ancora un modello di, triste, realtà.  E poi Faust.   Il mago pronto al patto.   A cedere l’anima per la conoscenza. Marlowe, il poeta maledetto dell’età Elisabettiana.  Goethe ne trarrà, in seguito, il modello dell'inquietudine propria dell’uomo contemporaneo.  Di una ricerca senza pace.  Di una irrequietezza dei sentimenti che insegue un sogno, il Femminino Eterno.  E lo scopre, e conquista solo fermando l’attimo.  Uscendo   dal tempo.  Che è la nostra maledizione.   E poi tutti i grandi archetipi della società borghese tra XVIII e XIX secolo. Per lo più negativi. La superficialità e la menzogna a se stessa di Emma Bovary.  In Flaubert. Il servilismo verso il potere e le convenzioni sociali de Il conformista di Moravia. La corruzione morale e politica del Consalvo Uzeda di De Roberto... Appena qualche sprazzo di luce nella svagata eccentricità dello Zeno di Svevo. Il mito dell’Artefice nel Fuoco dannunziano... La modernità, la nostra, è davvero il Castello d’acciaio del Mago  Atlante.   Ed è un Castello le cui mura si vanno sempre più restringendo. Soffocandoci. Nel corso del ‘900 nessuno ha saputo intuire gli archetipi della nostra epoca come Ernst Jünger. Dando loro forma. L’Arbeiter. Che non è l’operaio inteso come classe sociale. Non una figura emblematica della ribellione delle masse che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso. Piuttosto il modello dell’Uomo costretto, in pace e in guerra, a misurarsi con la potenza demoniaca della tecnica. Che si è sostituita a quella della Natura. Uno scontro titanico. Per dominare o essere dominato. E annichilito. Il Milite. Che non è, semplicemente, il soldato. Colui che combatte al soldo. È colui che milita. E quindi testimonia con la sua azione.  Senza illusioni o speranze.   Senza premi e costrizioni.  Una figura che incarna, certo, il dovere.  Ma il dovere come destino...  Assunto con scelta libera e cosciente.  Fatto proprio con la volontà. Amor Fati, potremmo dire. E poi l’Anarca. Che non è sterile ribellione, e utopia sociale.  È il non riconoscersi nelle convenzioni correnti, quali esse siano.  Non omologarsi alla massa sempre più uniforme e amorfa.  Porsi in una posizione non di rifiuto, ma di distacco.   Tornare al bosco. Senza   paura   della solitudine.  Come un vecchio lupo, che guarda da lontano le mandrie di pecore.  Figure della nostra modernità.   Che Jünger vide agli albori di questa.   Oggi, l’ho già scritto, ne vedrebbe, e ne descriverebbe, anche altre.   Tipi di una, cosiddetta, realtà in continua mutazione...


 

  • A  proposito  di 
  • “La  miseria simbolica” 
  • di  Bernard  Stiegler
  • Vol. I: L’epoca iperindustriale
  • Vol. II: La catastrofe del sensibile
  • di
  • Sandro Giovannini

     

    Questo mio articolato testo critico (www.heliopolisedizioni.com) si sviluppa su diversi registri sia formali che contenutistici. Sarebbe stato forse possibile per altri, ma non per me, affrontare un tale testo senza prendere in seria considerazione lo stile di Stiegler, che mette in campo sensibilità e conoscenze le più disparate e spesso del tutto imprevedibili per chi non voglia confrontarsi con un taglio multidisciplinare, con il risultato di un linguaggio comunque avvolgente ed intriso d’autenticità emotiva sino allo spasimo, assieme al livello della teoresi sforzata sempre alla massima tensione. Fascino e repulsione logico/emozionali, in tal modo, credo maggiormente per chi, come ho fatto io, lo legga in modo consentaneo al suo stile, non per supponente disivindualizzazione ma per onestà d’indagine, possono benissimo restare accanto per tutto il tempo e non credo soltanto per chi, come me, abbia considerato come praticabile una visione del mondo che differisce comunque, in troppi e decisivi tratti, dalla sua.
    ...
    Prima vi è un’unità (I) definibile come ricognitiva sul potenziale recepibile ed assieme avvertimento apotropaico contro il troppo facilmente prevedibile. Segue una seconda (II) che è presa d’atto di ciò che sento di dire intorno ed a partire da STIEGLER. Quindi non tanto o non solo sul suo testo ma sulla scia che esso ha determinato in altri. Una terza (III) è ancora in definizione divisa in due capitoli (parte A finita e parte ancora B da scrivere). La parte A si confronta ulteriormente e dialogicamente con tutti i quattro capitoli del primo libro ‘L’epoca iperindustriale’. La mia parte B affronterà invece il secondo libro di STIEGLER, ‘La catastrofe del sensibile’, con la relativa Introduzione, sempre di Rosella Corda, e di seguito, dell’autore, L’Avvertimento, il Prologo con voci narranti ed i 5 capitoli del testo. Ho scelto questa formula espansa per cercare di trovare tutti i possibili motivi di convergenza e divergenza dai due tomi del libro. La sollecitazione comunque è partita dalla recensione di Giovanni Sessa, sempre su www.heliopolisedizioni.com e dal suo invito a confrontarsi seriamente su ciò che dice STIEGLER. In tal senso le mie riflessioni sono solo un contributo, del tutto discutibile ma spero utile, soprattutto in un momento così problematico della nostra vita europea. La “vicenda del sensibile”, infatti, comunque la si interpreti, è veramente al centro del nostro tempo e non si può assumere o respingere, anche in base a questo testo, in base al pregiudizio/luogo comune bizantino. Lo si deve ammettere appena si approfondisca qualsiasi indagine che non tagli per slogan o nodi di gordio. Il testo qui di seguito integra e sostituisce totalmente il mio precedentemente pubblicato e questa anomalia in crescendo non può trovare nella sovrapposizione una contraddizione insuperabile se è accettabile la premessa che giustifico con una azzardata mimesi interpretativa.


  • I
  •  
  • Παραβολή
  • “…Perché poi io sia venuta qui oggi, e vestita in modo così strano,
  • lo saprete fra poco, purché non vi annoi porgere orecchio alle mie parole:
  • non quell’orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri,
  • ma quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli:
  • quell’orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedicò alle parole di Pan.
  • Mi è venuta infatti voglia d’incarnare con voi per un po”
  • il personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso,
  • che oggi riempiono la testa dei ragazzi
  • di capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine,
  • degne di donne pettegole.
  • Io imiterò quegli antichi che per evitare
  • l’impopolare appellativo di sapienti,
  • preferirono essere chiamati sofisti.”
  • Excusatio non... Vulgo… mettere le mani avanti. Perché Giovanni Sessa dice che sarebbe bene che noi (magari non io ma proprio quelli buoni in cose filosofiche…) ci confrontassimo con questo testo. Che lui presenta con disposizione notevole al sacrificio. Almeno questa è la mia sottile impressione. E sarà così, come è mia abitudine di ex buon soldatino… mi leggerò (le tre volte gurdjieffiane) tutto il primo sottotitolo (che mi pare - così, per ora, alla carlona - che da buon francese philosophe, più o meno nuovo, il testo sia appunto il sottotitolo del titolo magari azzeccato a forza d’orecchiarsi parlare e/o di sentirselo dire… ma - per carità - non anticipiamo a vanvera…) …ora vi devo proprio rompere gli scatoloni: dunque…
  • ieri, lo stesso giorno in cui m’arriva la recensione di Giovanni ed in cui la metto di corsa sull’Heliopolis, dovevo recarmi in un primo pomeriggio più o meno desolato (il pisolo pomeridiano non me lo toglie più nessuno), con il sole calante e forte negli occhi e con tutto che avevo mascherina pronta alla gola e occhiali e parasole abbassato ma non vedevo quasi un tubo di quell’infinita ed infame periferia… dovevo andare, allora, per una cosa infinitesimale da un notaio, sconosciuto, nella sua sede periferica (spero, per lui, che sia così) di un assurdo conglomerato tutto giravolte e villette vicino a Pesaro, per un attuccio a recuperare un mio acquisto (tecnicamente si chiama acquisto in frazionamento), di più o meno 20 mq., in una grotta sottostante già una mia casa in una cinta castellata… sotto un imponentissimo mastio… di un famoso borgo storico… del vicinato. Ecco… ho scritto tutto. Era rimasto in incongrua se pur legittima proprietà d’una vicina ultranovantenne, poi mancata ed io non avevo mai dato seguito alla cosa, pur interessante dal punto di vista simbolico, proprio perché questa divisione della grotta sottostante (con gallerie che si infiltrano sotto il castello per decine e decine di metri) implicava soldi ulteriormente buttati in una casa di quasi nessun valore commerciale e di utilizzo, se non per una organica (e magari pure comprensibile…) mia boria sentimentale. Simbolica. Ma un giorno un tizio mi chiama al telefono e mi dice che ha comprato la casa che reggeva anche quei 24 mq. ed allora mi chiede se voglio acquistarli da lui. Costosamente. Un piccolo antecedente. Nel paese in questione, famoso nella zona per l’antico castello, non circola un’aria benevola. Una boria (in questo caso… paludata e stracciona), antipatie, odi sommessi e rancori decennali e, nel migliore dei casi, un comprensibilissimo e strisciante fastidio verso gli estranei (cioè io) che però non aiuta certo l’immagine, almeno formale, dell’accoglienza. Poi la crisi, la chiusura di quei pochi locali turistici e il lento sommergersi in un poco eterno ritorno… molto storico.
  • Per un piccolissimo abuso edilizio (di miglioramento erga omnes) vengo portato in tribunale, infine condannato penalmente e pesantemente (ci sono di mezzo le belle arti) con la condizionale e pago uno sproposito di multa. Il pregresso. L’immagine di quella casa quindi in me s’offusca proprio, dopo i primi anni d’entusiasmo e di qualche iniziale lavoro, lasciando incompiuta una potenzialità d’abbellimento (ho finito elegantemente solo il dentro) e di consolidamento. Ci penso sopra e poi do una disponibilità di massima. Il venditore è uno scultore, ma non come me… eternamente dilettante del tempo imperduto e per melanconico ma furioso hobby… come direbbe un malevolo, ma proprio uno che vive convintamente del suo lavoro. Figura difficile. Lo incontro preventivamente perché mi vuole far vedere la sua villa laboratorio con parco scultoreo museale collinare che si perde beatamente - unica cosa veramente buona - nel confine collinare, ove ha convogliato da mezzo mondo, donazioni, istallazioni e gruppi scultorei, i più - escluso proprio pochi - per me bruttissimi, scadenti od insignificanti. Suoi e di tanti altri, ma sempre sedicenti ed imponenti… Ha, accanto alla villa, vicina al paese in questione, in un coacervo di sovrapposizioni alquanto inestricabili, - ci vorrebbe, forse, per capirli un drone dall’alto come per i presentimenti di scavo - un hangar con varie officine aderenti dove poi fa colature stampi e cotture professionali in tanti materiali… Il tipo si rivela sincero e rozzo assieme, piuttosto arruffato come si conviene ad uno che opera sempre con le mani (ed anch’io nel mio piccolo sono, alla bisogna, più sporco che pulito…) e reiteratamente tuttologo e sapientemente logorroico (consigli di materiali, di cucina, di dieta, d’aerobica ed altri 10 argomenti come minimo…) mentre invece la moglie, che fa di mestiere la commercialista, incontrata di sfuggita sul loco, taglia molto venividivici e sembra tutt’altra figura, leggibilmente in disparte. (Poi, forse, ho capito perché). Ci accordiamo solo sull’interesse reciproco, ma la cosa è instabile perché sa che sono in ballo da circa due anni con una malattia grave di mia moglie… Passa parecchio tempo e poi lo scultore mi telefona, s’arrabbia pure via cavo, ed alla fine più o meno ci mettiamo d’accordo. Quindi, dopo un compromesso (pur per una cosa così insignificante) andiamo finalmente al rogito.
  • Ma, se fossi stato un antico, non avrei mai dovuto convolare. Troppi segnali nefas. Leggibili almeno tre. Ma ormai c’ero dentro, a giusto od a torto, come dice il diritto latino. Prima di due giorni dalla data fissata per il rogito a mia moglie viene una febbre altissima, sembra coviddi, che poi però non è, ma fo(a)rse(a) si, forse no… chi lo sa. Negativa ufficialmente. Allora si rimanda. Ma il venerdì sera/fine settimana del secondo appuntamento fissato per lunedì, la ruota destra anteriore dell’auto ferma davanti a casa totalmente a terra… allora pompetta elettrica con bomboletta collante incorporata dopo aver strabuzzato gli occhi… e corsa dal gommista in chiusura che mi fa il cazziatone tipico di chi sa… dicendo che si deve solo pompare aria… e che se si spinge la colla dentro poi bisogna attendere… quando non si sa, forse… presumibilmente… 50 o 100 km… che il velo collante dentro si squagli al calore (se no dovrebbero lavarla dentro ed asciugarla - cosa che evidentemente non hanno troppa voglia di fare) e quindi si riveli il buco, che non è rilevabile, come al solito, a vista e se non a vista coll’acqua… e così via… Insomma vado all’appuntamento di lunedì lemme lemme con l’orecchio spostato sulla destra… e va bene sono solo pochi km… una 30a e poi io non sono un antico (a proposito del nefas)… sono un moderno mio malgrado.
  • Ho un bel testo di Walter Freund sulla filo-etimologia di modernus… (modus hodiernus) e per controllare la mia memoria di qualche decennio fa, cosa vado a scoprire?... che la prima citazione assoluta riscontrabile del termine modernus appare in due passi delle “Epistulae pontificum”. “…Vi si tratta del divieto di ordinazione degli schiavi alle dignità ecclesiastiche, che era stato stabilito nel Sinodo del 494. Siccome la disposizione non veniva accolta nel giusto modo, Gelasio dovette ammonire più volte i vescovi sulla sua osservanza”. Così recita l’informatissimo testo di Freund, a pag. 15 dell’edizione Medusa 2001. E se uno - allarmato - poi va a vedere la voce Antico (l’antipolare di Moderno) sempre sul dizionario telematico Treccani il nome di Freund è quello più citato in assoluto. Ma se lo stesso uno va a vedere sulla stessa Treccani la voce “Gelasio I, papa, santo”, si trova di fronte ad una ben diversa presentazione, ove in un meravigliosamente descritto travagliatissimo quadro di crisi tra guerre, devastazioni, scismi, eresie e deviazionismi di ogni genere, il centro di ogni diatriba è il primato di Roma sulle altre originarie sedi apostoliche e la prima forte reiterazione del primato dello spirituale sul temporale (=del Papa di Roma, sull’Imperatore - quello superstite - d’Oriente). Gli schiavi indubitabilmente, a fronte di così tanti errori ed orrori, contano poco e sono definiti - sulla voce Treccani - “libertà personale”, formula meravigliosamente istituzionale (- anche oggi - evidentemente - come allora) che riduce ogni problematica di sostanza (evangelica)… a prassi burocratica. Dalla voce “Gelasio I, papa, santo”: “…Gli argomenti affrontati in questa lettera riguardano: l’acuta penuria di sacerdoti e il conseguente adeguamento della prassi ecclesiale; i requisiti per la promozione al presbiterato di monaci e laici (assenza di precedenti penali, libertà personale, integrità morale e fisica, alfabetismo);” ( il grassetto è mio. N.d.A,)… etc., etc.. Il mio stupore era in fondo del tutto ingenuo se non proprio sciocco… la prevalenza del tempo (sempre hodiernus) sulla supponibile atemporale, inattuale, parola di vita. E questa è forse la primaria fonte del mio disagio di modernus. La verità istituzionale sembra, sempre, se svelata, una nuda miseria simbolica. Ma de hoc satis… Torniamo all’auto ed alla ruota…
vai all'articolo
  • Cultural Intelligence

  • A proposito del libro di
  • Federico Prizzi,
  • Cultural Intelligence ed etnografia di guerra,
  • (Edizioni Altravista , ottobre 2021, pag. 217,
  • 25 Euro. www.edizionialtravista.com
  • di 
  • Sandro Giovannini

    • Ai due testi di S. G.
    • segue un LETTERA di Federico Prizzi
    • seguirà un ulteriore  III  intervento di S. G.,
    • relazionato agli eventuali testi critici di altri amici…

  • I

  • Questo libro di Federico Prizzi sarà pietra d’angolo.   ¿Solo per chi riesca a rappresentarsi appieno la dinamica attuale del permanente conflitto, od anche per chi magari è abituato a prendere le cose un poco più astrattamente credendo in tal modo (…quale modo poi?) d’essere più intelligente? Guardo la mia faccia nello schermo del computer mentre esprimo questa domanda retorica e m’immagino pertanto più facilmente tante altri volti e maschere, conosciuti bene o male e persino quelle/i che posso solo ipotizzare. E’, che… già ad un terzo della lettura ero con l’acqua alla bocca e riuscivo solo con difficoltà a respirare e quindi s’affacciavano tutti gli incubi della mia vita da pensante conscio/inconscio (1) ed i sempre posticipati riassunti a futura memoria che tutti gli “intelligenti” (magari non solo proprio gli “stupidi intelligenti”) hanno sempre creduto di poter lasciare lungo il percorso. Tutte le domande esistenziali (che non sono solo quelle ontologiche, filosofiche, letterarie, sociologiche, o latamente, appunto, antropologiche) che premono sfacciatamente fin dall’infanzia ma sono coperte dalla fame di dati e di volti, che poi, più spesso si rivelano, appena poco più in là, abbuffate quasi solo di cibo grezzo e maschere di zucchero… ¿Se esiste un Grande Vecchio, più o meno barbuto, che abbia creato ed osservi tutto, magari infischiandosene del vissuto vitale proprio perché si diverta a sorprendersi lui che non si dovrebbe sorprendere di nulla… ma forse… sorprendersi di che? Magari dei tre kili e mezzo di acronimi che gli “intelligenti” hanno sempre allestito per il consumo veloce… (anche i romani…), quello che serve per reagire bene ed in fretta invece di tardi e male? Al confronto un “complottista di serie B”, ovvero uno di quei pochi che più o meno orecchiamo, è un povero mestierante delle 3 carte… su uno scatolone sveltamente ripiegabile tra i passanti curiosi e/o fannulloni. ¿Potrebbe ancora sorridere quel Grande Vecchio barbuto? Probabile. ¿Oppure… in caso che il Grande Vecchio non esista proprio (o magari operino solo le più o meno inquietanti intermediazioni gnostiche) o magari noi fossimo solo uno stranissimo accidente dell’afferenza stravolgente e misteriosa? … ¿se gli animali sapiens, siano poi così talmente stupidi da prendersi proprio sul serio da credersi intelligenti, portandosi alla semi estinzione per bulimia e per inverificabile buonismo? Almeno una volta s’ammazzavano fra loro, non reputandosi se non responsabili di se stessi, riservandosi (in aggiunta agli inevitabili flagelli naturali) una buona media di morte indotta e selezionatrice.
  • Ma questo è tutto implicito nel libro di Prizzi. “…L’implicito, ovviamente fondamento dell’arte. Qui l’implicito è tutto esplicito, ma a ragion veduta, non per difetto. E’ un discorso d’amarezza.” (2) Ovviamente. Non solo perché l’implicito è il fondamento dell’arte. Ma perché qui Prizzi parla (e non parla) da “antropologo militare”. Che non è una contraddizione in termini, ma una solida realtà strumentale. Ben operata ed operativa. E quindi tutto l’esplicito è l’insieme delle infinite e susseguenti teorie interpretative usate ed usabili nella ben poco facile convivenza del e nel mondo e delle infinite collegate ermeneutiche della supposta realtà e forse non serve proprio aggiungere un ulteriore posticcio filo d’arianna interpretativo a priori (supposto primo) nel labirinto delle interpretazioni (supposte seconde). Questo magari spetta a me, qui, per uscire fuori dal dedalo (che è l’ombra cupa del labirinto… come ci suggerisce Borges), del dedalo immaginale ed immaginario, appena all’inizio del percorso ed in minima parte e solo con i limitati mezzi che possiedo… Ma devo stare attento anch’io a non partire per la tangente, cosa che farebbero magari volentieri anche quelli che seguiranno, poi, sicuramente a commentare, forse più attenzionabili (…quanto mi piace l’obbrobrio!!!) al succo tecnico che alla supposte verità nascoste in evidenza. Di quelle che a noi - magari - fanno molto gola ma che a certi altri proprio non interessano.
  • Ora avete capito che questa è solo una sincopata (per ora) introduzione ad un libro che diverrà, appunto, angolare e che necessiterà di ulteriori approfondimenti fatti con spirito libero. Per quanto possibile. Secondo l’ELOGICON di Casanova. (3)
  • Note:
  • 1) L’autore dell’articolo si è confrontato con problematiche affini o comunque afferenti in vari momenti della sua vita di pensante. Dai vari testi contenuti nel mio primo libro di saggi “L’armonioso fine”, Società Editrice Barbarossa, Cusano Milanino, 2005, quali: Gli spiriti eroici di Mishima; Irradiazioni di Jünger; Storie di ufficiali di Spina; a “La capitale del tempo”, (NovAntico, 2014) romanzo con forti connotati storico documentali sull’avventura coloniale, ai testi del secondo libro di saggi “…come vacuità e destino”, NovAntico, Pinerolo, 2013, quali: Potere senso e repressione in Marc Augé; Genere. Virilismo-Virilità; Il mondo occidentale e la guerra; Anima-spada e anima-libro. (Ricercare le due anime. Pio Filippani Ronconi); Rapidi ed invisibili…, all’ultimo “N-SNOB. Altre evocazioni”, OAKS editrice Milano, 2021, col saggio La Fantasia del complotto; al prossimo libro di saggi “In limine”, con i saggi: Entro questo occidente; Lo scontro d’inciviltà; Paideia negativa, riservarsi una logica; Lealtà e finzione; Nemesi può attendere;…tutti già leggibili su www.heliopolisedizioni.com sezione “Rivista online Heliopolis”.
  • 2) Mario Dessy, Il sole alle spalle. Cappelli Editore Bologna, 1970, dalla ‘Presentazione’ di Salvato Cappelli, pag. 10.
  • 3) L’ELOGICON di Casanova (Luigi Sgroi).
  • casanova inglese DEFINITIVO 2

  • II
  • Dell’approccio geostrategico e di quello antropologico  
  • (S. G.)
  • L’autore, come tutti coloro che autenticamente hanno compiuto un percorso di conoscenza attraverso le cose e le persone, rintraccia fin dall’introduzione al suo testo una sorta di personale acquisizione progressiva e destinale sulle formule e sui grumi, divenienti e mai fermi, d’interpretazione della realtà.  I grumi (che si riscontrano negli inarrestabili acronimi delle infinite organizzazioni) e le formule (che si riscontrano nelle bulimiche teorie interpretative costantemente a dieta di realtà) sono sottoposti alla Necessità (…ogni altra definizione pseudorazionale offenderebbe), del capitale globalisticamente inteso. Tale multiforme neo-capitale, diviso sempre sulle aree di decisionalità e di confrontazione performante e sulle risorse universalmente rapinabili, riesce comunque a ingoiare tutto, uomini, biosfera, riserve passate e future, terre comuni e rare, divorando ogni cosa e restituendola poi necessariamente predigerita in pasto alle bocche frementi e spalancate dei nidi, ovunque innumerevolmente esplosi in voracità ed inquietudine. Il numero, innumere. Una realtà ormai innegabilmente (seppur copertamente) connessa a quella sorta di “società automatica” e di “potere automatico”, che corrisponde alla complessità oscura odierna di cui parlano (poco ma bene) i più consapevoli  e liberi filosofi. Essi fanno ormai, dalle già citate verità segrete esposte in evidenza, base problematica per tutti gli altri ma sostanzialmente univoca nella sua episteme, ovvero il pensiero unico che permea democrature, oligarchie e dittature, tutte diversamente abili. Sistemi molto più interconnessi di quanto si possa e voglia dire, seppur ferocemente concorrenti per il potere universale e che, a livello antropologico, al di là di pur abissali distanze ereditate in termini di valori ancestrali e tradizionali per tanti versi di riferimento ancora attuali o residuali, è sempre più marcata da una riduzione consumista del sognato avere virtuale rispetto all’esperito essere vitale.  E tutti ne  abbiamo vissuto ed ancor più ne vivremo, la contraddizione spaventosa e tragica.  La cosiddetta  “miseria simbolica” reinterpretata non solo esteticamente ma anche politicamente in ben opposte ed apparentemente paradossali opposizioni, ma come dato, anche insuperabilmente pervasivo.  Ovvero il dominio planetario del capitalismo consumistico - pur diversamente normato e nominalisticamente declinato - che crea instancabilmente le sue varie ipostasi, le coordina sempre più automaticamente e sempre più automaticamente le affina per il dominio. Ma, proprio in relazione con il libro di Prizzi, non posso e non voglio surrettiziamente commissionare, al testo che qui vado commentando, una caratura esplicitamente filosofica, cosa che non è nelle parole espresse dall’autore, proprio per la scelta, da lui fatta, di rimanere, indiscutibilmente ma dialetticamente, con gli scarponi sul terreno, e con la testa vigile, per l’elevatissima caratura teorica, dimostrata dal procedere concatenato in più di 200 pagine, ove ogni capitolo potrebbe dar luogo ad un mondo a parte di sviluppi logici…  Io che questi scarponi non li uso da decenni, posso tranquillamente prendermi la libertà di leggere questo libro fondamentale, con un taglio en artiste e magari caricarmi di tutte quelle contraddizioni che forse suggeriscono un livello più elevato per coloro che non vogliano solo nutrirsi della linfa tecnico/esperienziale ma guardino alla lotta delle idee, innervata però di imprescindibili acquisizioni realisticamente lucide seppur spietate.  Prizzi, lungo tutti i capitoli del suo libro, usa un procedere piano e del tutto sempre perfettamente risalibile, corroborato da infinite “prove di esistenza”, anche per smontare la facile costruibilità astratta che diversamente attira sempre i pensatori acuti ma con le relative possibili fuoriuscite per la tangente…  I capitoli magistrali, a tale proposito,  non meno didattici di altri ma forse più atti proprio a renderci partecipi consapevoli della robusta documentazione a corredo (che è la prova tangibile di quanto il pensare strategico sia una sorta di “supercomplotto”, da sempre e per sempre, pur deprivato dei risibili risvolti maniacali e patologici, ma non per questo meno serenamente inquietante) sono:  “Il ruolo dei media e dei Social Network nella propaganda sovversiva”;   “Complottismo  e teorie cospirazioniste”;  “Un’analisi critica alle teorie di Gene Sharp”; “Ipotesi di confronto con il mondo accademico”; “Il Caporale Strategico nell’Era dei Media (Strategic Corporal)”; “Nascita e declino dello Human Terrain Sistem (HTS)”; “Le critiche dell’American Anthropological Association (AAA)”; “Cross Cultural Competence (3C)”; L’utopia del Population-Centric Counterinsurgency Approach”; “I Cross Cutting Topics (CCT)”; L’immersione partecipanteLe interviste degli informatori…  e ne ho scelti proprio pochi tra tanti… e questi solo a mia personalissima predilezione, ché invece tutti i capitoli si determinano, alla fine, come assolutamente conseguenti.  Senza poi neanche accennare al Capitolo 7 de “Il Caso Studio: Al Shabaab e l’Information Warfare”, che onora tale libro dell’ineguagliabile esperienza diretta. Ed, infine, di una “Bibliografia” complessa ed articolata, che non è la solita compilazione necessitata, ma un utile strumento di comprensione.
  • Ma vorrei fermarmi, icasticamente, su alcuni passi:
  • “…la cultura al servizio degli equilibri geopolitici” (pag.14);  
  • “…coerentemente con quanto previsto dal Diritto Internazionale relativamente alla figura del legittimo combattente” (pag.15);
  • “…Un’Utopia che pensava di risolvere le guerre civili, il frantumamento degli Stati, le pulizie etniche, semplicemente separando fisicamente i contendenti e pagando con gli aiuti internazionali la soppressione delle tendenze bellicistiche. Chi non si voleva piegare a questa logica ‘umanitaria’, veniva sottoposto alla gogna mediatica e alla giustizia dei tribunali internazionali…” (pag.18);
  • “…Oggi, invece, le guerre non si dichiarano, ma si fanno in modo indiretto…(…) Oggi si attaccano gli avversari attraverso i media, con la disinformazione, con gli attacchi finanziari sui mercati borsistici, con le sanzioni economiche, sostenendo movimenti di lotta armata, ma anche ‘pacifiche’ proteste di piazza, creando eserciti di mercenari, uccidendo gli avversari con missili teleguidati, con droni, con virus letali, con gli scandali giudiziari. No, nelle guerre di oggi più che in passato, non c’è necessariamente bisogno di armi per uccidere il proprio nemico…” (pag.20)
  • “…Secondo l’attuale Capo di stato Maggiore delle Forze Armate Russe Generale Valerij Gerasimov le guerre del futuro saranno, necessariamente, Guerre Cognitive, cioè guerre d’informazione.” (pag.21);
  •  “…Un nucleo che per Andrej Il’nitskij, analista russo vicino al partito di Putin ‘Russia Unita’, rappresenta l’ideologia. Un concetto secondo l’articolista russo, centrale nella visione militare russa. Poiché per ‘…indebolire e distruggere la vitalità di una nazione, senza azione militare diretta, è necessario distruggerne appunto il nucleo ideologico (…) …Poiché l’ideologia è il navigatore di una nazione che mette in collegamento passato, presente e futuro’…” (pag.22);
  • “…Queste sottoculture rivoluzionarie, che si possono trovare in forme e quantità diverse nello stesso tempo e in qualsiasi società, danno vita all’agitazione sovversiva che è lo stadio propedeutico alle altre fasi della ‘conflittualità non convenzionale’…” (pag.25);
  • “…poiché attraverso la conquista delle popolazioni, si voleva trasformare  il cittadino in un ‘uomo-arma’. …‘Uomo-arma’ che era il prodotto della penetrazione silenziosa, psicologica e morale della propaganda  attraverso la diffamazione, le delazioni, le provocazioni alle classi dirigenti nemiche…” (pag. 28).
  • Ma oltre queste brevi ed apparentemente del tutto leggibili riflessioni (ma ne abbiamo mai tratto il minimo conseguente - definitivo - insegnamento esistenziale?) vorrei portarvi altri due esempi, appena poco più distesi, per dimostrare quanto Prizzi vada in profondità, senza sconti per nessuno (neanche per se stesso).
  • Pag.112: “… La Defence Cultural Specialist Unit (DCSU), come superare gli errori dello HTS.
  • “…Nel luglio del 2019 il Prof. Gilbert Achar della School of Oriental & African Studies (SOAS) è stato coinvolto in uno scandalo che l’ha visto implicato, insieme ad altri docenti, nell’addestramento, dal Gennaio all’Aprile 2019, di una unità dell’intelligence inglese: la Defence Cultural Specialist Unit (DCSU). Addestramento che avrebbe visto fondi per 400.000 sterline finanziati dal Ministero della Difesa britannico e che sarebbe iniziato già nel 2017.  Ciò che incuriosì in modo particolare la stampa britannica  fu che il Prof. Achar, noto per le sue posizioni marxiste e per la sua collaborazione al Jacobin Magazine e al Democracy Now, abbia affermato di essere stato convinto dell’importanza che docenti d’estrazione politica di sinistra fossero impegnati nella formazione culturale dei militari inviati in missioni all’estero da Noam Chomsky.  Il quale, com’è notorio, ha sempre mantenuto un rapporto di collaborazione con la Difesa americana. Ciò al fine di togliere un certo monopolio al pensiero di ‘destra’ in ambito militare.  Questo scandalo, in realtà ha riportato in auge il controverso rapporto tra mondo accademico e militare in merito all’utilizzo delle Scienze Sociali e antropologiche  nell’ambito delle operazioni di guerra. Un rapporto che sembrava ufficialmente tramontato con il fallimento dello HTS, ma che ha invece visto, specie nel mondo anglosassone, una continuità d’impiego apparentemente mai interrotta…
  • … no comment.
  • Pag. 154:
  • “…Una possibile soluzione a questi ed altri dilemmi in cui l’Etnografo di Guerra potrebbe incorrere nell’interpretazione etnografica di un conflitto è data dalla ‘Prospettiva Ermeneutica’ di Clifford Geerz.  Il quale, prima di tutto, sosteneva che le Scienze Sociali sono Scienze Interpretative e che l’antropologia interpretativa è tale perché cerca i significati attraverso i simboli caratterizzanti la vita psichica collettiva.  I quali, si nascondono dietro le interazioni sociali. Questa sua enfasi sulla comprensione  e sull’interpretazione porta implicitamente alla ‘traduzione’ di una cultura a un’altra.  Traduzione perché cerca appunto di dare un senso a ciò che è straniero, rendendo familiare l’atto compiuto dal locale allo staff militare.  L’etnografo di guerra, pertanto, si inserisce in questa ‘traduzione culturale’.  Traduzione che non vuole però dire attuazione di un  mero metodo comparativo. Bensì, come insegnato da Geerz, bisogna focalizzare la propria attenzione sui significati locali dei fatti culturali.  I quali possono essere compresi solo all’interno del quadro simbolico che li ha prodotti. Attraverso una ‘descrizione densa’ si scopre  e si ricostruisce la complessità dei significati non espliciti. Contestualizzandoli e traducendoli in informazioni utili per la pianificazione e la condotta delle operazioni militari…”
  • …no comment.
  • E potrei continuare così quasi all’infinito… lungo tutte le oltre 200 pagine del testo. Ed il concatenamento progressivo dei significati è sempre supportato efficacemente dai significanti.
  • Tornando alla mia discutibilissima lettura potrei allora concentrami (ovviamente semplificando al massimo del lecito) sulla dimensione dell’altro e sull’immersione partecipante, in qualità di due rocche concettuali che Prizzi ci invita a penetrare e poi a scalare. Ma avvicinandoci, ed incominciando davvero a saggiare il terreno, scopriamo che fanno parte di un unico ed enorme campo trincerato. L’altro - banalissimamente - non sono mai… io… a prima vista.  Ma, addentrandomi ancora, scopro che il mio terrore e la continua rincorsa di una possibile ulteriore  e meno illusoria comprensione di quell’altro mi portano inevitabilmente a domandarmi, senza più ritegno e copertura, od almeno con sempre meno ritegno e copertura (se non perdo del tutto la testa nel  vorticoso furor …all’esempio di Kurtz: se, appunto, senza tirare le somme …he had judged. "The horror!), chi io sia, effettivamente.  Questo non era proprio lo statuto ermeneutico dell’occidente moderno, ove tutto andava sempre più materializzandosi, pur sempre con un taglio individualizzante.  Ma tutta la cultura antropologica ha dovuto compiere questo spaventevole regressus ab inferis, ed in tal modo ha completato un primo ciclo (anche storiograficamente accademico) di vitale ricomprensione del mondo.  Un mondo - di seguito - sempre meno materialisticamente diviso tra occidente ed oriente e tra nord e sud.  E l’antropologo/etnografo di guerra deve ancor più scendere βάθος τῆς ψυχῆς  o meglio βάθος καρδίας ἀνθρώπου e questa è una scelta che nasce ontologicamente prima ancora che confessionalmente  (o professionalmente).   Ad esempio (professionalmente): L’HTS (Human Terrain System) si nutre di questo paredro virtuale e con le altre due… “…discipline diverse: il CQ (Cultural Quotient), lo Human Terrain System, e l’Antropologia Pubblica.  La prima nata  nel 2003, nel mondo della formazione manageriale mentre le altre due  nel 2006 nell’ambito militare  e in quello accademico…”, (pag.54)…  riesce a comporre una comprensibile tavola sinottica sulla quale si potranno esercitare tutte le successive variazioni ed implementazioni. La stessa parola “terreno” archetipicamente indicava la parte più basale di qualsiasi corpo, quella che contattava le forze ctonie e da esse, controllandole e verificandole (quindi non lasciandosene nefastamente dominare), fortificava il cuore. La “terra del cuore”, grunde des herzen,  intensifica, in direzione sùpera, il cuore fino all’implosivo uso eckhartiano grunt der sêle…  nella sua impervia accessibilità poco risalibile ed ancor meno esprimibile,  e poi ancora, in Taulero ed  altri, come se il terreno fosse la più riservata oscura/luminosa cella del discorso con il Tutto… e così via, sino al mix di misticismo e razionalismo in Leibniz  e poi alle anticipazioni psicologizzanti e sociologizzanti delle collegate dimensioni.  Questa piccola incursione in ciò che non dice il libro… ma indubitabilmente implica, e che serve solo a stabilire che l’altro e l’immersione partecipante  hanno un cuore immemoriale.  Prizzi lo evidenzia nella chiusa del suo conciso intervento a corredo del mio primo intervento (I), quando recita: “...Tuttavia, cio’ e’ gia’ stato fatto, in tempi oramai dimenticati e disprezzati, da uomini differenziati che dell’immersione partecipante nel mondo che li circondava fecero una scelta di vita”.    

  •  LETTERA
  • di
  • Federico Prizzi
  • “…Con l’avvento degli attentati terroristici di matrice jihadista che hanno sconvolto gli Stati Uniti il 9 settembre 2001, e poi buona parte dell’Europa, i vari esperti di intelligence hanno iniziato a parlare sempre piu’ insistentemente dell’importanza della cultura per comprendere e sconfiggere il fenomeno del terrorismo. Un fenomeno che, culturalmente, spesso nasceva all’interno delle nostre societa’.
  • ……Cultura….ma di quale cultura parlavano questi esperti? Della nostra o della loro? Di come noi ci rapportiamo alle culture diverse o come queste culture diverse interagiscno con noi…. anche all’interno delle nostre societa’?
  • Sebbene tentativi di dare delle risposte fossero state abbozzate negli anni… mi mancava comunque un metodo chiaro, lineare e applicabile sul campo; anche per chi come me sia semplicemente uno studioso-viaggiatore in zone di confine.
  • Infatti, le domande che mi sono sorte, lavorando anche in paesi dove quella cultura terroristica aveva ampi proseliti, sono sempre state: “Ma come si studia una cultura radicalizzata, sia di tipo terroristico che prettamente militare?”, “Quali sono le griglie di analisi?”, “Come si puo’ studiare questa cultura da vicino senza essere influenzati dagli sterili dibattiti accademici?”. A queste e a tante altre domande il mio libro “Cultural Intelligence ed Etnografia di Guerra” vuole dare una risposta pratica. Una risposta incentrata su una metodología analitica di tipo antropologico che mira in particolare a comprendere come la cultura altra, in questo caso gli jihadisti somali di Al Shabaab, utilizzino il potere mediatico per veicolare messaggi a specifici target audience, in Somalia e nel mondo….anche a casa nostra.   Fare pero’ del “terreno umano”, come definito oltreoceano, il proprio campo di ricerca non e’ semplice, anzi, assolutamente difficile. Tuttavia, cio’ e’ gia’ stato fatto, in tempi oramai dimenticati e disprezzati, da uomini differenziati che dell’immersione partecipante nel mondo che li circondava fecero una scelta di vita.”   (Federico Prizzi) 


  • Cover Il sole alle spalle

  • A proposito di   Il sole alle spalle   di Mario Dessy
  • Una perdurante leggerezza
  • di
  • Sandro Giovannini
  •  Alcuni libri ti catturano non per qualità immediatamente eclatanti ma perché insinuano, al tuo interno, delle impressioni profonde di fatale corrispondenza di tutte le cose con tutte le cose, una volta che li hai affrontati magari non per dovere di documentazione o per la segnalazione di un amico che stimi o perché li reputi, forse persino con fatica, necessari al tuo percorso di conoscenza. Le letture del tutto gratuite - lo so, lo so, lo dovrebbero essere tutte… ma, alla fine, per svariatissimi motivi invece non sono che poche su tante - insinuano una persistenza di sguardo più leggero ed al tempo stesso più inquietante, perché capace di sottrarti alle dicotomie sempre imperanti, od almeno di metterti in una situazione di più ampia interrogazione. Più che utile, necessaria. Ero giunto ad ordinare e poi leggere questo testo sulla base di altra lettura, quella di Antisnobismo di Mario Carli. Mi aveva sorpreso scoprire che Dessy aveva sposato nel 1939 la moglie di Carli, suo maestro e fraterno amico scomparso nel 1935. Probabilmente - a conti ormai fatti, esistenzialmente - due uomini che non potrebbero apparire caratterialmente più diversi. Tanto irruente, espansivo, urticante, interventista, imperativo il primo, quanto più riservato, introverso, avvolgente, problematicamente poetico, il secondo. Ideologicamente molto vicini ma anche espressivamente ben differenti. La lettura dei due testi in ravvicinata impressione me lo conferma. Questa di Dessy quindi segue cronologicamente quella da me fatta per Mario Carli. Un’ulteriore suggestione periferica ma verificata, è il fatto, non frequente, che i due fondi letterari - per innegabili ragioni di connessione - siano distinti ma collegati al Mart di Rovereto.
vai all'articolo
  • Mario Carli Antisnobismo

  • A proposito di
  • Antisnobismo
  • di Mario Carli
  • (Prefazione di Claudio Siniscalchi, Aspis Edizioni, 2020)   
  • Sandro Giovannini
  • a
  • La prima cosa che m’appare lietamente gravida d’ulteriore riflessione leggendo l’informatissima Prefazione di Claudio Siniscalchi al libro di Mario Carli, è in relazione ad un famoso articolo di Volt del 1925 su “Critica fascista” che disegna, tra le prime, una mappa della cultura del fascismo in cinque aree. L’area a cui s’autoassegna (perché Volt se ne sente autorevole parte), ovvero l’“estrema destra”, è quella che trae origine dal futurismo, dal dannunzianesimo, dall’arditismo, reputandosi inoltre la più pura ed intransigente incarnazione dello spirito antiborghese e rivoluzionario. Non è certo la tesi interpretativa che storiograficamente (in re e non in sé) e col passare dei decenni, ha poi preso il sopravvento (a manca e persino a destra) rispetto al giudizio comunque, in genere sommario, su tutte le componenti del movimento, poi regime. Lo stesso Siniscalchi, nella Prefazione, dimostra ad abundantiam che solo per affrancarsi dal turbine demolitorio e tabuizzante delle complessive letture storiografiche pregiudizialmente e/o comunque di risulta antifascista venute ad assommarsi nei decenni del secondo dopoguerra, si è dovuto attendere moltissimo ed in ogni caso - al meglio persino nei pochi casi d’onestà intellettuale - s’intende bene che un velo d’assoluta caligine al proposito è rimasto depositato nel fondo valle interpretativo, probabilmente per ogni tempo a venire. Le analisi storiche e le interpretazioni storiografiche s’affermano sempre sul dopo, su bocce epocali apparentemente ferme, per contare i punti della partita appena definitivamente finita (che poi però fa parte di un girone selettivo mai concorrenzialmente concluso…). Punti e partite altrimenti inafferrabili, seppur fior d’interpreti e di esegeti delle strategie del gioco passato od in corso, s’affannino meritevolmente a cercare di dipanare psicologie delle visioni del mondo e visoni delle mondanità degli autorevoli, con le loro precipue e forse genetiche caratteristiche ideologico-caratteriali, progressive, devianti, trasformative, pragmatiche, etc., 
vai all'articolo
  • Eraclito Conflitto 3

  • Nemesi  può attendere
  • qui… dove si puote ciò che si vuole   
  • di   
  • Sandro Giovannini
  •  
  • “Per avere una patria bisogna essersela meritata…”
  • (G. Boni, Arse verse, citaz.
  • da: “Giacomo Boni, il veggente del Palatino
  • di Sandro Consolato, Politica Romana, N° 6, 2000-2004)
  • Spero che la Potenza Divina non si adonti e mi perdoni la blasfemia, sapendo che qui, nelle tre volte umanissime del si puote (non nella sostanza), i nomi sono purissimi (pur, a volte, putissimi) accidenti (=il contingente aristotelico) e vorrebbero non sollevare (…e non solo per furbizia ma almeno per poter solo approcciare un percorso mentale) come perlopiù e purtroppo accade, riflessi narcisistici e motilità pavloviane. Stiamo quindi all’empireo, terrestrizzato dal ragionamento, ma non quello romano, genialmente relazionale, quanto quello greco, coinvolgentemente umano troppo umano…    Ancora: prima di entrare nella dialettica dobbiamo tentare di sgombrare il campo da uno sbarramento spinato pregiudiziale. Esistono, ancora e per fortuna, degli stimati e geniali amici, che costantemente ci richiamano tutti (…od almeno i non insuperabilmente ingabbiati nella propria stessa visione del mondo), alla necessità di “cercare di parlare” con una platea più ampia dei soliti cinque o cinquanta corrispondenti che sappiamo potrebbero convenire, più o meno, con le nostre tesi di fondo. E questi stimati amici non sono di quelli che si potrebbero definire, propriamente, moderati, magari offendendoli ed offendendoci, nel confondere superficialmente il controllo estremo dell’argomentazione, la signorilità del gesto critico e la riflessione mai semplicistica a livello di visione, in carenza di visione o di carattere. Anzi, direi che sono sicuramente tra i non molti che ultimamente si possano veramente stimare, per lucidità, progettualità e coraggio intellettuale. Quelli che consentirebbero con le nostre tesi quindi, dicevamo… più o meno.  Perché necessariamente consapevoli di una lunga serie di illustri conoscitori, della terenziana quot homines tot sententiae… 
vai all'articolo
  • Cane sciolto

  • A proposito di
  • CANE SCIOLTO
  • Il nero muove e perde
  • di
  • Miro Renzaglia
  • (romanzo, Passaggio al Bosco. 2021) 
  • rec. di
  • Sandro Giovannini


  • Chi e un individuo? Uno che si sarebbe dovuto individuare? E chi sono io per capire se uno si e individuato o no? Ma per uno come me che in un lontanissimo passato diede il titolo ad una raccolta comunitaria “Né cani sciolti né pecore matte”, il titolo “Cane sciolto” fa già pensare a parecchio. Parecchio non e né moltissimo né troppo, ma non è, comunque, poco. E restiamo a Miro. Lui procede dalla vocazione. Anche la vocazione sembrerebbe parecchio. Se uno non prendesse troppo sul serio le profferte del caso... tipo mi son trovato lì e… d’accordo… poteva andare che mi univo agli uni, come agli altri. Ma poi incombe sempre un richiamo, magari grossolano o magari subliminale, ma ben più potente di quanto comunemente si creda, che ci porta fuori dalla disamina cinica e disincantata. Il sangue, come recita ancor più alla fine del romanzo, ha la prevalenza su ogni cosa, almeno a linee massive… Poi, come fa lo stesso autore (lungo tutto il racconto), chi è che ha parlato meglio di molti (se non certo di tutti) della “fascinazione fascista”, se non chi lo ha fatto a contrariis? Mi ricordo, al proposito, delle più belle parole di un Bataille o di un Caillois, e non quando sbracano rovinosamente nel rovistare nella spazzatura del grande sgombero, ma quando riportano alla luce il diamante della pressione primaria. Originaria. Bene… lì viene fuori il meglio della comprensione e nulla è eccessivo, ma solo illuminante. Quindi bando al caso, che certo agisce in noi, ma forse meno di quanto a priori o (magari) a posteriori, si creda. Perch’è proprio lì che quel passato e futuro, riassorbiti dalla presenza paradossalmente eterna dell’attimo (…come recita l’autore), in quel momento/caso, costruisce il paesaggio attorno .. incidendo in ciò che noi proprio faremo. Almeno, io così credo. Ma ha un senso che io parli così? Così parlando si capisce qualcosa solo se uno ha davvero già letto il libro e si è fatto divorare dalle cose che restano di scorsa o si riprendono poi, di ritorno, su molte, molte pagine. Che importa quale sia il giudizio critico che poi dovremmo dare dividendo in fabula intreccio sintassi e filmica se non riesce a prenderti la cosa detta e se ti lascia indifferente tutta la storia come se tu dovessi solo interessati a capire perché uno ha scritto proprio una cosa invece di un’altra? Io stesso che ho vissuto “sdoppiato” quegli anni, pur essendo stati quelli di una mia giovinezza violenta ed ancora seminale, li sento cupi ed ingannevoli, tutti a debito di una lucidità che mi spinse, molto presto e forse prima di altri, più a superare che a vivisezionare. E nei miei libri ho trattato, tutto sommato, solo aforisticamente la mia, mutevole, consapevolezza esistenziale. Per cui confesso che non avrei mai letto un libro come questo - come non ho fatto con tanti altri - se non fosse stato scritto da un antico sodale. Ma, ripiombandoci dentro, il nero che muove e perde, diviene la metafora di un certo tempo che, necessariamente, ha le sue caratteristiche irripetibili, ma che ci risputa in faccia, appena siamo a volto scoperto, l’impermanente ma incontenibile espansione dell’identico. E qui, comunque l’intreccio tiene, divenuto paradossalmente atemporale, e proprio per questo supera persino il nostro pregiudizio di adagiarci su ciò che conta per noi pochi (o molti, magari, scegliete voi…), ovvero comprendere quale cammino insieme si possa ancora fare con chi ci è stato sodale ... Un tempo, un tempo. E non perché noi si abbia bisogno per forza di altri (...se per giunta si è proprio un “cane sciolto”), quanto accostarci ad un percorso, che non può che essere diverso, ma proprio perché “altro” ti induce dialetticamente a pensare ed a rivoltare anche tutte le tue cose del passato, che però (te ne accorgi sempre, con sorpresa) servono ancora per vivere, qui ed ora… In una via che potrebbe essere più o meno la nostra... Almeno per un po’… almeno finché si vive con l’intelligenza operante. Questo è quello che dico del libro di Miro ovvero ciò che mi interessa veramente e poi potrò anche dire ciò che direi per molti (non troppi) che comunque stimo, ma con i quali magari non c’è stato in gioco un vissuto profondissimo, sia pur altalenante, una passione divorante, forse in parte ridotta a cenere...
  • Scrive bene, controlla il linguaggio… l’alto ed il basso sono sempre raccordati da una linea di equilibrio mediano anche se la parola equilibrio, nel suo caso, possa apparire, a provare la tensione ininterrotta del racconto mirato su un soggetto sempre al limite, un azzardo... Invece no... E’ proprio equilibrato nella sua rapsodia d’immagini e di quadri d’insieme... Nella sua “povertà dignitosa” (della sostanza) che avrebbe tanti accostamenti letterari, nobilissimi per quanto popolareggianti, oggi ovviamente del tutto inattuali,… oggi che si vive imaginalmente in un quotidiano ridotto al solo sogno del consumo… Nel procedere, in questo libro, per vite probabili, per amori probabili, per accadimenti probabili e quindi credibili, anche se il livello aforistico, mai sputato, rimane, sopra e sottotraccia, costante. Diciamo che potrebbe persino apparire declamato, ma questo fa parte di quel clima e del pensiero ossessivo che oggi s’è tramutato, non meno ossessivamente, in altra ed apparentemente diversa forma. Nel suo aforisma di taglio esistenziale (esperienziale), preponderante persino, ma non saccente. Quello, incredibilmente che lui pensa (…lui, Miro) e non quello che gli altri credano che lui, solo, scriva.  Lo so perché accade anche a me che i pensieri spesso sian ben superiori al mio medio livello esistenziale, anche se dirlo così sembra una bestialità. Ma la prova è data proprio dal fatto che a volte, per riconoscermi nel mio pensato, devo far fatica… Devo procedere a ritroso, ricostruendo e non è facile. Pensiamo per altri… Per questo molti parlano, a sproposito, di teoricismo e di oscurità a buon mercato. Come se fosse più onesto (…magari solo più furbo) ridurre il caos interiore, geniale ed a suo modo irripetibile, ad una lucidità di lettura… Credo che succeda anche a lui. E lui opera bene nella sua struttura a tre, tra uomo e donna concreti e mondo astratto figurato, ma che incombe, numerale (…azzarderei pitagorico) dei tarocchi/scacchi che sappiamo, come è vero per l’autentico Oscuro, “non dice, non occulta ma fa segno”… come… se fosse possibile che “…pour de pareilles âmes le surnaturel est tout simple” (Flaubert). E crederlo per un non credente è ancora più sorprendente.
  • ...
  • La scacchiera del mondo che domina con la sua prevedibilità impenetrabile (…la vacuità ed il destino)… ero tentato di dire... Ero tentato di dirlo solo perché siamo abituati a pensare che una tensione ideale, pur portata al suo spasimo ed alla sua prevedibile acme favorisca sempre la lettura. Ma questo non sempre s’avvera, perché, fuori da una concatenazione efficace, la tensione, portata all’estremo, può crollare in qualsiasi momento. Ora questo non succede qui, perché, ben oltre la curiosità del comprendere un’anima che ha sempre potuto costruito il romanzo, la storia ben meritava e merita (così raccontata), oltre questo testo compatto, forse un libro ancora più disteso di questo per metterci dentro tutta una parabola e non solo quella “d’origine”, poi vista tramite gli occhiali, ben schermati di oggi, nel nostro tempo così unico, ancora come sempre, fluido e nuvoloso di tempesta... Ma forse è una tempistica, espressiva ed interiormente necessitata.
  • “…Ho avuto tutte le età, tranne la mia. Ma lo stupro della tua adolescenza non ti dava diritto di scegliere, per contrarietà, il rovescio di ogni ideologia. Anche se ad istigarti era stato il sicario del suicidio e il vero crimine fu il discrimine accettato come stimmate della differenza. Perché nicciano libertario e anarchico jüngeriano era un’equazione a troppe incognite per dare un risultato diverso dallo zero. In realtà, non volevo niente ma lo volevo con tutte le mie forze: artefice geniale di un marchingegno autonichilista. E svaginare a sassate il senso della vita era l’unica utopia. Balbettata tra le rime, la parola disdetta, amore e poesia si coniugavano strette al tempo di un futuro, funereo presagio: tra ovulo e loculo il passo è breve. Oh! Inquieta età, ogni pietà ti è vietata. Ma se fra dire e il non dire c’è di mezzo il fare, l’azione brucia tra le spire l’esperienza e ogni diffidenza a vivere è scongiurata nel limpido svernare…” (pag. 150)
  • Per chi è stato poeta vero è costante l’attuale e potenziale scrittura a riprendersi tutto il tempo che serve per dire ciò che, miticamente e realmente, si è stati e quello che si è diventati... Lui ci sta già riuscendo.

  • cover N SNOB OAKS

  • LE  EVOCAZIONI  DI  GIOVANNINI:
  • un arcobaleno che unisce l'arcaico al futuro
  • di
  • Marco Rossi
  • Affrontare seriamente una pubblicazione di Sandro Giovannini non è mai facile: complica tutto la complessità oggettiva del personaggio e la contiguità spirituale ed umana di chi scrive con l’oggetto in questione. Oh Dio! Parlare di oggetto non è certo una definizione accettabile, qui occorre parlare piuttosto di un personaggio, una personalità straordinaria che è nata e cresciuta all’interno del “nostro ambiente”…  Ahi!  Ahi!   Di male in peggio…  Si intende dunque utilizzare termini “politicamente scorretti” o che comunque dovrebbero essere sepolti nella inenarrabile spazzatura della storia, quando fascisti, comunisti, democristiani, socialisti e liberali (assai molto pochi allora..) si contendevano i destini di questa italica colonia orientale dell’Impero Americano, magari con urla e violenze varie, comprese le storie indecenti pubblicate nelle pagine delle Tardocronache dalla Suburra…  Non importa, su questo non intendiamo comunque spiegare un bel nulla: intenda chi è capace di intendere.   Questa straordinaria personalità poetica, artistica, militare e organizzativa, insomma culturalmente attiva e spregiudicata, assolutamente esplosiva e incendiaria nella propria intima prassi esistenziale e creativa, al sottoscritto ha fatto sempre pensare a quella analoga di Filippo Tommaso Marinetti, il celebre ideatore del Futurismo.   Secondo me, Giovannini è stato un vero e nuovo Marinetti che dalla metà degli anni Settanta sino a oggi ha fatto l’impossibile per far decollare una proposta artistica, letteraria, metapolitica (e persino umana..) e culturale in senso ampio per il nostro ambiente e questo libro N-SNOB. Altre evocazioni   (OAKS),  racconta la storia delle plurali iniziative che Sandro ha guidato, sempre con successi clamorosi dal punto di vista spirituale e di realizzazione artistica, nel corso di mezzo secolo.   E’ però mancato il successo di massa?   Ma poteva esserci un successo di massa nell’era della globalizzazione tardo-capitalistica a trazione americana per questi contenuti?   Siamo seri...
vai all'articolo

  • Il piacere di stare in una solitudine ideativa
  • di
  • Jakob Shalmaneser
  •  
  • (Su: “N-SNOB. Altre evocazioni
  • di Sandro Giovannini, OAKS editrice, 2021,
  • articolo uscito sul sito ALTERVISTA, litterae, il 12 agosto 2021;
  • Riferimento: Facebook: “Sulla scrittura di Jakob Shalmaneser”)
  • Nella lunga intervista che ho ascoltato l’altra notte, verso la conclusione, parlando dei libri in uscita, l’editore accenna all’autobiografia di Sandro Giovannini, ma tale termine non compare né in copertina né in quarta di copertina né nei risvolti né nell’introduzione dello stesso Giovannini.   Il tabù attorno a tale termine, nell’editoria italiana, è antico. Già la biografia è, sul nostro mercato, commercialmente un rischio, all’opposto di quanto avviene in Inghilterra, dove è uno dei generi più redditizî, tanto che là si fanno firmare allettanti contratti a camerieri, portinai e figure irrilevanti che però promettano uno scorcio appetitoso di come viveva una persona famosa: le autobiografie paiono addirittura offendere l’individualismo italiano, suscitare la stizzita reazione di un Chi si crede di essere, per raccontarci la sua vita e pretendere che noi si paghi per leggerla?    Ma dunque Gallesi è stato impreciso, nell’intervista di due mesi fa, a parlare di autobiografia? Non del tutto, se non trascuriamo tuttavia le due più potenti spinte che sfrenano e al contempo frenano il bel talento intellettuale di Giovannini: l’astrazione e la reticenza.
    Quello dell’astrazione è il più vistoso degli orgoglî dell’autore: il lettore si trova di fronte immediatamente una prosa sontuosamente complessa, aggiornata lessicalmente sulle correnti più interessanti del pensiero contemporaneo, asiatica nelle articolazioni innumerevoli delle subordinate e delle precisazioni. Le letture di Giovannini sono buone quando non ottime: basterebbe a renderlo scrittore attraente e benefico il non riscontrare nei suoi saggi alcun cascame evoliano, non un granello di quella polvere concettuale tra il senile, il ginnasiale e l’esoterismo da tre soldi che, più che il filosofo romano, solleva da decennî quel malinconico fenomeno che è l’evolismo.   Siamo dunque entro una scrittura che non concede mai discese a chi ne fruisce e che anzi ne esige un’ininterrotta fatica analitica, necessaria a seguire il complicarsi e il precisarsi dei concetti: ed è una scrittura il cui soggetto è più spesso ciò che non è, ciò che non è stato, piuttosto che ciò che è e ciò che fu. Penso anzi che valga la pena che io spenda qualche parola su questo non essere: non solo perché su di esso torna spessissimo Giovannini, ma perché lo voglio a mia volta lodare per non essere diventato due cose che spesso finiscono per diventare gli uomini che amano adoperare le parole.   Giovannini non è un giornalista. Non c’è il minimo sentore di giornalismo in queste pagine. Non vi è quel tremendo sapore dei discorsi preconfezionati e destinati a un pubblico intuìto se non addirittura predeterminato. Non vi è alcuna astuzia redazionale, alcun luccichio verbale per tirare a sé una mente distratta: basti a dimostrarlo un titolo senza chiave come N—Snob, non disciolto in spiegazione né in prefazione né nei risvolti di copertina. Un titolo che — in tempi culturalmente desertificati quali i nostri, in cui un libro senza via commerciale lubrificata può aspirare, se va bene, a 11 lettori — li farà presumibilmente diventare 7. Un titolo per il quale saremmo amichevolmente tentati di tirargli pietre (intendiamoci: di polistirolo dipinto, come nei film mitologici…)
  • Giovannini non è, grazie agli Dei, neppure un cattedratico. Sa servirsi del linguaggio come un accademico di alta levatura, ma non vi è nella sua sintassi quel desiderio di potere che così marcatamente contraddistingue la prosa dei docenti universitari desiderosi appunto di influire sull’opinione pubblica, di collaborazioni ben remunerate ad un giornale nazionale, di apparire utili e interessanti a venticinquenni dalle belle gambe spuntanti da vestiti un poco corti o largitori di assistentato a venticinquenni un poco timidi ma dai docili lineamenti.
vai all'articolo
  • Stefano Vaj I sentieri della tecnica copertina

  • Roberto Guerra
  • INTERVISTA
  • Stefano Vaj
  • su 
  • "I SENTIERI DELLA TECNICA”.
  • SPIRITO FAUSTIANO, TRANSUMANISMO, FUTURISMO" (2021)
  • (…Da:  NEOFUTURISMO   29 ottobre, 2021   https://futurismo2000.blogspot.com/2021/10/nuovo-libro-di-stefano-vaj-i-sentieri.html  )
  • D- Vaj, un tuo nuovo libro sulla Tecnica e/o tecnologia da sguardi futuristi e transumanisti, quasi un download inedito... della tua ricerca pluridecennale? 
  • Proprio così. Nel corso della mia vita ho scritto di vari argomenti, per esempio di filosofia del diritto, di movimento delle idee, di identità, di politica internazionale, etc. Ma il filo conduttore - ora più evidente, ora in forma più carsica - della mia riflessione ha sempre riguardato la questione di cosa davvero siamo e cosa vogliamo diventare, di un divenire accettato e auspicato come tale, e delle tecniche che possono consentirci di mirare a grandi obbiettivi collettivi inerenti al fatto di cambiare noi stessi e il mondo nelle direzioni preferite.   Tra queste tecniche naturalmente la tecnologia in senso stretto, almeno dalla rivoluzione neolitica in poi, occupa il primo posto. E lo occupa doppiamente per quella cultura europea, "faustiana" la chiama non a caso Spengler, con cui mi identifico e la cui connotazione in questo senso non risale del resto alla fine del medioevo ma è ben più radicata, come illustra La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo. Vengono perciò in conto un mucchio di sviluppi, o magari mancati sviluppi, in termini strettamente tecnoscientifici, e mi sono occupato anche di questi, per esempio in Biopolitica. Il nuovo paradigma (oggi interamente online a http://www.biopolitica.it); ma non è cambiato nulla dall'epoca di Marinetti su ciò che possiamo e dobbiamo pensarne, a seconda di alcune opzioni ideologiche fondamentali che riguardano la nostra visione del mondo, dell'uomo e della storia.    Così, mi sorprendo quasi io stesso di quanto diventino sempre più attuali conclusioni che al riguardo mi sono trovato talora a tirare già dieci o vent'anni fa o più, del resto sull'onda di una prospettiva postumanista le cui radici sono ormai più che secolari. E il risultato complessivo, che è quanto il mio nuovo libro spero contribuisca a disegnare, è un quadro in cui tali conclusioni si sono fatte via via più cogenti, anche in rapporto ad un'evoluzione del dibattito generale in cui alcune scelte ideologiche sempre più si chiariscono, si raffinano, e si fanno più radicali. Cosa che è avvenuta e sta avvenendo sia dal lato futurista, transumanista, prometeico, etc., che dal lato neoluddita, primitivista, decrescentista, epimeteico. Non si tratta qui infatti di convertire qualcuno, ma di evidenziare le implicazioni profonde delle rispettive prese di posizione, al di là di occasionali convergenze su questioni di fatto, che restano indubbiamente possibili anche per chi aderisca a prospettive diametralmente opposte e che nulla impedisce di sfruttare. Ma possibilmente senza attenuare la consapevolezza del relativo spartiacque, e la propria mobilitazione, se non altro intellettuale, in quella che è ragionevole definire una "guerra culturale" decisiva per il futuro della nostra specie e delle nostre rispettive comunità di appartenenza. Indipendentemente dal fatto che di volta in volta il mio libro prenda in esame la questione dal lato delle tecnologie reprogenetiche o della esplorazione spaziale, della intelligenza artificiale o della crionica, della difesa e sviluppo della biodiversità o della politica industriale.
  • D- La prefazione è del celebre cosmista e futurista Giulio Prisco...
  • Giulio Prisco, amico e cofondatore con Riccardo Campa e con me dell'Associazione Italiana Transumanisti, di cui è oggi presidente, è un'icona nel mondo del transumanismo internazionale, in cui ha per decenni animato innumerevoli iniziative, correnti, gruppi di interesse monotematici e settoriali, etc., e cui ha contribuito immensamente soprattutto dal lato dell'informazione e della condivisione. Il vivo interesse che la sua affettuosa prefazione mi dimostra una volta di più è per me motivo di orgoglio e soddisfazione, anche perché sancisce una volta di più la convergenza e al tempo stesso ricchezza di un mondo che si compone di mille rivoli e contributi diversificati non solo per provenienza ideologica ma formazione personale. Giuridica, filosofica e polemica la mia, laddove Giulio, ex manager dell'Agenzia Spaziale Europea, è un ingegnere, un tecnologo e un informatico, non senza un pendant "misticheggiante" che nel nostro secolo spesso caratterizza paradossalmente molti intellettuali con una educazione STEM.  Ancora, con un approccio che parte dal transumanismo "wet" per ciò che mi concerne, e che invece trova in lui, ad esempio, un eloquente, documentatissimo ed accorato avvocato dello sviluppo dei programmi spaziali, come dimostra il suo recente, prezioso testo in materia di Futurist Spaceflight Meditations. Per cui, una volta di più, anche I sentieri della tecnica è un libro virtualmente dedicato non solo a chi magari ha i miei stessi gusti ed interessi di partenza e vuole conoscerne l'applicazione agli argomenti trattati nel libro, ma anche a Giulio Prisco e a tutti gli amici e compagni di strada del movimento futurista e transumanista italiano e internazionale, da Stefan Sorgner a Max More, al cui dibattito interno mira a fornire un contributo originale e fortemente caratterizzato.
  • D- Postvirus, la ricerca transumanista è più difficile? Lo stato delle cose attualmente, su questa utopia futuribile e come vedi il suo divenire a breve termine? 
  • Sicuramente la pandemia di Covid19, in correlazione anche con ipotesi più o meno complottiste su una sua possibile origine artificiale, dolosa o colposa che sia, ha contribuito alla ulteriore diffusione planetaria delle paranoie in materia di biotecnologia e dell'ossessione per il cosiddetto Principio di Precauzione.  Cosa paradossale, perché se c'è una una cosa che la pandemia ha dimostrato è la fragilità complessiva della nostra società anche rispetto a minacce con un basso o bassissimo indice di pericolosità, e la lentezza con cui la scienza e l'industria biomediche e farmacologiche sono oggi in grado di reagire. Ciò parte per i ritardi culturali e gli investimenti insufficienti nel campo della ricerca fondamentale, parte appunto per l'eccessiva ossessione per la sicurezza che contribuisce ulteriormente a rallentarne la risposta, specie dove più strette sono le maglie della regolamentazione occidentale. In questo è interessante notare come il problema sia apparso almeno marginalmente meno pronunciato, e le prime risposte siano state date, là dove, come nella Federazione Russa o a Cuba, il "decisionismo" locale abbia comunque in parte supplito alla delusione nelle aspettative messianiche in una immediata risposta del mercato - un tipo di mercato d'altronde che anche in questa occasione si è nutrito di monopoli garantiti, di connivenze pubbliche, di interessi politici…   Anche qui, d'altronde, la nostra capacità di limitare i danni di sviluppi indesiderati ed indesiderabili, non importa se antropici o "naturali", inevitabilmente dipende da un "di più" di conoscenza e capacità tecnica, non da una loro limitazione che tende al contrario a lasciarci potenzialmente inermi. Un laboratorio di ricerca sui virus indubbiamente gestisce un'attività molto pericolosa, ma le identiche conoscenze che possono essere messe a frutto per programmi di guerra batteriologica sono le stesse che sole possono consentirci una migliore difesa non solo da attacchi deliberati di questo tipo, ma altresì da incidenti, foss'anche del tutto indipendenti da qualsiasi volontà o responsabilità umana che il mondo contemporaneo, - per esempio con l'intensità globale, prima ancora che globalista, dei viaggi e degli scambi - certo amplifica ed accelera a dismisura. Cosa che chiama ad un principio opposto che Max More o Steve Fuller chiamano, come nell'omonimo libro del secondo, The Proactionary Imperative.   Infine, per quanto da un punto di vista transumanista la virtualizzazione - che può consistere anche in un simulacro consolatorio di ciò che non sappiamo ancora, o non vogliamo, più fare - sia un fenomeno ambiguo, di sicuro il mondo della pandemia ha accelerato processi di trasformazione nelle comunicazioni, nell'economia, e nella formazione, generalizzando ancor di più la pervasività delle tecnologie ICT, in ambito aziendale come privato, e contribuendo a rimettere in discussione modelli produttivi od educativi che appaiono oggi dipendere più da un'inerzia socioculturale che da una perdurante funzionalità.   Il che si combina in modi imprevedibili con il trend trasversale ad una crescente automazione il cui impatto sociale è ben analizzato da Riccardo Campa in   La società degli automiNon che le enormi risorse distrutte o dirottate a seguito della pandemia, specie in zone ed economie già vulnerabili o declinanti come l'Italia, favoriscano però né a livello di singola organizzazione né a livello di sistema gli investimenti a lungo termine ed alto rischio normalmente richiesti per l'avverarsi di breakthrough tecnoscientifici o la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali… Rispetto all'aggravarsi di questo problema il mio ultimo libro abbozza una riflessione proprio su come, rispetto a difficoltà economiche e politiche strutturali che il presentarsi di "cigni neri" fa esplodere in tutta la loro evidenza, l'unica possibile soluzione sia di tipo culturale, nel senso antropologico e profondo del termine, che a sua volta può essere preparata solo da un'azione "culturale", nel senso invece metapolitico, artistico, divulgativo, mitopoietico della parola, quale quella esemplarmente promossa dal Futurismo storico italiano con messaggi che conservano intera la loro vitalità.
  • D- L'ecologismo non scientifico sembra oggi dominante, una ennesima resistenza al futuro desiderante possibile?
  • Del tutto indipendentemente dalla fondatezza o meno delle preoccupazioni soggiacenti, la narrativa ecologista attuale resta largamente strumentale all'accettazione popolare più o meno rassegnata di una essenziale stagnazione tecnoeconomica, di ideali decrescentisti, e specie in Italia di un oggettivo impoverimento della popolazione, aggravato dal declino dei servizi sociali.  Il tutto naturalmente in vista non solo di pregiudizi ideologici, ma di interessi privati e politico-economici che, pur riguardando in primo luogo settori precisi all'interno del sistema attuale, in certa misura lo coinvolgono interamente.   Del resto, malgrado il perdurare di un vocabolario "verde", l'ecologismo viene oggi declinato essenzialmente solo sotto il profilo del contrasto al riscaldamento del pianeta, per altro addebitato a fattori, come la concentrazione di CO2 nell'atmosfera, per definizione non inquinanti, e semmai favorevoli all'espansione della biomassa vegetale sul pianeta. Al riguardo poi le uniche misure che siano prese in considerazione sono quelle che comportano una riduzione vera o presunta nel rilascio umano di gas serra nell'atmosfera, le loro conseguenze ambientali per altri versi - per esempio, la tossicità delle sostanze impiegate nelle tecnologie correlate o l'ovvio impatto ambientale e paesaggistico di centrali solari od eoliche su larga scala - venendo ridotte a preoccupazione secondaria.   Laddove un approccio scientifico e politico in senso alto, anziché propagandistico e "religioso", al problema richiederebbe una distinta considerazione di numerose questioni, concettualmente del tutto distinte, e meno "universali" di quanto si possa ritenere - benché paesi concepibilmente favoriti dal fenomeno, come la Scandinavia o il Canada, appaiano paradossalmente in prima linea nel relativo movimento.    Di converso, se è vero quanto sostenevano nel 1989 fonti ufficiali ONU, ovvero che la finestra per incidere sul clima del pianeta attraverso la riduzione delle emissioni si sarebbe chiusa nel 2000, per vari fenomeni di feedback positivo generati dal surriscaldamento, come il mutamento nell'albedo del pianeta, la priorità suddetta comporterebbe a logica un massiccio riorientamento delle risorse innanzitutto verso progetti di geoengineering.  In particolare, come ricorda anche Rubbia in un famoso video, molti esperti attribuiscono il "ritardato" riscaldamento del pianeta all'inizio del nuovo secolo… al pulviscolo liberato dall'industria cinese, ovvero ad un fattore altrettanto umano quanto il rilascio dei gas ad effetto serra, ma di effetto opposto.  Ed esistono numerose ipotesi di lavoro relative a progetti su larga scala volti al deliberato raffreddamento del pianeta, che non sono mai passati dai paper scientifici al dibattito pubblico, ai media o alle politiche nazionali semplicemente perché qualsiasi intervento che aumenti, anziché diminuire, la nostra impronta ecologica viene giudicato ideologicamente inaccettabile a priori.    Secondariamente, e in alternativa, è possibile che molte delle enormi risorse investite nella conversione ad una economia suppostamente "green" genererebbero maggiori e più sicuri ritorni ove utilizzate per adattarsi al mutamento climatico, anziché unicamente per combatterlo, a partire ad esempio dalle politiche e tecnologie in materia di risorse utili a trarre i possibili vantaggi o almeno limitare i danni insiti nel mutamento climatico, dalla modifica delle varietà vegetali utilizzate, ad un loro possibile utilizzo a latitudini e altitudini più alte che il riscaldamento stesso sarebbe destinato a rendere possibile, o ad un miglior utilizzo di mari ed oceani che coprono comunque già i due terzi del pianeta, e il cui ambiente al momento resta addirittura largamente inesplorato. Obiettivi che conserverebbero un ovvio significato anche nel caso di un riscaldamento globale non antropico, o comunque per qualsiasi ragione non utilmente controllabile da parte nostra.     Nondimeno, anche la tendenza in discussione presenta innegabilmente aspetti positivi da un punto di vista transumanista, rappresentando pur sempre una spinta verso l'esplorazione di tecnologie aggiuntive ed alternative, e verso una maggiore efficienza energetica di quelle che già utilizziamo, in un processo ben messo in luce da Ramez Naam in The Infinite Resource: The Power of Ideas on a Finite Planet, e che sottolinea come lo sviluppo sin qui conseguito non è dipeso dall'utilizzo di risorse improbabilmente "rinnovabili" o "sostenibili", ma dal ricorso a risorse sempre nuove.   Più in generale e soprattutto ci ricorda la necessità ormai ineluttabile di una crescente "presa in carico" da parte dell'uomo dell'ambiente in cui vive, attraverso decisioni che non possono essere lasciate a impersonali meccanismi economici e giuridici come sarebbe idealmente auspicabile nei sogni umanisti del sistema occidentale.

  • P. P. P.
  • di
  • Andrea Marcigliano
  • (da https://electomagazine.it/p-p-p/ di giovedì 09 settembre 2021)
  • Sinceramente delle polemiche, sulla vita privata di Pier Paolo Pasolini, non me ne è mai importato un fico secco. Come di quelle di tanti altri scrittori, peraltro. Wilde, Withman, tanto per fare due esempi. Cosa facessero, e con chi, in camera da letto sono fatti loro. Non sono omofobo né moralista, né sostenitore dei gay pride. Me ne frego, per dirla con Rett Butler. Ovvero Clark Gable nella sequenza finale di Via col Vento. Insomma degli scrittori mi interessa l’opera. Quanto hanno scritto. Non come hanno vissuto, se non nella misura in cui la vita sia espressione artistica. Ma questo vale per Dante, D’Annunzio e ben pochi altri. Non abbiamo alcuna biografia di Shakespeare, ma questo nulla toglie al suo genio creativo. Quindi di Pasolini la vita privata mi interessa ben poco. Se non per quel tanto che ha inciso sulla sua opera. Dove i tormenti dovuti alla sua “diversità” - come era uso chiamarla - ci sono, ma molto meno presenti di altri. Ben più profondi e drammatici. Per farla breve, lui, P.P.P., ai gay pride non ci sarebbe andato. Anzi, li avrebbe trovati ripugnanti per la sua, raffinata, sensibilità estetica. Era un’anima tormentata, mille contraddizioni e battaglie interne irrisolte. Un intelletto critico acuto come pochi. E probabilmente il più grande poeta italiano emerso dopo la guerra. Bellissime tutte le sue raccolte. Poesia in forma di rosa, per me, il suo vertice. Mi hanno sempre meno convinto i romanzi. Vigorosi, di grande scrittura... ma troppo legati a contesti temporali limitati. Uno strano realismo, visto che, in fondo, un vero realista lui proprio non era. Piuttosto, un anacronista. Un lottatore contro il suo tempo, come fu, in dimensione certo diversa, Nietzsche. Era un uomo antico, in fondo. Al di là della modernità progressista cui lo volevano, e ancora vogliono, a tutti i costi ascrivere. Rivendicava con orgoglio le origini contadine, anche se, di fatto, era cresciuto a Bologna ed era di estrazione borghese. Ma si sentiva friulano, di Casarsa, come i suoi avi. In quella terra aspra, tra quella gente abituata a lottare con la vita, sentiva affondare le sue radici. Ritrovava, soprattutto, quel senso di appartenenza, di comunità che il mondo moderno aveva completamente perduto. Lettere luterane, Scritti corsari. I feroci corsivi ed elzeviri in cui, con frasi asciutte ed incisive, colpiva al cuore la disgregazione della società contemporanea. E dimostrava di cogliere le minacce e i pericoli insiti nel suo futuro. Con un acume dolente, che andava ben al di là delle critiche, troppo intellettuali e astratte, di Marcuse. Uno dei maestri di quel ’68 che Pasolini, invece, non amava. Rivolta borghese, dei figli del privilegio... vedesse, oggi, tanti “katanghesi” di quegli anni, divenuti mosche cocchiere della speculazione finanziaria, araldi di Big Pharma, avrebbe la conferma, la prova provata, della sua lucida visione. Aveva, in effetti, previsto molte cose. La disgregazione della comunità, la perdita di ogni etica, la deriva di un capitalismo sempre più lontano da quella ricchezza delle Nazioni che aveva teorizzato Adam Smith. E poi la fine di ogni forma di democrazia reale, che non poteva che essere legata ad una dimensione umana, comunitaria. Piccola. Mentre nel globalismo, che vede progressivamente, gli uomini ridotti ad atomi, la democrazia diventa parola vuota di senso. Peggio ancora, strumento di un’oppressione ben peggiore di quella dei totalitarismi del primo novecento. Fu profeta. Come solo poeti autentici, ormai, possono essere. Come Pound, per il quale nutriva una profonda ammirazione, al di là della differenza, per certi versi abissale, che li separava. Fu profeta, P.P.P.... e intuì la deriva che ci ha portato all’orrore in cui viviamo.  E comprese, anche, che l’orrore peggiore è il non avere alcuna coscienza della nostra situazione.

  •  
  • ALESSANDRO III... ECCO PERCHE’ PIACE A PUTIN
  • (dal sito: “Lettera da Mosca”  -  25 GIUGNO 2021)
  • di
  • Marco Bordoni
  • Un paio di settimane fa, nell’incantevole scenario della reggia di Gatchina, nei sobborghi pietroburghesi, Putin ha inaugurato un monumento ad Alessandro III. Nell’elegante palazzo progettato per Grigorj Orlov da Antonio Rinaldi, lo zar cosiddetto “pacificatore” trascorse gran parte del proprio regno. Non è il primo omaggio di Putin ad Alessandro: nel 2017 aveva tagliato il nastro di una statua simile, piazzata in Crimea, nel palazzo di Levadia, e ne aveva elencato i successi: “Autorità internazionale della Russia rafforzata con la fermezza non con le concessioni, rapida crescita economica di pari passo con un riarmo che ha rafforzato l’esercito e la marina, fioritura di cultura e arte, grazie al richiamo alle tradizioni”.   Non è un mistero che Putin nutra una vera ammirazione per il “pacificatore”, ma pochi ci hanno fatto caso dalle nostre parti. Eppure è curioso: mentre i nostri commentatori lo accostano di solito a grandi e terribili guerrieri e modernizzatori come Ivan IV, Pietro I o Stalin (ma ne conoscono altri?), Putin sembra immedesimarsi in un sovrano di un periodo di relativa decadenza, cui si oppose invano azzerando, da un lato, le pur timide riforme paterne (giudicate troppo audaci) in una vana rincorsa al passato e rendendo, dall’altro, la Russia, sul piano economico e militare, abbastanza temibile da poter ottenere una pace indispensabile senza mendicarla.
vai all'articolo
  • 2 LIBRI Victoria Ocampo

  • A proposito di  
  • “338171 T. E.”
  • di
  • Victoria Ocampo
  • (Settecolori Edizioni)
  • Tra scrittura ontologica e “pensiero corrotto”
  • di
  • Sandro Giovannini
  • “…Si  può ottenere  dagli uomini in nome dell’uomo
  • quello che le religioni domandano in nome degli dei? 
  • Questo è il problema di  T. E. Lawrence”.  
  • Roger Caillois

  • E’ veramente una bella domanda quella che Caillois pone a chiave dell’enigma  Lawrence.  Vi è anche una sottile voluta d’acre incenso che rimane nel suo spazio esistenziale dopo aver cercato di figurarsi (a posteriori) l’avventura umana di chi sarebbe potuto essere persino un suo possibile rivale nel campo del sentimento.  Non inganni troppo la sua interrogazione secca apparentemente neutra, di quel taglio che riguarda gli strati alti del cielo sopra di noi: noi siamo fatti, all’origine, come direbbe Victoria, “del Alma y de la Sangre”...  (Victoria Ocampo, Supremacía del Alma y de la Sangre, in Sur 1935 e poi Testimonios, Sec. Serie, Bs. As., Edizioni Sur, 1941). Domandare agli uomini  ciò che solo condizioni estremamente  liminali possono consentire è tipico però di chi lavora sulla creta umana con maschere multiple ed intercambiabili di scena, facendo interrogare tutti, prossimi e lontani, sul vero volto celato oltre il dover essere ed il voler sembrare.  E’ lo stigma della “doppiavita”  che altri ed alti ingegni hanno saputo persino codificare, lungo un percorso di prova, “doppelleben” carico sempre di una responsabilità senza sconti...
vai all'articolo

  • La “cortesia” come sfida   
  • di 
  • Sandro Giovannini
  • In un mio recentissimo libro parlo, (1) abbastanza velocemente, de "L’amicizia come sfida". Ma forse avrei fatto meglio ad affrontare, assieme o al posto dell’amicizia, che nel mio caso è stata sempre molto condizionata dalle mie vocazioni comunitarie, la "cortesia"... Certo, la "cortesia" è, da una parte molto più generalmente implicante, e dall'altra però non meno legata dell'amicizia ad innegabili fattori caratteriali. Ma vorrei, riuscendo ad esprimermi con un minimo di resa, metterla anche in relazione, poi, a fattori propriamente comunitari, ovviamente nel senso interno, esistenziale del termine, restringendo al massimo quindi l'orizzonte delle sue caratteristiche e delle sue implicazioni.. Ne ho qualche diritto in base a qualche mia specifica esperienza? Coloro che mi conoscono, anche superficialmente, credo possano, tutto sommato e detratto, propendere per il sì. Non è una argomentazione di caratura filosofica, ma diciamo che serve a poter almeno affacciare un discorso, con un minimo di credibilità.   Direi quindi che mai come in questi tempi di deriva epocale, non sia giusto ed onorevole derubricare a fattore del tutto secondario, consciamente od inconsciamente, un pensiero articolato al proposito. Ma perché, oggi, la "cortesia" dovrebbe avere un posto, certamente diverso ma paragonabile, rispetto a quello che ha sempre avuto tra le menti ben coltivate del passato?
vai all'articolo
  • afghanistan

  • GLI EROI DIMENTICATI DI UNA GUERRA PERDUTA
  • Ennesima guerra vinta dai soldati e perduta dalla politica
  • di
  • Gianandrea Gaiani
  • (da: www.analisidifesa.it del 7 giugno 2021)
  • Il primo caporal maggiore Diego Magno Massotti è uno dei tanti eroi di guerra italiani dimenticati e l’ultimo in ordine di tempo a ricevere una decorazione per il suo valore. Eroi spesso tenuti lontani dalla ribalta, dalle cronache e dai comunicati ufficiali perché hanno combattuto e ucciso nemici in battaglia. Sono decine, forse centinaia i soldati italiani decorati per atti di valore ed eroismo in Afghanistan, terra da cui dopo vent’anni di impegno militare ci ritiriamo sconfitti insieme agli Stati Uniti e a tutti gli alleati della NATO. Eroi tenuti quasi nascosti dalla Patria (che hanno servito con onore e sprezzo del pericolo) come le battaglie a cui hanno partecipato, distinguendosi ma senza ottenere quella notorietà riservata ai nostri caduti, perché invece di perire sul campo hanno fatto strage di talebani. Opera certo meritoria ma forse poco confacente alle note di linguaggio delle “missioni di pace”.

 

Vai all'articolo

Cover URBS AETERNA Consolato


  • URBS  AETERNA
  • di
  • Sandro Consolato
  • (Arya Edizioni)
  • rec. di
  • Sandro Giovannini
  • Cosa si può dire di un libro del genere? Da parte mia... poi, che non sono certo al livello di poter entrare nelle segrete cose che si squadernano in questo testo con una calma apparente ma con un flusso di cascata prorompente ed inarrestabile? Eppure ne parlerò per la passione che ne sprigiona e di cui non posso che dichiararmi adepto osservatore e felice lettore... Quindi con quella irresponsabile ingenuità che presiede alle cose più amate dove risiede (lo sappiamo tutti) la nostra vita più vera... dove ci è scusato persino l’errore... se abbiamo qualche difensore non palese o persino sperato, sognato, incontrato forse alle poste più difficili della nostra vita... quelle che - superate - ci giustificano di tanti errori e di tante carenze.
    Diciamo che il testo di Sandro Consolato, come prima altri nel suo lignaggio solitario ed assieme comunitario, meriterebbe qualcosa di ben più saldo di ciò che io posso proprio dire - pur affascinato dalla pulsione inarrestabile - ... ma con una autorevolezza che vorrei essermi conquistata nel tempo e non con quel sempre presente dubbio sulla mia inadeguatezza allo specifico. E qui lo specifico s’estende per le classiche tre parti e per i tredici capitoli a cui s’aggiunge un’Appendice, complesso che pur nato in tempi e contesti diversi affluisce magicamente nell’estuario sontuoso di chi sa unire formazione profonda e mai liquidatoria e capacità illuminante di sintesi, percorribili solo da chi ha operato una scelta a viso aperto, negli anni e con una progressione inarrestabile.
Vai all'articolo
  • Conte Julius Evola copertina

  • Intervista a
  • Vitaldo Conte
  • su Julius Evola
  • a cura
  • di Roby Guerra
    A proposto dell’e-book:
  • Vitaldo Conte,  
  • Julius Evola.  Vita Arte Poesia Eros   come Pensiero e Virus
  • Tiemme Edizioni Digitali, 2021.
  • D- Il controverso Julius Evola, come evidenzi nel tuo saggio, è il principale artista dadaista italiano e non solo... In sintesi, se la sua rivalutazione è ancora ardua, quali potrebbero essere oggi le possibili insidie in Italia?
  • R-Evola, principale e autorevole artista del Dadaismo italiano, risulta oggi una connotazione non più contestabile. Questa considerazione ha determinato forse che il suo lavoro artistico raggiungesse, in recenti aste, valutazioni ragguardevoli. Ciò ha costituito un elemento indubbiamente positivo per la sua completa rivalutazione. Ma, nel contempo, noto che si sta sviluppando intorno alla sua figura un interesse non sempre determinato da competenze specifiche: sintomatico, al riguardo, l’affiorare di diversi falsi, “proposti” come sue presunte opere. È bene ricordare che Evola non ha espresso molte opere d’arte.
Vai all'articolo
  • cover Guerra

  • PSICANALISI  DEL  FUTURO 
  • di   
  • Roberto Guerra
  • On line per Tiemme Digitali (TED, a cura dello scrittore Riccardo Roversi) Psicanalisi del futuro- L'homme Machine futurista, di Roberto o Roby Guerra, futurista, una analisi non a caso del futuro alla luce della psicanalisi culturale e dell'avanguardia italiana storica e non solo del Movimento rivoluzionario di Marinetti.
  • Tranne dove indicato nei singoli capitoli, i saggi contenuti in questo tanto dissidente quanto erudito e futurista/futuribile libro risalgono, nelle loro versioni originali, al 1995 circa e/o negli anni 2009-2020, già pubblicati in opere precedenti di Roberto Guerra oppure in vari magazine e/o testate on line.   Tra i saggi attualissimo quello su Thomas Szasz, antipsichiatra e psicanalista eretico, a suo tempo, dal titolo eloquente Lo Stato terapeutico, chiaramente connesso vuoi allo scenario corrente autoritario e contaminato dal virus planetario, vuoi proprio al Futurismo come antivirus artistico di libertà...

 

Vai all'articolo
  • dal  GEORGE-KREIS    al   COLLEGE DE SOCIOLOGIE

di

Federico Gizzi


 

  • Larvatus prodeo. 
  • (Descartes, Cogitationes privatae, 1619).

  • Negli ultimi venti anni si sono moltiplicati, con esito largamente profittevole, gli studi generali e particolari riguardanti quel fenomeno che potremmo definire l’evocazione del Sacro perduto; ovvero quei tentativi pubblici e privati, svoltisi sui più vari piani, di restituire un soffio di sacralità e di trascendenza ad un mondo, quello occidentale, avvertito oramai come avviato sulla strada di una apparentemente inesorabile secolarizzazione. Notissimi sono gli studi relativi alla sacralizzazione della politica e, più in generale, riguardanti le nuove religioni politiche, del XIX e soprattutto del XX secolo[1]; meno note, ma altrettanto importanti, le ricerche svolte su cenacoli, gruppi, consorterie, lignèe, reseau, che all’interno delle stesse coordinate spazio-temporali e culturali hanno tentato, vuoi con caratteristiche più contemplative, vuoi più operative, di effettuare vere e proprie fondazioni religiose ovvero di praticare evocazioni sacrali, a vantaggio o anche a svantaggio di una civiltà avvertita come giunta ad una pienezza dei tempi che non consentiva di operare altrimenti in questi ambiti.   Il focus di questo contributo è centrato su due ambiti delimitati, il George-Kreis e il Collège de Sociologie, ormai piuttosto ben studiati e sui quali ambiti, ovvero sui protagonisti di essi, esistono diverse opere imprescindibili, alle quali si rimanda[2]; il che mi esenta dal trattarne diffusamente e generalmente.   Mi è invece sembrato più interessante trattarne a luce radente, diciamo, alcuni aspetti comparativi, marcandone differenze ed analogie, osservandone alcuni aspetti fenomenologici peculiari, e soprattutto inserendo questi ambiti, ed i loro protagonisti, nelle vicende storiche di cui, pur nella discrezione del loro essere ed operare, si sono trovati ad essere spettatori e talvolta anche attori; quell’insieme di vicende, che, tra fine del XIX secolo e metà del XX, possiamo riassumere nel termine Tramonto dell’Occidente ed ingresso (dell’Europa) nella Post-storia[3].    L’interesse per questi due ambiti, ciascuno a suo modo così elitario, è cominciato per me quando incontrai la figura del tutto eccezionale di Alfred Schuler, che potremmo definire lo psicopompo del George-Kreis[4]; di questo autore, e della sua opera principale, ho avuto modo di trattare nel n° 29 della rivista La Cittadella, dove, parlandone più diffusamente, ho abbozzato il confronto con gli ambiti propri al Collège[5]. Qui invece il baricentro della narrazione è spostato su quest’ultimo gruppo, che ho cercato di posizionare all’interno di un vastissimo insieme di relazioni palesi e segrete che segnano la storia culturale, e non solo, del Novecento europeo.    Parlare di relazioni palesi e segrete non vuol certo suggerire, gli Dei ci consentano di sfuggirne sempre, una visione volgarmente complottistica degli eventi storici; piuttosto, invitare a vedere, del tessuto storico, la trama e l’ordito. E’ stato detto che quel che spesso ci manca è una storia gnostica, che sappia leggere gli intersignes che punteggiano così di frequente, a saperli vedere, il tempo storico[6]. Questo scritto, con molta presunzione, ambirebbe anche a fornire un contributo in questa direzione.
  • Un’ultima osservazione, relativa allo stile di queste pagine; uno scrittore dei nostri tempi, Jean Parvulesco, ha sostenuto più volte con forza che i tempi presenti, e l’affrontare determinati argomenti, richiedano da parte dello scrittore l’utilizzo dello stile esaltato, l’unico atto a far emergere certi specifici contenuti. Benché non sia uno scrittore, ho tentato di praticare, in una determinata misura, la stessa scelta[7]. Se anche minimamente vi sia riuscito, questo, ovviamente, è giudizio che spetta al benevolo lettore.
  • Le note al testo, bibliografiche o meno, hanno anche il compito di riequilibrare lo scritto e ancorarlo alle modalità consuete della prosa saggistica.

 

Vai all'articolo
  • jouvence d anna scuola atene sabei harran

  • I Sabei di Harrān e la Scuola di Atene 
  • di 
  • Nuccio D'Anna
  • rec. di
  • Sandro Consolato
  • Nuccio D’Anna, le cui esplorazioni nel mondo della sapienza antica ci hanno offerto già numerosi e interessanti saggi che vanno dalla Grecia arcaica al pitagorismo romano (ma non va dimenticato il suo altro filone di studi, relativo agli aspetti esoterici del Medioevo), sul finire del 2020 ci ha regalato un libro che tratta un argomento molto poco noto anche alla maggioranza del pubblico colto, ma nello stesso tempo di grande fascino: I Sabei di Harrān e la Scuola di Atene (Jouvence, Roma 2020, pp. 212, Euro 20,00). Nel corso della lettura del testo, chiaro e coinvolgente malgrado il suo carattere erudito, alla memoria di chi scrive è ritornato un vecchio servizio giornalistico sulla famiglia libanese dei Jumblatt e sulla misteriosa minoranza etnico-religiosa cui essa appartiene, i Drusi, sparsi tra Israele, Libano e Siria (A. Van Buren, Casa Jumblatt, ne Il Venerdì di Repubblica, a. 1987, n. 29). Qui si diceva come nella religione di questa etnia, avente al suo vertice una élite esoterica, i “libri sacri, inaccessibili ai non iniziati, si concentrano sui grandi maestri del loro esoterismo: Aristotele, Platone, Socrate, Pitagora. I capi religiosi, gli sheikh, si riuniscono in sale spoglie, le khalwat, a riflettere sui testi. In breve, come piace dire ai drusi, è una ‘Grecia umanista’ in piccolo, un’agorà riservata a pochi”.
Vai all'articolo
  • casanova inglese DEFINITIVO 2

  • Tutti coloro che si trovano di fronte alla necessità di riflettere su cosa stia realmente succedendo al di là del velame spesso delle teorie, dalle cosi dette complottiste alle così dette anticomplottiste, e quindi tenersi ai fatti sempre in itinere ma ormai in sufficiente evidenza, dovrebbero comunque considerare, forse anche assieme ad altre disamine più o meno dello stesso ordine e dello stesso tono, ciò che viene detto in questo scritto. Personalmente sono sconcertato da alcune forzature su temi specifici e dalla stessa apparente cogenza dello schema proposto. Esso mi appare in primo luogo uno schema e non un metodo. Perché dico uno schema e non un metodo? Uno schema riporta ogni tassello in una concordanza ritenuta assoluta. Un metodo può anche lavorare alle concordanze sapendo quanto agisca sempre, nella storia dell’uomo, il caso, la follia, la sorpresa, l’incongruenza, il negare l’evidenza od il dargli un peso eccessivo, il trascinarsi contro ragione in scelte ormai innegabilmente fallite solo per non riconoscere l’errore, la speranza contro la realtà ed ogni accadimento passato presente o futuro dell’affidamento di branco, etc, etc... e qui senza poi necessariamente mettere in gioco istanze ben più complesse ed elevate, ma diffusamente e carnalmente concludenti, come fedi, ideologie, utopie. Lo schema anche quando è particolarmente comprensivo considera tutte le variabili, di cui sopra, sostanzialmente come già incasellate, derubricandole dalla loro incidenza potenzialmente sempre attiva. Il metodo potrebbe avere a suo favore la controllabilità statistica, che però agisce - ed in condizioni certo non sempre razionalmente ideali - sempre a posteriori, mentre lo schema si dota di una assertività che sembra basata sul posteriore (sul già accaduto) ma prospetta uno scenario che è sommamente divinatorio, in quanto rivolto a comprendere i processi in corso nell’accadere vorticoso, quindi soprattutto verso il futuro.  Detto questo, che comporta necessariamente una presa di distanza non dai fatti specifici ma dalla loro interpretazione di connessione, aumenta la non evitabilità di porci queste domande che sono inevitabilmente le più importanti del tempo presente come testimoniato dalle prorompenti serie di schemi o metodi interpretativi... i great reset, i nuovi ordini mondiali diversamente delineati, i populismi ed i sovranismi di ogni tipologia, le utopie neomassoniche, le geopolitiche spesso assurte a geofilosofie quando a non vere e proprie geo-teologie, le apofènie varie... Inoltre questo mio preambolo potrebbe sembrare del tutto ininfluente se non si ricollegasse ad un tentativo di non facile “riordino mentale” compiuto, in altro procedimento e contesto, con il mio “La fantasia del complotto” (www.heliopolisedizioni.com)...  (S. G.)

  •  

  • NEFASTI OBIETTIVI
  • di 
  • Dmitry Orlov

(da: https://comedonchisciotte.org/nefasti-obiettivi/ di martedì 27 ottobre 2020 - Fonte: cluborlov.blogspot.com - Link: http://cluborlov.blogspot.com/2020/10/nefarious-objectives.html  - 16/10/2020 - Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org)


Fate   finta   di   essere   uno   dei   geni   del   male   che   gestiscono   l’economia   mondiale. Naturalmente, il vostro desiderio sarebbe quello di continuare a gestirla in modo stabile, sicuro e redditizio, nonostante i problemi che potrebbero sorgere di tanto in tanto. Vorreste risolvere questi problemi in modo rapido ed efficiente, senza attirare alcuna indebita attenzione su voi stessi e sul vostro malvagio modo di agire. A questo punto, quali sono i principali problemi che richiedono una soluzione rapida e preventiva e come dovreste affrontarli?  

Vai all'articolo
  • 3BhuddasutigredaIstallazionecreativaVenezia1particolare

  • I “RINNEGATI DEL TERRORE”...
  • di
  • Sandro Giovannini
  • “...Questi sei anni mi hanno cambiato molto, e soprattutto avvicinato
  • molto alla letteratura, ahimè, più in particolare quella accademica.
  • Rinnegato del terrore, ci manca poco che passi alla retorica...”
  • (R. Caillois, La forza del romanzo, trad. it. Sellerio, 1980, pag. 159)

 

  • Nel mio fallito libro “La diversa avventura dell’elitismo. Borges et alii”, finito e tardivamente pubblicato, affronto gli straordinari intrecci difformi di vari elitisti.  Il testo su Borges mi era stato sollecitato da un vecchio amico, ma poi - col lavoro - s’era fatto tanto abnorme da rendere assurdo e forse risibile qualsiasi suo inserimento in una prevedibile collana... Infatti, non contento di fermarmi al solo primo intreccio, come se esso non fosse poi già praticamente inesauribile, avevo ricevuto in sogno, come spesso m’accade, il subdolo suggerimento di cercare di scoprire perché da basi autorali ben assimilabili si possa scivolare, più di quanto non si sospetti abitualmente, in esiti ferocemente discordanti. Questo perché il vero assillo di entrare dentro l’anima degli autori non si ferma certo, credo per nessuno che si possa rispettare, alla sola domanda primaria ove la risposta plausibile sarebbe il prevedibile scarto esistenziale personale, ma procede da esso a configurare una mappa relazionale delle deviazioni umorali, delle follie logiche e delle diverse ma connesse grandezze incommensurabili (appunto) dei “collegati”. Il libro, apparentemente ben sviluppato ed originale nella sua struttura, è diviso in una parte generale dove sono elencati rapporti conseguenti (visti soprattutto dall’ottica pulsionale della Victoria Ocampo) e che scorrono principalmente su Borges, quale motore immobile di tutta un’intera cultura, e poi diffusamente su Tagore, Ortega, Keyserling, Drieu, Caillois ed altre figure d’incontro e di contorno, ed in una antologica ove sono riportati passi degli autori trattati ed immediati miei puntuali commenti, quasi in dialogo continuo con le citazioni soprastanti. Quello che alla fine di un lavoro durato anni mi ha scoraggiato a pubblicare è stato l’aver mancato il bersaglio che mi ero figurato nel sogno.
  • ...
  • Avendo lucido disdoro per lo scacco di ragione, provo una tenerezza, spero comprensibile, per il frammento di ricerca e per la sottigliezza che crea pensiero. Pertanto riporto qui di seguito una sola citazione, a caso, dalla seconda parte antologica riguardante nello specifico Caillois, con il riferimento e il susseguente mio commento...)
  • ...
  • ..
  • .
Vai all'articolo
  • I LIGURI definitivo

  • I Liguri
  • Etnogenesi di un popolo
  • dalla preistoria alla conquista romana
  • di
  • Renato Del Ponte
  • Recensione a cura di
  • Daniele Verzotti
  • (ECIG, Genova,  uscita su “Letteratura-Tradizione”
  • n° XVII, Giugno 2001, “Letture”, pag.25.)

  • Ci risulta che questo libro abbia avuto una genesi più che ventennale, ma valeva la pena aspettare tanto perché esso costituisce un punto fermo, imprescindibile per ogni futuro studio sull’argomento, una sintesi di quanto pubblicato finora e soprattutto un ampliamento d’orizzonti ed un approfondimento di cose sinora non trattate.   L’autore fa ricorso al cosiddetto metodo tradizionale, sorta di metodo induttivo e comparativo che consente di superare le nostre lacune su alcune tradizioni facendo ricorso ad altre meglio conosciute; se infatti la metafisica è una, simili saranno pure i simboli che da essa promanano, per quanto lontani nel tempo e nello spazio. L’arco di tempo preso in considerazione è amplissimo e va dall’alta preistoria sino alla conquista romana e segue passo dopo passo, per quanto lo consentano le fonti, quella che, con felicissima espressione l’autore chioma “etnogenesi di un popolo”. L’argomento ci pare di grande attualità oggi che tutto rischia di andare perduto, a cominciare dalla nostra identità per cui la riscoperta e lo studio delle etnie che sono alla base della nostra storia è di una importanza vitale nel senso letterale del termine.
Vai all'articolo
  • Apollo statua crisoelefantina Delfi VI secolo aC

  • Riflessione
  • sulla
    pratica dei
    trapianti

     di
  • GIUSEPPE   GORLANI 
La pratica dei trapianti è una tra le più barbare e irrazionali conseguenze del processo di reificazione della natura, le cui scaturigini sono remote e plurime. Scrive Giovanni Sessa nel suo ottimo studio Per una filosofia del divino e dell’ordine: «Il monoteismo ebraico cristiano facendo dell’essere il totalmente altro dal mondo ha sottoposto l’uomo ai voleri di quest’ultimo e, contemporaneamente ha inteso la natura, ormai desacralizzata, come oggetto per l’uomo. Questi, attraverso la tecnica, ha reso ogni ente disponibile alla manipolazione, rendendolo mezzo-per.
 
Vai all'articolo...
  • Il presente eterno cover tavoletta Heliopolis

  • Intervista di Luigi Sgroi a Sandro Giovannini
  • su:
  • “Nel presente eterno,   la felicità delle cose.
  • VII note di Sandro Giovannini al testo
  • di Giovanni Sessa su Emo
  • Heliopolis Edizioni 2014
  • (...riportiamo questa breve intervista del 2014 in quanto crediamo che esistano
  • e si confermino ancor meglio, 
  • a distanza di qualche anno, quegli interessi sull'interpretazione di Emo,
  • perfezionata da Sessa col suo libro 'La meraviglia del Nulla'...)
  •  
  • Questa pregiata "tavoletta" in tiratura Heliopolis (200 copie numerate con copertine in nappa chiara e nera e legno traforato laser, prefazione di Romano Gasparotti) esce in contemporanea con il libro di Giovanni Sessa: “La meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo”, Bietti, Milano, 2014 e tende a rimarcarne alcuni plessi logici, in una dialettica costruttiva e serrata. Ciò fa rilevando tale lavoro organico sul filosofo veneto, condotto da Sessa con determinazione ed efficacia notevole, sia per le implicanti risonanze filosofiche di contesto storico che per l’unicità/esemplarità della cometa/chimera emiana, ricca di una forza imaginale potente che non concede nulla all’ovvietà, comunque paludata...   Poniamo allora all’autore di questo piccolo libretto filosofico alcune domande per chiederne ragione.
Vai all'articolo
  • Purusa Prakrti

  • L’ispirazione 
  • di   
  • Giuseppe Gorlani
  •  
  • I
  • L’ispirazione prospera in lande di cui si hanno mappe imprecise. Congetturare di averne tracciato coordinate sicure vota necessariamente al disinganno. Art happens.* Ciò non condanna a vagare tra brume in attesa che, per “grazia”, emerga la musa. Piuttosto è opportuno fissare la chiarità noumenica, sino al punto in cui essa, combaciando con l’Innato, permanga e illumini. Dalla soluzione alla contrapposizione, inerente il divenire, pullula poiesis. Parrebbe un’incongruenza: si comprende tanto meglio il fluire fenomenico quanto più lo si conosce nella sua parvenza.
  • ...
  • Si va allora, pur senza andare, per stradette sterrate o per stanze inalbate, con le mani simili a nubi. Si cancella con semplici passi la pretesa di assolutizzare la distanza. I passi sono rosari: ripropongono l’eterno qui. Nessun “là” sarà mai raggiunto. Lo dimostrò in modo eccellente Zenone d’Elea: ogni mèta ipotetica sempre rimarrà irraggiungibile, poiché se ne dovrà toccare innanzitutto la metà della metà della metà, in una regressione ad infinitum.   Risulterebbe quindi che la distanza e la molteplicità siano convenzioni tramite le quali l’Ineffabile appare ridursi all’interno di un linguaggio. Parole a fior d’acqua. Da una simile infatuazione ci si può emancipare mirandola attentamente sino alla sua scomparsa.   Oltre la tradizione scritta, c’è quella orale e oltre questa c’è il sedersi, deporre le dottrine, svelare l’identità. Le varie forme del tradere sono propizie, purché le si accolga con intelligenza. Subire invece l’ignoranza che produce reiterati affanni, incolpando il destino o altro, è opzione deprecabile: equivale a tentare di placare la disperazione, alimentandola. Eppure, nel dire “vivo” ci si riferisce spesso a tale dissennatezza.  L’animalità affascina; travolti da cupio dissolvi, nell’Evo ultimo molti rinunciano alle attitudini contemplative e persino a quelle razionali. La degradazione nell’insignificanza viene elevata a valore, il flatus vocis predomina su tutto. Il burattino, lo schiavo sono terrorizzati dalla facoltà di mettere a nudo la propria futilità con adeguate riflessioni; trascorrono i giorni ad enumerare pene o, all’estremo opposto, a commentare il piacere derivante dal sottostare alla menzogna; detestano la quiete lucida, autosufficiente, fondata sulla vigilanza della coscienza, la sinderesi.   Miseria e nobiltà dimorano in ciascun uomo; la prima è pesantezza, la seconda leggerezza. Fretta, ansia, paura sovraccaricano e disancorano dalla Presenza. La levità — in fin dei conti non avversa alla gravitas che Cicerone, in riferimento a Platone, associa alla suavitate — favorisce l’ispirazione, permette il camminare a piedi scalzi in montagna, trasforma spartiacque affilati in comodi sentieri. Consente altresì di attingere alla regalità umana originaria — simboleggiata dal Purusha — includente bestie, alberi, continenti, mari. Essa non va qui intesa nei significati di incostanza, trascuratezza o volubilità, bensì come scioltezza, mobilità, prontezza nell’aderire alla realtà, invulnerabilità.   Cinquemila parole porse Lao Tse a Yin Hsi, custode montano che esigeva da lui un pedaggio. Tra esse: «Il difficile imprendi nel suo facile / ed adopera il grave nel suo lieve».** «[…] soltanto la leggerezza - commenta Italo Calvino - può dar conto delle segrete connessioni che gravano sul fondo».***
  • ...
  • Quali epigoni di Borges non desiderebbero — abbandonata la logica lineare — scrutare nelle pupille orbate di Omero, scandagliando un diverso vedere, o aleggiare nel cuore di Virgilio, nemico dei superbi, o penetrare la vis romano–italica nel Petrarca, di là dal suo habitus cristiano, pur autentico? Certo costoro dovrebbero maturare una particolare sottigliezza, tenendosi pronti a pagarne lo scotto, ovvero a contenere la vertigine, quasi fossero tra quegli asceti (lung–gom–pa) osservati dalla coraggiosa David-Neel in Tibet, i quali, con lo sguardo fisso sulla volta stellata, attraversavano altopiani a velocità sostenuta, gravati da catene: talari all’inverso moderanti gli effetti di intense pratiche ascetiche.  

  • II
  •  
  • L’ispirazione è terra sulla quale il purohita, memore del grido primordiale, misura l’uscir fuori dall’Essere e il redire in esso, è cielo in cui il respiro attinge all’illimitato. Utilizza ossa, sbarre, reti pur di ammaestrare l’inerzia. È fonte purificatrice, fuoco risoluto, turbine, valanga. Darle spazio nel prosaico evoca la palingenesi.  Non vi è alcun “punto” individuabile nell’esistenza su cui poggiarsi per sceverare passato, presente, futuro. Mentre la speculazione teoretica pretende di circoscriverlo, è già svanito o ancora da venire.   All’interno dell’unanime sogno condiviso, si ritiene lecito dichiarare come dal passato scaturisca il presente; sempre entro i confini dello stesso sogno, in angoli meno frequentati, altri lo dichiarano proveniente dal futuro.   Non ci si bagna due volte nello stesso fiume; così l’Oscuro d’Efeso. Hermes, il possessore del caduceo, il tre volte oscuro - coincidente col luminoso - potrebbe replicare: nemmeno una volta. Ci si bagna sempre, non ci si bagna mai. Il presente è la stanza azzurrata, il braccio aggrappato ad un noce, i suoni impalpabili: mostra teorie indefinite di morti, trapassa da nido a nido, crocifigge la totalità nel pranava, la sillaba immobile, assoluta.Il fanciullo–cammelliere spuntato dal fogliame attorno al caravanserraglio chiede: l’ispirazione discende dall’Anima Mundi, oppure dall’Inafferrabile che la sostiene e la trascende ad un tempo? Non so, risponde uno; so, dice un secondo ed enuncia con competenza la cosmogonia tradizionale. Entrambi proclamano il vero, scrutandolo da prospettive disuguali. Qualcuno rimugina perplesso. Il giovane li ignora tutti e volge l’attenzione a un viandante discosto; questi tace mentre parla e scrive o, viceversa, parla mentre tace. Si direbbe indistinguibile dal Dao che, da nulla mosso, muove le diecimila ombre.   Il paradosso illuminativo non richiede giustificazioni, né sforzi per essere dimostrato. Concede libertà. Soffia via la paura. Sprigiona i pavoni dorati al servizio dell’ispirazione. Trabocca dall’orlo di tutte le notti. Morde, fugge. Catturato dallo zelante amanuense, svanisce poi attraverso il legno tarlato nel soffitto. Ripresenta all’infinito l’in Sé in forme irripetibili. Soprattutto sorride. Inspiegabilmente.

  • III
  •  
  • I modi onde principiare valgono quali astrazioni fittizie; se indagati con rigore conducono alla paralisi del giudizio. Gli Scettici ne erano consapevoli; gli stolti vi edificano sopra strutture fatiscenti e le chiamano “scienze esatte”. Lo scientismo è dunque una religione surrettizia, contraria a quelle radicate nelle rivelazioni sovrarazionali. Purtroppo anche tra queste troneggia la follia, quando sorge la pretesa di monopolizzare la Realtà.   L’ispirazione prospera nelle Scritture, nelle epopee immortali, satura la grotta vuota affacciata sul torrente himalayano. Alzare le braccia, spargere polline, assimilare asana, combattere ed uccidere se stessi nel prossimo per necessità, amministrare la giustizia, reintegrare nella fiducia l’assassino morto alla propria tracotanza: sono azioni nobili, tra loro complementari, impotenti tuttavia a superare le fiamme al cui interno giace la cetra ambita.   Qualora servisse delineare un parametro a fondamento delle teleologie cui gli uomini si rivolgono al fine di trarne conforto, ci si dovrebbe preoccupare almeno di verificarne la cantabilità, posta al docile servizio dell’ispirazione. Le figlie di Mnemosine non vanno disgiunte da Atena. Dove le antitesi convergono si aprono porte su recessi nascosti, palesando sorgenti dalle quali balzano fiumi maestosi. Immergersi in essi può risvegliare gioia e forza inesauribili, altrimenti abbattere, incupire; in questo caso predomina la desolazione. E così sia. Inutile intonare lamenti a mo’ di patetiche cantafere: el hàbito miserable del llanto.**** La peggiore angoscia vale quanto un’ape posata sull’acqua. A differenza delle vespe, le api sull’acqua si agitano e annegano.   Levità graziosa, anzi, bellissima, severa e serena ad un tempo, che i cirri adesso assaporano, deh non abbandonare il filosofo–devoto ai patî soffocati da rovine, alle sterili contumelie, ai discorsi inacerbiti, trasfigura piuttosto gli orridi e colmali, ispira il letterato a stilare parole rasserenanti o il vecchio seduto ad una panchina a considerare shunyata alla guisa di un epiteto divino.   Agli inizi dell’autunno abbondanti noci cadranno; se ne sfameranno uomini, insetti e scoiattoli. Avranno i loro suoni appropriati: placidi battiti nel chiarore lunare. All’arrivo della pioggia ogni fermento si acqueterà. Sospendendo il fiato, Vallonia, signora delle valli, affacciata ad un alto cerro, approverà.   È fausto rammentarlo: ci si può sottrarre alla “strategia del caos” perfezionata dal genio a rebours contemporaneo. Esplosioni con schegge impazzite dilaniano la carne, strappano occhi e labbra. Pazzi, orientali e occidentali, offuscati dall’egoismo, torturano e diffondono il terrore. Ma, pabula laeta, le pietre bianche proteggono, le conche verdi curano, le mucche lasciate finalmente libere sostentano e fertilizzano. I cancelli del Paradesha, il Paese supremo, restano spalancati.
  • Qualsiasi viaggio inizia e termina nel medesimo istante. Che cosa c’è in mezzo? L’Aleph, il Pranava, Buddhata, il Brahman, l’Uno–Uno, il Pantocratore? La rosa risorta dalla cenere che Paracelso non mostrò a Johannes Grisebach? O la rosa “senza perché” di Silesius?   È bene svegliarsi avanti l’alba per imprimere nel giorno imminente lo stigma della comprensione, armarsi di leggerezza, ardere nell’ispirazione, sacrificare.

  • Note:
  • * James Whistler
  • ** La Regola Celeste di Lao-Tse, 63 – 7,8, a c. di Alberto Castellani, Fi 1954.
  • *** Cit. in Lao-Tse, Il libro della saggezza, a c. di Paolo Ruffilli, Mi 2004.
  • **** Jorge Luis Borges, Fragmentos de un Evangelio apocrifo, 4.



 

  • Polyhymnia Centrale Montemartini Roma

  • Potrebbe sembrare del tutto inutile, per pensanti come noi che son sempre vissuti dalla “parte perdente” ma con il massimo praticabile di onestà e libertà mentale, disquisire sul manifesto dei 150 intellettuali (segue) che dall’America rumorosamente giunge abbastanza inascoltato in Europa. Eppure dovremmo comunque prendere atto che il golem creato dal liberalismo di risulta, come da destino, ormai insolentisce e preoccupa grandemente i suoi oggettivi padrini, che non trovano di meglio, per stornarne la storica responsabilità oggettiva, che blaterare, senza capo né coda, di reazionarismo. E’ operante, in definitiva, una sconnessa ed accelerata meccanica dell’azione-reazione ed i prepotenti storici alla fine sono sempre superati a sinistra/destra da altri oggi ancor più eterodiretti e stupidi di quanto non lo fossero loro quando s’illudevano, con tutte le loro aperture da cittadini onorari della sodoma-gomorra globalista, di creare un’arcadia dei buoni-giusti. Potremmo riderci sopra amaramente se, a conti fatti, “tutti” non divenissimo ancor più in pericolo di quanto saremmo stati se tale deviata koinè degli aperturisti in spe non avesse marciato, ai suoi tempi beceramente urlante, ed ora travolta e sbigottita, verso questa deriva di feroce imbecillità...
  • (Sandro Giovannini)
  •  

 

Vai all'articolo
  • F. la Patria 1

  • ANNO  ZERO.  GLI  ICONOCLASTI  E  GLI  OIKOFOBI
  • di
  • Andrea Marcigliano
  • (da https://www.electoradio.com/mag/lifestyle/anno-zero-gli-iconoclasti-gli-oikofobi di martedì 16 giugno 2020)
  • Tutti parlano di iconoclasti. Termine improvvisamente entrato nel lessico comune, in questo strano Anno Zero della pandemia, il 2020 dell’era volgare, l’anno del virus sino ad oggi, e della quarantena… ora anche, però, della distruzione delle immagini… Perché proprio questo significa iconoclastia: distruzione delle icone. Ovvero delle immagini.  E fu un’eresia, bizantina. Una di quelle importanti. Sorta fra l’VIII e il IX secolo, in opposizione all’icondulia. Il culto delle icone. Tutt’ora fondamentale nelle Chiese Orientali. E che sino al Vaticano II ebbe un ruolo non secondario anche nella tradizione cattolica.  Gli iconoclasti le immagini le distruggevano. Considerandole forme di idolatria pagana. Consonando, in questo, con i musulmani. Tant’è che Dante, seguendo i padri orientali, considera Maometto il più grande scismatico di tutti i tempi. E quindi l’Islam una frattura del Cristianesimo… Ma questa è altra storia…  E poi non mi va di finire sempre con il fare il professore.

 

Vai all'articolo
  • Il tempio interiore

  • Ri – orientamenti occidentali
  • Il malinteso spiritualista
  • di
  • Luigi Sgroi
  • Ha da poco passato il secolo il momento storico da cui è partito un nuovo crescente interesse per l’Oriente da parte del laico Occidente.   Fu infatti verso la fine del IXX secolo che dall’America, al “Parlamento delle Religioni “ di Chicago, partì quello slancio di nuovo interesse verso le religioni orientali che, da lì a qualche decennio, sarebbe divenuto prima un orientamento (teosofismo, antroposofia, interesse per i fenomeni psichici), poi un “must” strumento di fuga dalla religione cattolica (movimenti “on the road”, cultura “pop”, “new-age”) e infine una moda, una sorta di prodotto da centro commerciale della spiritualità (dalla fiera del biologico, allo zen contro lo stress) .
Vai all'articolo
  • Copertina ANIMA SPADA ANIMA LIBRO

  • Il Prof. Marco Giaconi e Pio Filippani Ronconi
  • di
  • Federico Prizzi
  • Mi ha fatto molto piacere leggere l’intervista al Prof. Marco Giaconi sul sito Pangea. Ringrazio il Prof. Giaconi non solamente per i contenuti, ma perchè l’avventura editoriale, che vide la mia collaborazione con due amici fraterni: Sandro Giovannini ed Emilio Del Bel Belluz, è stata ricordata. Mi riferisco al libro Anima-spada, anima-libro - la vita dialogante di Pio Filippani Ronconi pubblicato nel 2010. Esso rappresentò il primo volume di una collana letteraria della Novantico Editrice, da me curata, intitolata Laurus. Una collana che raccolse una serie di testi dedicati a uomini che nella loro vita avevano vissuto appieno sia l’esperienza militare, soprattutto di tipo bellico, che quella letteraria. Uomini la cui anima era stata appunto forgiata dalla spada e dalla penna. Per questo fu scelto di chiamarla laurus. Perchè, oltre a essere il lauro il simbolo della vittoria e del prestigio letterario, è anche quello del rinnovamento della vita e dell’immortalità. Una pianta solare, il cui simbolo profondo era, ed è, quello di lotta contro l’oblio.  Attraverso la lettura di questi libri, infatti, volevamo invitare i lettori ad abbeverarsi con noi alla fonte della Mnemosine, della Memoria. Questo perché anche nella crisi indotta dalla modernità, occorre fissare sempre il nostro sguardo su quanto ci è stato tramandato, cogliendo quelle epifanie storiche e letterarie tradizionali che possano illuminarci e anche consolarci, nel nostro quotidiano. Ciò certamente, non per cercare uno sterile revanchismo o per farci eludere o ignorare la Crisi che attanaglia la nostra società. Bensì, come atto di speranza.  Infatti, mangiando anche noi le foglie di lauro, come la Pizia dell’oracolo di Delfi, potremo intravedere il futuro, vivendo però il presente con una consapevolezza diversa da quella dell’uomo comune. Ridaremo così fuoco alla musica originaria, ma ri-esprimendola secondo quell’esperienza del Sacro che noi oggi possiamo comunque ancora vivere. Sono, inoltre, profondamente grato a Sandro Giovannini per avermi dato ancora una volta spazio attraverso la pubblicazione di questo breve scritto sul sito delle Heliopolis Edizioni. Sandro è sicuramente uno dei più raffinati e poliedrici intellettuali del pensiero Tradizionale italiano. Artista colto e pragmatico, la cui modestia e generosità, come ricordai nella mia prefazione al libro, “si evince anche dalla sua, purtroppo, ferrea volontà di non prefarre questo libro, ma di esserne semplicemente uno dei tanti autori”. Questa volontà, e chi conosce Sandro lo sa bene, scaturisce da una profonda fedeltà a una idea, a una sua personale visione del mondo e della vita. Una visione superpersonale e impersonale che caratterizzò anche Letteratura-Tradizione, la straordinaria rivista creata da Sandro. La quale è sempre stata caratterizzata da uno spirito compartecipato, dove si incontravano scritti e opinioni diverse, spesso opposte. Una pluralità di espressioni, di idee e di studi, che non ha mai avuto paragoni in nessun altra rivista letteraria italiana, soprattutto se dedicata alle Scienze Tradizionali. Ciò lo dimostrò anche con il metodo rivoluzionario della continua rotazione dei direttori letterari. Rotazione che aveva proprio l’intento di osservare la Tradizione da punti di vista sempre nuovi e mai uguali a se stessi. Pertanto, a questo metodo unico nel suo genere, non poteva collaborare che uno spirito rivoluzionario come Pio Filippani Ronconi. Il quale ne curò gli speciali in due numeri: il n.6 “Mito - Fiaba - Tradizione” (Aprile 1999) e il n.7 “La ventura del Guerriero” (Luglio 1999). Speciali, che furono interamente riprodotti nel libro-testimonianza Anima-Spada - anima-libro, la vita dialogante di Pio Filippani Ronconi a perenne memoria per le generazioni future.
  •  

 

Vai all'articolo
  • Straw dogs

  • Apocalisse minore
  • di
  • Biagio Luparella
  • Accadde una di quelle notti da non poterne più.
  • In fuga dai deliri dell’imperante Demenza, già sfuggito alla ragnatela dei mille insulsi doveri, appena ero uscito dalla gora dei mille accadimenti ronzanti come grasse mosche sui cadaveri dei giorni, appena ero scampato alle lusinghe, agli agguati, alle piacevolezze della confortevole dilagata vuotaggine……..quella notte dunque, sotto casa, - in quella piazza, ignara, quando venne spianata alquanti secoli fa, di dover diventare un giorno ritrovo di tutti i dannati al divertimento obbligatorio, - orde di tatuati, persingati, drogati, invasati, torme di chiapputi vaginanti e mentulanti di tutti e cinque i sessi, con le loro urla di gioia strafatta, e gridolini e risate e musicaccia aggiunta allo strepito di moto, di risse e di variopinte sguaiataggini, (non bastava lo starnazzare dei televisori accesi dai condomini di tutti i piani di quell’enorme termitaio dove, necessità e insuccessi di varia natura, mi avevano costretto ad abitarvi,) quelle orde dunque si erano date convegno appena sotto le mie finestre in un tumulto di richiami di voci di alterchi cui da più tempo si dava il poetico nome di “notti bianche”.

 

Vai all'articolo
  • Ninfe finalissimo ELOGICON

  • Le
  • Ninfe
  • di
  • Mario Bernardi Guardi
  • Fascinose divinità ad alto tasso erotico, le Ninfe godono nella tradizione classica di uno “status” di tutto rispetto. Innanzitutto queste fanciulle graziose e maliziose abitano un po’ dappertutto: le Oreadi nei boschi montani, le Amadriadi dentro gli alberi, le Naiadi nei corsi d’acqua dolce, le Pegee nelle sorgenti, le Nereidi nelle profondità marine, le Pleiadi nel vasto azzurro del cielo. E cosa fanno le Ninfe? Intrecciano danze agitando i loro bianchi veli, giocano piacevolmente ebbre di vita, corrono libere e felici, inseguite dai Satiri, debitamente sedotti e abbandonati a una terribile furia d’amore. Perché le Ninfe ci tengono alla loro libertà e alla loro inafferrabilità: vogliono piacere e non disdegnano accoppiamenti, ma nessun legame, per carità, con maschi prepotenti vogliosi di sottometterle. E destinati allo smacco: perché la Ninfa è una creatura in perpetua fuga, che, dopo aver trascinato gli ammaliati inseguitori in una vertigine, se la ride della loro gelosia sessuale e li lascia bruciare nell’inferno dell’ossessione.
Vai all'articolo
  • ISR54311

  • Armageddon, determinismo e rabbia
  • di
  • Gordon Duff
  •  (da:  “New Eastern Outlook  del 17.02.20)
  • Gli analisti applicano le teorie per interpretare gli eventi, prevedere, influenzare e persino avvertire. Dietro questo c'è il “determinismo”, la teoria secondo cui tutti gli eventi sono inesorabili, ovvero risultato di cause indipendenti dalla razionalità umana.  I deterministi dominano il nostro secolo, ci crogioliamo nella loro arroganza e ignoranza. Quando le loro teorie sono fallimentari ecco trasformarle tramite un nuovo algoritmo applicato a dati falsi e la conseguenza catastrofica, sebbene inesorabile per il razionalista, scompare nella susseguente teoria deterministica, quella del negazionismo.

 

Vai all'articolo
  • Men at som times

  • FUMO DI LONDRA
  • Del neofascismo invertito, affascinato da Londra
  • e ossessionatamente contro l’Europa
  • di
  • Gabriele Adinolfi
  • (da http://www.noreporter.org/index.php/alterview/26346-fumo-di-londra
  • di lunedì 03 febbraio 2020)

  • L’Italia soffre di provincialismo e di complessi d’inferiorità, in particolare nei riguardi degli inglesi. Un sentimento che in passato ha animato a lungo i parvenus e gli invidiosi sociali (le aristocrazie, comunque esterofile, erano invece francofone e filotedesche). Gli inglesi la nostra ammirazione beota se la sono comunque meritata. Sono sempre stati coraggiosi e tenaci. Le loro élites hanno saputo riunire il cinismo, la slealtà, la pirateria, il disprezzo nei confronti di tutti gli altri, una tendenza spiccata alle perversioni (anche nella tortura) con la flemma, il distacco, l’introversione, la sopportazione silente e, soprattutto, l’ironia. Vincono spesso e, soprattutto, sanno perdere. Senza frignare o cercare l’altrui commiserazione, come invece facciamo noi.

 

Vai all'articolo
  • 2019 10 12 syria
  • “L’EUROPA PRINCIPALE ATTORE NEL CAOS CREATO IN SIRIA”.
  • ECCO L’INTERVISTA INTEGRALE CHE LA RAI NON HA VOLUTO TRASMETTERE.
  • di Antonio De Martini
  • (da: https://comedonchisciotte.org/video martedì 10 dicembre 2019)
  • Per nove anni e mezzo i media italiani non hanno dato la parola a uno dei protagonisti della guerra di Siria, il paese che è l’ombelico della nostra civiltà. Ci hanno fatto assistere in silenzio al massacro di mezzo milione di esseri umani e hanno trasformato in profughi indesiderati sei milioni di persone, rifiutando loro persino il diritto di asilo che è il primo pilastro della umana convivenza fin dal principio del mondo. La Rai ha osato dichiarare che non mandava in onda questo “scoop” giornalistico di prim’ordine “perché non era stato richiesto da nessuno” aggiungendo alla complicità in sterminio la vergogna professionale. Il tono, gli accenti di sincerità del presidente Assad fanno paura, specie se confrontati con l’alterigia dei suoi falliti assassini. Diffondetela voi cittadini questa video-intervista e mostrate che non tutti in Italia sono servi striscianti del potere che credevamo di soli ladri e che è invece anche complice di assassini.
  • Di seguito è riportato il testo completo dell’intervista realizzata dalla giornalista Rai
  • Monica Maggioni
  • https://www.youtube.com/watch?v=8qEiB6LLPl8&feature=emb_logo
  •  
  • Domanda 1:  
  • Signor Presidente, grazie per averci concesso l’intervista. Ci dica per favore, qual è la situazione in Siria ora, qual è la situazione sul campo, cosa sta succedendo nel paese?
  • Presidente Assad:    
  • Se vogliamo parlare della società siriana: la situazione è molto, molto migliorata, poiché abbiamo imparato tante lezioni da questa guerra e penso che il futuro della Siria sia promettente; usciremo da questa guerra più forti. Parlando della situazione sul campo, l’esercito siriano ha fatto progressi negli ultimi anni e ha liberato molte aree dai terroristi, rimangono ancora attive aree dove c’è al-Nusra che è supportato dai turchi e il nord della Siria dove i turchi hanno invaso il nostro territorio il mese scorso. Quindi, per quanto riguarda la situazione politica, posso dire che sta diventando molto più complicata, perché ci sono molti più giocatori coinvolti nel conflitto siriano per trasformarlo in una guerra di logoramento.

 

Vai all'articolo
  • In iang Giano bifr

  • Paideia negativa - III  
  • di  
  • Sandro Giovannini
  • La “paideia positiva”, quella che si pone correttamente sul piano della propria verità, coglie  totalitariamente ogni aspetto dell’umano comportamento, non potendo lasciare ad altro nessuno spiraglio di valore che possa essergli rivolto contro, come un’esiziale falla nello schieramento esistenziale. Corrispondono a questa logica sia i consapevoli che gli inconsapevoli dell’ordine di battaglia, che più di un gioco e più di una metafora, corrisponde alla postura vitale, dalla cellula, all’organismo più complesso. In più l’uomo con la sua frontalità, la sua visione binoculare ed il suo auto-focus, è indiscutibilmente un predatore. Così, tendere all’affermazione ed alla riproduzione, qualsiasi sia il rischio implicato nel processo, è più di una tensione continua, è la ragione prima ed ultima del venire a vita. Persino per coloro che guardano in faccia la verità senza schermi o velature - quindi senza illusioni di sorta, che provengano dall’esterno o dall’interno - si pongono ben poche alternative se non decisioni affermative indipendenti - in realtà - da giustificazioni etico-umanistiche   (…anche perché coloro che le utilizzano a iosa sono il più delle volte falsi e ipocriti), cosa che riporta al tema dominante (1)

Vai all'articolo
  • Assad tra i suoi soldati

  • La somma di tutte le paure di Washington:
  • i militanti curdi in accordo con Damasco
  • di
    Patrick Henningsen
  • (da: 21st Century Wire  14 ottobre 2019)
  • Ieri sera, i funzionari curdi nella Siria nord-orientale hanno rilasciato una dichiarazione secondo cui è stato raggiunto un accordo con il governo di Damasco che consente all'esercito arabo siriano (SAA) di assumere posizioni strategiche chiave lungo il confine settentrionale della Siria con la Turchia.
  • Non sorprende che esultino da Damasco a Mosca, e anche a Teheran, lanciando visibili gemiti di politica estera a Washington. La realtà della situazione è che la Turchia si è fatta prendere in una trappola creata da Damasco e dai suoi alleati. In tal modo, la Turchia ha contribuito a chiarire quella che in precedenza era una situazione quasi impossibile (da districare) per Damasco. Mentre gran parte dei media occidentali ha lavorato alla "decisione di Trump" di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria, ci sono altri fattori che hanno guidato la situazione attuale. Se si monitorasse la stampa turca negli ultimi anni, si saprebbe che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è stato ansioso di accendere la sua base dell'AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) a casa e proiettare energia neo-ottomana a livello regionale, quindi quest'ultima incursione turca in Siria può essere vista come una ripresa della "Nuova Turchia" e la graduale trasformazione tramite l'AKP della Turchia da uno stato kemalista secolare a uno islamico. Questa graduale rivoluzione non è però confinata all'interno dei confini della Turchia, poiché spera di estendere il suo progetto micro-coloniale di Sunnification includente le aree in questione situate all'interno e lungo il confine settentrionale della Siria con la Turchia. Quindi, Ankara ha trasferito le sue forze nel territorio siriano per la terza volta in altrettanti anni, questa volta soprannominandola "Operazione Pace Primavera", con Erdogan che giustifica la mossa sotto l'egida della "lotta al terrorismo", giurando ancora una volta di garantire la sicurezza nazionale eliminando la "minaccia terroristica" curda dell'YPG-PKK (Curdi) incorporata nella Siria settentrionale. Potrebbe aver ottenuto un discreto successo in questo settore, ma non nel modo in cui la maggior parte degli esperti tradizionali pensa. Forse inconsapevolmente (o forse no), la Turchia ha aiutato a risolvere almeno tre problemi separati che erano stati solo sfiorati a Damasco e Mosca, almeno dagli ultimi tre anni. In primo luogo, l'incursione turca ha finalmente fatto spostare le forze militari statunitensi non invitate che avevano iniziato a occupare illegalmente la Siria nord-orientale dalla fine del 2016, sostenendo in modo efficace i loro militanti proxies guidati dai curdi ovvero le SDF (Syrian Democratic Forces), all'interno delle quali molti militanti condividono l'adesione con l'YPG/PKK curdo.  Questo fine settimana ha dimostrato al mondo che senza la protezione americana, le forze guidate dai curdi non sono così vitali come sono state sempre descritte dai media occidentali, essendo ora esposte alla dolorosa realtà che il loro status "autonomo" nella Siria nord-orientale è in prestito e che quindi gli conviuene rinominarsi nell'Esercito Nazionale Siriano.  Le forze curde siriane, pressate dai turchi e dalle loro milizie, non avevano altra scelta che avvicinarsi a Damasco per negoziare un'alleanza. Questo accordo è stato siglato questo fine settimana, con l'ASA che ora infatti si sta dirigendo verso le principali città nel nord-est della Siria, tra cui uno dei centri di combattimento - la città di confine siriana di Kobani, fortemente contesa. 
  • Questa nuova realtà significa anche che i militari turchi, probabilmente, non faranno volontariamente fuoco contro le forze del SAA all'interno del territorio sovrano siriano, anche se invece le milizie jihadiste della FSA/SNA, proxies della Turchia, potrebbero impegnarsi contro l'antico nemico. Quelle probabili scaramucce secondarie prolungherebbero certamente l'instabilità, ma non sono così insormontabili quanto le truppe statunitensi trincerate nell'area.  I rapporti mostrano che l'arrivo dell'ASA in queste aree è stato accolto con applausi dalla folla - cosa che è un vero disastro di pubbliche relazioni per Washington e il suo progetto di costruzione della nazione "Rojava" curda nella Siria settentrionale.  Infine, oltre a proteggere i suoi principali valichi di frontiera a nord, Damasco ora si avvicina ancora di più al potenziale recupero dei suoi giacimenti di petrolio e gas situati a nord del fiume Eufrate vicino alla città di Deir Ezor, e che sono stati continuamente occupati rispettivamente dalle forze ISIS e SDF dal 2014. La liberazione del proprio approvvigionamento energetico interno contribuirebbe notevolmente ad aiutare Damasco a mitigare alcune delle sofferenze economiche subite a seguito dell'imposizione di sanzioni congiunte UE-USA, un embargo punitivo progettato dalle potenze occidentali per strangolare il paese e fomentare al massimo i disordini domestici. La richiesta di protezione curda a Damasco si staglia anche contro i tanti anni di propaganda occidentale, che ha sempre cercato di giustificare la politica di Washington d'occupazione militare e di costruzione della nazione "Rojava", cercando di convincere il mondo che il governo siriano era sgradito nella regione nord-orientale del suo stesso paese, e che l'indipendenza curda era un fatto compiuto
    Inoltre, Damasco è un passo avanti verso la protezione di tratti precedentemente vulnerabili del confine orientale con l'Iraq, che gli Stati Uniti stavano in precedenza "gestendo" e che ha permesso all'ISIS di spostarsi e utilizzare come terreno di sosta per attacchi più lontani in aree come Sweida e Al Tanf. Se si potesse raggiungere un accordo definitivo di mutua sicurezza tra Siria e Iraq per garantire il confine condiviso, ciò potrebbe potenzialmente rivoluzionare gli affari politici ed economici nella regione e persino a livello globale. Se questi eventi dovessero accadere, sarebbe una sconfitta completa per decenni di sforzi guidati da Washington nella regione. Insieme ai suoi alleati, gli Stati Uniti hanno lavorato a lungo e duramente per mantenere instabile e divisa questa parte del Medio Oriente. Fu in questo ambiente di destabilizzazione guidato dagli USA, dai sauditi ed israeliani che sia i terroristi di al Qaeda sia quelli dell'ISIS furono in grado di emergere e prosperare per così tanto tempo. Gli avversari dei terroristi islamici dovrebbero rimanere vigili anche se, come dimostra la storia, sia Washington che Israele non stanno che provocando instabilità al fine di raggiungere comunque i loro obiettivi condivisi a breve e lungo termine per la regione. Indipendentemente da ciò, la linea è ormai stata ribaltata in Siria. Incapaci sia di detenere il territorio sia di tenere in custodia migliaia di prigionieri dell'ISIS, le milizie SDF sostenute dagli USA sono state esposte come ultime di una lunga stirpe di sfortunate pedine di Washington nel Grande Gioco. Una volta che le nuove posizioni sul terreno saranno assicurate dalle forze dell'ASA, Damasco potrebbe invitare il supporto aereo russo a proteggere questo spazio aereo, un risultato che potrebbe significare solo che i giorni dei terroristi sarebbero definitivamente contati in futuro. Eventuali rimanenti brigate terroristiche dell'ISIS o di Al Qaeda attive nel nord dell'Eufrate avrebbero poche vie di fuga rimanenti, oltre a nord per cercare rifugio nelle varie enclavi terroristiche permesse dall'AKP situate al di là del confine nella Turchia meridionale. Come ho affermato  all'inizio del 2018, la danza curdo-americana nella Siria nord-orientale era sempre un gioco di sedie musicali e prima o poi qualcuno doveva andarsene. E quel qualcuno è gli Stati Uniti, subito seguito dall'ISIS.  Come già affermato dal presidente Bashar al-Assad, la Siria è determinata a rivendicare "ogni centimetro" del suo territorio. Quindi potrebbe essere opportuno che le potenze occidentali non sottostimino la volontà e la determinazione di un paese e di un esercito che hanno resistito per otto anni a una guerra di cambio di regime pienamente internazionalizzata.

(Patrick Henningsen è uno scrittore americano e analista di affari globali e fondatore del sito indipendente di notizie e analisi 21st Century Wire, ed è conduttore del programma radiofonico settimanale SUNDAY WIRE trasmesso in tutto il mondo tramite la rete alternata di radio (ACR).  Ha scritto per una serie di pubblicazioni internazionali e ha realizzato numerose relazioni sul campo in Medio Oriente,incluso il lavoro in Siria e Iraq).



 


 

  • Immagine MUTA

  • …Nel 2015 l’Heliopolis
  • si è cimentata in una piccola impresa per il suo statuto ormai amatoriale…
  • Infatti commercialmente era in ritirata almeno dal 2005 data dell’ultima
  • convinta partecipazionee al ‘Salone del libro di Torino’,
  • quindi, dal 1985, erano stati più di 30 anni di onesto lavoro in faccia al mondo…
  • Ma questa era un’indagine che partiva dall’illusione
  • di poter sottoporre - ora possiamo ben dirlo - con una notevole sfacciataggine,
  • all’universo dei nostri accademici e pensanti vari, una domanda:
  • “Non aver paura di dire”…
  • Era una sfida che faceva riferimento ad un lavoro ormai tipicizzato
  • su “libri-idea
  • (…non s’ironizzi troppo facilmente sull’apparente ovvietà dell’endiadi,
  • considerando proposizione, acquisizione e svolgimento comunitario del metodo scelto),
  • pratica ormai già ben avviata
  • (coinvolgendo poi anche altre realtà editoriali)
  • principalmente dopo tre testi come il
  • “Manifesto per una Nuova Oggettività”,
  • “Al di là della destra e della sinistra”,
  • “Per quale motivo Israele…?”
  • ed altri ancora
  • su Pierre Pascal, su Filippani Ronconi e su Andrea Emo
  • La novità assoluta però era che ci si rivolgeva non più a dei “richiesti prevedibili”
  • ma si allargava l’indagine a 360°.
  • Cosa anche ben criticabile, per merito e metodo.
  • Ora, sarebbe un poco nostalgico se tentassimo di ripercorrere quel grande sforzo fatto
  • per poi ottenere 130 paginette, apparentemente facili e nello stesso tempo inattese,
  • se non nutrissimo ancora un possibile nuovo progetto
  • da confrontarsi (necessariamente) con quello.
  • Diversamente e consapevolmente.
  • Per farlo ripercorro, ora a titolo strettamente personale, quell’esito
  • della tavoletta Heliopolis del 2015
  • e spero che questa lettura possa essere di piccolo supporto almeno
  • a coloro che vorrano ancora risponderci positivamente in un prossimo futuro
  • sull’ipotesi scrittoria che assieme, a breve,
  • nuovamente decideremo…
  • (S.G.)
  •  
  • ‘La paura di dire’
  • di
  • Sandro Giovannini

  •  Bìos/Biòs
  •  
  • “Non aver paura di dire…”, lo dico ora io, che non sono stato uno dei rispondenti del libro/tavoletta, con questo stesso titolo, che abbiamo edito nella collana ‘tabulae’ dell’Heliopolis, per una precisa scelta. Starne fuori e fare solo la promozione (in senso totale) e la curatela era la condizione necessaria per non far apparire troppo condizionata la cosa sin dalla partenza, già oltre i limiti di ciò che la nostra storia comune (e la mia poi particolare) poteva abbondantemente presupporre, sia negli honestiores che nei maliziosi. Ma in definitiva, il precipitato scrittorio… cui prodest? Perché aprire a 360° un’indagine sui “richiesti”, oltre 250 tra i principali accademici attuali di filosofia italiana e dintorni, di cui una percentuale (il 6% circa) precipitati infine tra i 42 del complesso scrittorio (ma pochissimi tra i tanti … e questo è già rivelatorio), quando si volesse una tesi sostanzialmente precostituita, ovvero una - sia pur implicita - condanna della situazione attuale e come recitano le non molte (ma le cose cambiano velocemente) menti più versate dell’anti/establishement, dichiaratamente in alternativa organica all’attuale globalizzazione del pensiero?

 

Vai all'articolo
  • Mars Iupiter Venus

  • RITROVARE IL
  • CANONE
  • PER COMPRENDERE
  • IL FUTURO
  • di
  • Andrea Marcigliano
  • (da: www.electoradio.com di mercoledì 02 ottobre 2019)
  • Borges dice che, in fondo, quattro sono le storie. Solo quattro: una città assediata e difesa, ormai senza speranza. Un uomo che torna dalla guerra, in un viaggio fantastico e periglioso. Una ricerca di qualcosa di, apparentemente, irraggiungibile.  Infine, la storia di un sacrificio. Un Dio, o un eroe che si sacrifica.  A se stesso.   Iliade, Odissea, gli Argonauti. E poi l’Edda, il mito di Odino che si impicca da solo alla forca. Per morire e rinascere. Nella sapienza. Sono scelte, naturalmente.   Dettate da predilezione, consonanze interiori. Come sempre avviene. Io, ad esempio, vi aggiungerei la storia di un esule alla ricerca di un approdo. E di una nuova Patria.  L’Eneide, insomma.  Ma non farebbe molta differenza. Quello che conta è che, come chiosa il poeta argentino, sono le storie che abbiamo raccontato dall’inizio del tempo.  E che continueremo a raccontare, sino a che il tempo non cesserà di scorrere.

 

Vai all'articolo
  • Houthi Yemen

  • Tre brigate del terzo più grande arsenale di armi al mondo
  • annientate dall'offensiva
  • del paese arabo più povero al mondo…
  • di
  • Federico Pieraccini
  • (da “American Herald Tribune” del 30.09.2019)
  • Finora molti potrebbero essere stati indotti a credere che gli Houthi siano una forza armata priva di raffinatezza. Molti, vedendo gli attacchi di droni e missili contro gli impianti petroliferi sauditi, infatti, potrebbero aver pensato trattarsi di un attacco a bandiera falsa effettuato da Riyad per aumentare il valore di mercato di Aramco; oppure un'operazione effettuata dall'Iran o persino da Israele. Sabato 28 settembre, gli Houthi hanno fatto pagare tali speculazioni confermando ciò che molti, come me, scrivono da mesi; cioè che le tattiche asimmetriche degli Houthi, combinate con le capacità convenzionali dell'esercito yemenita, sono in grado di mettere in ginocchio il regno saudita di Mohammed Bin Salman. 
Vai all'articolo
  • BELLEZZA daikini

  • Discentrare il disordine
  • di
  • Sandro Giovannini
  • “…leggendo con disprezzo perfetto,
  • si scopre dopo tutto
  • uno spazio per la schiettezza…”
  • Un intervento d’estrema semplicità. Vorrebbe (e potrebbe) essere un appello, ma l’autore non ne ha l’autorità e neanche, ormai, l’illusione. Infatti la “logica terminale” è sovente ingannevole, anche se ha la plausibilità, in temperie di velocizzato trapasso, di mettere in sequenza ineludibile temi e tempi. In un altro nostro intervento (“Una diversa versione di ‘cattivi maestri’” uscita su Ereticamente nell’ottobre 2018 ed ora presente su ‘Rivista online Heliopolis’ www.heliopolisedizioni.com) parlavamo della necessità, ormai, per la nostra generazione intellettuale che ha visto e partecipato a tutte le battaglie culturali dagli anni ’70 e per i successivi decenni, con enorme dispendio e ben collaudati, ripetuti e consapevoli fallimenti ma anche con una meravigliosa capacità d’anticipare e spesso anche guidare tematiche che poi si sono puntualmente imposte nella società anche più allargata e massiva fino al punto di mettere in forse i facili pregiudizi e gli innumerevoli luoghi comuni sulle impossibili o fallimentari interdipendenze di pensiero-azione, di lasciare ai più giovani, come è bello-giusto e naturale che sia, un approfondimento sempre più spinto dei motivi originari ed identitari della nostra visione del mondo. Mentre a noi, ormai più anziani, forse spetti non assumere certo la facies scettica od anarcoide, quanto immettere in una più profonda consapevolezza di ragioni e di irragioni epocali l’atteggiamento complessivo da tenere verso il movimento politico del tempo ultimissimo, che sembra, ad uno sguardo non realmente approfondito, camminare su sentieri incomprensibili e/o ingovernabili… Questa “postura nostra”, ribadiamolo a scanso d’equivoci, non intende minimamente venir meno alla verità di una “paideia positiva” (cosa che facciamo costantemente con il lavoro intellettuale nostro e di tutti i nostri valenti amici), magari in forza di un atteggiamento velatamente sostanzialista di ragione e matrice, appunto, discentratamente anarcoide, quanto avvertire, su di un piano formale, della necessità di continuare a sentirci profondamente coinvolti nel “discorso di verità”, quanto contestualmente e contemporaneamente affermare il diritto/dovere di mantenere e favorire sempre più una “paideia negativa”, che è, in tempi di crisi profonda ed irreversibile come quelli attuali e di spaventosa orgia di non-verità gabellata per normalità e necessità, l’unica sapientemente capace di seguire, comprendere, aiutare a governare e potenzialmente e progressivamente reindirizzare per il giusto ed il possibile tutto il cascame psico-sociale del momento. E inutile poi, per le intelligenze a cui ci rivolgiamo, non certo riferite ai gazzettieri e politicanti di diversa matrice ma di sovente comparabile levatura, che noi si stia ad elencare le ragioni profondissime e tradizionali e magari anche a trovare i suggerimenti letterari sottili di “doppia vita” o di “finzione suprema” che ci spingono a sottolineare tale necessaria “postura”. Sarebbe pleonastico e non degno d’anni di frequentazioni e critica comune e comunitaria. Ben venga quindi l’apertura consapevole per la “doppia verità”, che è in sé a prima vista criptica ma sorta di “segreto posto in evidenza”, matura di tutte quelle comprensioni che in decenni di lavoro critico abbiamo posto in essere e per nulla antipopolare, anzi è l’unica che possa seguire e condurre una partecipazione profonda alla vita istintuale e razionale (vera) del popolo, in quanto è l’esatto contrario dell’utopismo progressista e della distopia umanitarista. Sappiamo anche della difficoltà del metodo ma non ci hanno mai spaventato le sfide, ed ora “discentrare il disordine”, disordine distribuito consumisticamente per sommo bene è più che mai necessario. Il nemico principe sappiamo ben riconoscerlo assieme a tutti i suoi servi sciocchi.

  • la quarta teoria politica

  • DUGIN
  • UNA GUIDA DI PENSERO E AZIONE
  • CONTRO IL DOMINIO DISUMANIZZANTE
  • Intervista di
  • Adriano Segatori
  • (da: electoradio.com, di lunedì 17 giugno 2019)
  • Riassumere diverse ore di colloquio nella sintesi rapida e concisa di una intervista ad Aleksandr Dugin, filosofo e politologo russo, è una operazione ardua e rischiosa per possibili fraintendimenti. Cercheremo di organizzare un percorso di comprensione, di orientamento dalle parole della guida a questa Quarta Teoria Politica del terzo millennio.
  • Tu, e le persone che con Te collaborano, siete considerati pericolosi. È concepibile una simile interpretazione del lavoro filosofico in corso?
  • Certamente. E ci fa un enorme piacere. Il comunismo e il Fascismo non esistono più. L’unico nemico rimasto è il liberalcapitalismo, non solo come strumento di oppressione economica e sociologica, ma come religione del pensiero unico e dogma della globalizzazione
  • - Quindi, è in corso una battaglia ad un livello superiore rispetto ai paradigmi finanziari che ci vengono quotidianamente elencati.
Vai all'articolo
  • Contre le liberalisme

  • Recensione del libro di
  • Alain de Benoist
  • Contre le libéralisme. La société n’est pas un marché
  • di
  • Gilbert Doctorow
  • Quando ho pubblicato le mie note di viaggio in una visita di nove giorni in Ungheria diverse settimane fa, i lettori potrebbero essere rimasti perplessi sul motivo per cui mi sono preoccupato. (Vedi:  https://gilbertdoctorow.com/2019/04/26/hungary-testing-the-waters-notes-from-a-week-of-wellness-and-political-tourism/).   Il mio punto conclusivo è stato che il controverso populista, primo ministro autoritario dell'Ungheria Viktor Orban trae il suo potere dalla forte identità nazionale ed etnica dei suoi compatrioti. Ciò sembra, di per sé, un'osservazione non eccezionale. Tuttavia, quando l'ho fatto avevo in mente un contesto intellettuale molto specifico di "democrazia illiberale" di cui ora scriverò in questo saggio rivedendo l'ultimo libro del noto filosofo politico francese Alain de Benoist, Contre le libéralisme. È improbabile che il libro figuri nella tua lista di letture estive. Innanzitutto perché esiste solo nell'edizione originale francese. In secondo luogo, e ancor più importante, perché è altamente tecnico, l'opera di un filosofo di prima classe con una conoscenza enciclopedica del soggetto che si rivolge ai suoi colleghi, non al pubblico in generale. 
Vai all'articolo
  • Federico Prizzi

  • UN NUOVO LIBRO
  • di
  • FEDERICO PRIZZI
  • SUL RUOLO DELL’ANTROPOLOGIA
  • nei
  • CONFLITTI CONTEMPORANEI
  • a cura di
  • Emilio Del Bel Belluz

  • (da: https://www.analisidifesa.it/2019/05/lahnenerbe-in-finlandia/di sabato 04 maggio 2019)
  • Con il nuovo libro della Novantico Editrice “Ahnenerbe in Finlandia - le ricerche antropologiche sul fronte della Carelia”, continua l’avventura editoriale della casa editrice piemontese dedicata allo studio dei conflitti contemporanei e del ruolo delle Scienze Umane in supporto alle operazioni militari. Grazie all’analisi di Federico Prizzi, antropologo e storico militare, esperto di Cultural Intelligence e di Antropologia dei Conflitti, le spedizioni volute negli anni ’30 e ’40 dall’Ahnenerbe e dal Nazionalsocialismo sul fronte della Carelia assumono così una nuova chiave di lettura.
Vai all'articolo
  • Carlo Fecia di Cossato

  • 7 navi da guerra tedesche.
  • Un solo uomo contro,
  • Carlo Fecia di Cossato.
  • di
  • Nicolò Zuliani
  • (da The Vision  del 23 ottobre 2018)
    (...quando la sostanza è forma e la forma sostanza... S. G.)

  • L’11 novembre del 1940, a Taranto, sono appena passate le 23. Buona parte della città sta dormendo quando i vetri delle finestre vibrano per il ronzare dei bombardieri. Le sirene d’allarme riempiono l’aria lente e sinistre, quando le bombe stanno già cadendo. La contraerea illumina il cielo mentre le esplosioni devastano strade, case e automobili. La gente esce in strada e corre verso i rifugi, vestita con quello che ha addosso. Tra urla, fiamme ed esplosioni c’è un Tenente di vascello, Luciano Barca; è mezzo svestito come gli altri e corre a perdifiato verso il porto dove gli hanno detto che la sua nave è stata colpita. All’incrocio con via Cavour vede un Capitano che cammina calmo, in perfetta uniforme, mentre attorno l’intera città viene distrutta. Barca lo raggiunge e l’ufficiale, squadrandolo, gli dice: “Il bombardamento non è motivo sufficiente perché un ufficiale di Marina debba correre in questo modo.”
  • “Ma comandante!”, ansima Barca, “L’Ambra è stata colpita, devo correre a bordo!”
  • “Va bene, mi scusi. Ma, in ogni caso, si abbottoni la giacca.”
  • E Barca, in mezzo a esplosioni e il crepitare delle mitragliatrici, si affretta a farlo; perché l’uomo che ha davanti è uno dei più grandi marinai l’Italia abbia mai avuto: Carlo Fecia di Cossato.
Vai all'articolo
  • Zen

  • La fantasia del complotto
  • di
  • Sandro Giovannini
  • La “fantasia del complotto”, innanzitutto come genere pseudoletterario, non mi ha mai convinto. Anzi spesso me ne sono tenuto discosto per nausea naturale e per insofferenza degli esiti da riconoscimento. (...Quegli esiti sarebbero stati insopportabili non solo per carenza - contro spesso le apparenze - di visione generale - direi filosofica - del problema, quanto per l’ineliminabile ed insoffribile maniacalità di molti complottisti, ovviamente sovente in parallelo - funzionale - ad altrettanti ed altrimenti bene o male motivati, debunker).  Oltre la giovinezza, però, in base alle mie multiformi esperienze militari ed a qualche studio intensivo per vocazione, ho creduto di comprendere al proposito ciò che non sempre poi è facilmente comunicabile.   La realtà, fuorché in casi del tutto straordinari, sempre possibili, supera la fantasia, anche la più fruttuosa.
Vai all'articolo
  • inganno bannon

  • Inganno Bannon
  • a cura di
  • Maurizio Blondet, Andrea Marcigliano, Gianluca Marletta,
  • Claudio Mutti, Raido, RigenerAzione Evola 
  • (com. edit.)

  • Steve Bannon è davvero il paladino del sovranismo europeo e il padre nobile della destra degli anni duemila?  Ci troviamo realmente di fronte ad un valido anti-Soros o soltanto dinnanzi all'arteficie dell'ennesimo progetto egemonico a stelle e striscie in chiave conservatrice anzichè liberal?  Questo volume collettaneo si propone di rispondere a questi interrogativi con l'obiettivo di smascherare il malcelato inganno ordito da Steve Bannon, attraverso  The Movement, per attrarre le forze populiste e sovraniste europee, in particolare italiane, condizionandole in chiave anti-eurasiatica, anti-islamica e filo-atlantista.  Si tratta di un pamphlet di battaglia e di denuncia, o per meglio dire di un 'manifesto' , volto a contribuire alla maturazione dei necessari anticorpi contro il virus dell'alt-right.

  • cover della bellezza dei corpi campa D editore

  • Torna in libreria Riccardo Campa con
  • Della bellezza dei corpi
  • (COMUNICATO EDITORIALE)
    • Collana Libreria di NeoAntropologia
    • Prezzo di copertina: 14,90€
    • Data di pubblicazione: 21 marzo 2019
    • www.deditore.com

  • Il 21 marzo 2019 esce in libreria per D Editore "Della bellezza dei corpi", il nuovo libro di Riccardo Campa, giornalista, sociologo e filosofo, fondatore e presidente onorario dell’Associazione Italiana Transumanisti.  Autore del best seller La rivincita del paganesimo, uscito nel 2013 sempre per i tipi di D Editore, Campa approfondisce il discorso delle radici pagane dell’Europa, mostrando che la questione della bellezza dei corpi, della loro cura e manutenzione, della loro valutazione estetica e rappresentazione iconografica, è l’ennesimo esempio di rinascita di idee e pratiche antiche nel mondo moderno. L’attenzione alla bellezza dei corpi maschili e femminili ha una storia.  Della bellezza dei corpi ci racconta questa storia:
Vai all'articolo
  • Mars Iupiter Venus
  • Subito od un poco più in là?
  • A proposito de “Il primo Re”
  • di
  • Sandro Giovannini
  • Ho riflettuto in questi giorni su varie letture de “Il primo Re”, fatte da amici validissimi, con profondità indubbia, con coltissime citazioni, con sapiente riscontro di valori impliciti od espliciti (ovviamente irrintracciabili nei commenti mondani), ma con ben diverse carature di problematicità. Diciamo che alla lettura delle stesse, senza aver personalmente visto il film, sono rimasto, di volta in volta, conquistato da ipotesi interpretative molto difformi quando non addirittura del tutto incompatibili. Fino quasi a fare di me stesso, a me stesso, una banderuola.
Vai all'articolo
  • Strumentazione SM79

  • La
  • diversa avventura dell'elitismo
  • BORGES et ALII
  • di
  • Sandro Giovannini
  • (C) Tutti i diritti riservati :
  • Heliopolis Edizioni di Idee e materiali di scrittura,
  • 01 Febbraio 2018

  • SOMMARIO  DEL  LIBRO:
  •  
  •  
  • Prefazione pagg. 1
  • Introduzione pagg. 8
  • PRIMA PARTE: J. L. Borges.
  • Motivazioni personali; 2) Contestualità di ricezione;
  • 3) Linea di ricerca; 4) Sacro;
  • 5) L’infinita biblioteca; 6) Il gioco/sogno.
  • (18 pagg., corpo 12)
  • Note al testo
  • (25 pagg., corpo 12)
  • SECONDA PARTE:
  • 1) Victoria Ocampo; 2) José Ortega y Gasset; 3) Rabindranat Tagore;
  • 4) Hermann Keyserling; 5) Pierre Drieu la Rochelle; 6) Roger Caillois.
  • (20 pagg., corpo 12).
  • TERZA PARTE:
  • Testi antologici con commenti.
  • (20 pagg., corpo 12)

Vai all'articolo
  • Occorre
  • I "Demoni" sono tra noi
  • di
  • Adriano Segatori
  • (da electoradio.com)

  • Che senso aveva l’organizzazione terroristica, la rete, nella vecchia Russia pre-rivoluzionaria... viene chiesto a Piotr Stepanovic, con “tanti delitti, scandali e turpitudini” e questo rispose: “...per scrollare sistematicamente le basi della società, disfarla sistematicamente e rovinare tutti i principi”.    Chiarissimo Dostoevskij nel delineare - con uno dei suoi capolavori - l’ondata nichilista di fine ottocento che fu il preavvertimento all’ottobre sanguinario in cui - per dirla alla Lacan - il popolo suddito, nell’ebbrezza rivoluzionaria, uccise il Padre della Santa Madre Russia e si ritrovò schiavo del Padrone delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.  C’è un ‘però’ che distingue questi sabotatori, in sé perversamente romantici, ad altri figuri dell’Italia contemporanea, un ‘però’ che è compensato nelle parole del “Breviario del rivoluzionario” di Necaev:   «Il rivoluzionario è un uomo perduto. Non ha interessi personali, né affari privati, né sentimenti, né proprietà, neppure un nome».
Vai all'articolo
  • XIII QUELLAZZURRO SILENZIO TRA DUE ESPLOSIONI ridotta

  • Una prima lettura
  • di
  • Sandro Giovannini
  • a
  • Il Milite Ignoto illustrato al Popolo
  • di
  • Karl Evver

  •  (Pubblicato su EreticaMente il 10.12.18)

  • “...Savinio si diceva certo che le rovine di Troia fossero quelle scoperte da Schliemann,
  • per il fatto che durante la prima guerra mondiale il cacciatorpediniere inglese Agamennon
  • le aveva cannoneggiate. Se l'ira non ancora sopita di Agamennone
  • non li avesse animati, perché mai quei cannoni
  • avrebbero sparato su delle rovine in una landa?
  • I nomi, nonché un destino, sono le cose stesse...”
  •                                                                                                    Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, 1975, Einaudi.

  • “La scoperta etimologica è una illuminazione.
  • La scoperta etimologica ci dà l’impressione (o l’illusione)
  • di toccare con mano la Verità. ...
  • Spenta la curiosità di scoprire le radici,
  • una maggiore libertà ci rimane per scoperte più importanti” .
  • Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, 1977, Adelphi.
  • Credo sia non solo giusto ma anche utile che Carlo Fabrizio Carli nella sua “Un’appassionata scelta di pittura”, sincera introduzione all’aureo libretto “Il Milite Ignoto illustrato al Popolo” di Karl Evver, insista sull’“austerità di linguaggio”- sia dell’-“elaborazione pittorica, che nella scelta dei temi e delle didascalie”. Forse perché, oggi, nell’orgia dell’antiretorica paredro apparentemente insostituibile della precedente retorica storica, si spera possa tornar utile a legittimamente diradare la nuvolaglia ideologica e la cortina velenosa della dialettica coll’aprire la terra di mezzo tra i due fuochi (troppo spesso, proprio, terra di nessuno) ad un cielo meno plumbeo e mortifero.

 

Vai all'articolo
  • volonta di potenza
  • E se questa democrazia fosse il “male assoluto”?
  • di
  • Sandro Giovannini
  • (uscito su  EreticaMente  il 5.XII.2018)

  • Il male assoluto è come un sacco da boxer, si prende tutti i pugni e non ne restituisce nessuno. Sappiamo alla fine che chi vince s’è allenato bene al sacco e chi perde, evidentemente, meno proficuamente, ma questo, essendo solo il risultato, non dice nulla delle ragioni di chi gli tirava i pugni. Ed ogni volta che ci avviciniamo alla metafora dobbiamo ricordarci quante implicite, quante variabili, quante follie, stanno in quel sacco, di fronte a chi gli tira pugni. Ora… ad esempio, mi chiedo: ma l’eccezionalismo (quello che produce tanti onori ed orrori) è una costante della storia che privilegia solo pochi popoli o per alcuni è improponibile? Per esempio, per l’Italia, è stato o sarebbe (ancora) proponibile?

 

Vai all'articolo
  • Il consumatore 2

  • Nuovo colonialismo e media coloniali
  • di
  • Tim Anderson
  • (da American Herald Tribune 11.IX.2018)
  • Le sette guerre in Medio Oriente degli ultimi due decenni segnano una nuova era coloniale, guidata da un impero in rovina. Ma essendo oggi la colonizzazione  bandita, e con le popolazioni altamente alfabetizzate di oggi è di conseguenza necessaria una copertura ideologica fornita da un complesso di media coloniale incorporato, sostenuto da settori delle ONG ben pagati.
Vai all'articolo
  • Sadici
  • La legge non è uguale per tutti...
  • di
  • Adriano Segatori

  • Giovanni   Giolitti,   uomo   che   seppure   discutibile   nelle   sue   posizioni   politiche   e   sociali, rimane storicamente un grande, tanto da incorniciare il suo periodo di attività come ‘era giolittiana’, scrisse: “La legge, per i nemici si applica, per gli amici si interpreta”. 
Vai all'articolo...
  • Carica Izbuscenskij Savoia Cavalleria

  • ORFANI di MARTE
  • di
  • Piero Visani
  • (da Il Primato Nazionale, cartaceo di ottobre 2018)
  • Parlare di deep state, in riferimento all’apparato militare italiano, mi pare molto suggestivo, per usare un eufemismo. Ho lavorato per diciannove anni come consulente esterno della Difesa e non ho mai trovato alcuna delle pulsioni che vengono generalmente attribuite dal mondo esterno all’universo militare. Ho trovato invece, nell’ordine: il formidabile peso della storia (in particolare dell’8 settembre 1943), non tanto all’interno quanto all’esterno dell’istituzione stessa; notevoli problemi identitari, legati a dubbi sulla funzione militare nel nostro Paese, da molti percepita come una finzione; un forte senso di smarrimento o comunque l’esistenza di robusti interrogativi sulla reale possibilità di fare il militare di professione in un Paese come l’Italia; una crescente incertezza, destinata con il tempo a trasformarsi in autentico fraintendimento, sugli effettivi compiti da assolvere; la sostanziale inesistenza di una concezione guerriera, autentico tabù per l’intera istituzione, alla quale mai fare riferimento anche solo per semplici opportunità (e opportunismi...) di carriera.
Vai all'articolo...
  • TRAIANO CON LA LUPA ROMANA IN ROMANIA

  • L'EUROPA CHE VOGLIAMO
  • MANIFESTO DELL’ EUROPA:
  • Popolare, non populista, sovrana, non sovranista,
  • europea non europeista, di nazioni confederate, non nazionalista né sovranazionale.
  • di 
  • Vittorio de Pedys

L’Europa è, oggi, una cosa troppo seria per lasciarla in mano a burocrati di Bruxelles o ad una classe politica che la considera un dato di fatto, come un mobilio necessario. La miopia gestionale, la pochezza della veduta strategica, la limitatezza di politiche di bilancio anguste sono riuscite nello spazio di una generazione nella impresa di trasformare in anti-europeo il cittadino medio del continente.

Vai all'articolo
  • Equo 2

  • Una diversa versione di
  • cattivi maestri
  • di
  • Sandro Giovannini

  • “…ora la forza di Enea
  • regnerà sui Troiani e i figli dei figli
  • e quelli che dopo verranno…”
  • Il., XX, 307-308.

  • Siamo giocoforza abituati a considerare l’espressione “cattivi maestri” come necessariamente legata ai tempi bui del terrorismo. Generalmente sinistra perché la specificità tutta occidentale di considerare comunque maestri o maestrucoli gente di diversa ideologia, allo stupidario da noi dominante per decenni e persino attualmente, non è neanche in mente…

 

Vai all'articolo...
  • a definite answer

  • FAIDE E INTERESSI
  • La difficile lotta ai trafficanti
  • di
  • Gianandrea Gaiani
  •            
  • La vicenda del pattugliatore Diciotti ormeggiato a Catania con a bordo centosettantasette migranti illegali raccolti dalla nave della Guardia Costiera nelle acque maltesi ha fatto emergere tutte le faide interne all’Italia e alla Ue che impediscono di vincere la lotta all’immigrazione illegale. Come accadde al suo predecessore, Marco Minniti, anche Matteo Salvini deve fare i conti con chi, per diverse ragioni, vuole impedire che i flussi illegali vengano stroncati nonostante sia evidente la natura criminale di questi traffici.
  •             

 

Vai all'articolo
  • Ich bin der Geist Goethe Faust

  • Riportiamo da altra fonte questo essenziale articolo di Segatori
  • che crediamo rappresenti al meglio
  • ciò che oggi pensiamo sull'argomento...
  • (S. G)
  • IL DEMONE DELLA DECADENZA ACCUSA
  • GLI ALTRI DI ESSERE
  • SATANA
  • Che
  • qualcosa di diabolico percorra l’attualità è fuori dubbio,
  • se per diabolico intendiamo
  • quell’atmosfera di degrado, di perversione e di disintegrazione di ogni principio
  • che caratterizza l’opera del maligno.

 

 

Vai all'articolo
  • 2 pittura scrittura pittura
  • "Scrittura-Pittura in Italia"
  • di
  • Vitaldo Conte


  • “La pittura è una poesia muta, e la poesia una pittura cieca”
  • (Leonardo da Vinci)
  1. L’estroversione della parola futurista[1]
  • L’impotenza di un certo tipo di letteratura, in cui la parola non è più sovrana, volendo colloquiare con gli altri linguaggi, è già intuita nella cultura di fine Ottocento da Mallarmé con la pagina bianca. Su questo percorso si inseriscono nel Novecento le avanguardie storiche, tra cui il Futurismo, il cui interesse verso l’estroversione della parola è indiscutibile. La definizione di poesia visiva è già data da Marinetti nel 1944 in una presentazione a Carlo Belloli: “con Belloli la poesia diventa visiva”.  Marinetti nel Lirismo multilineo (1913) auspica la ricerca di una poesia come arte totale: “Il poeta lancerà su parecchie linee parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica”. Questa esigenza è determinabile più chiaramente nel manifesto de La cinematografia futurista (1916): “metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale”.
Vai all'articolo...
  • Barone immaginario


  • AA.VV. 
  • Il barone immaginario
  • (18 racconti con protagonista Julius Evola)
  • A cura di 
  • Gianfranco de Turris
  •  
  • Una persona «vera» non finisce nella trama di un romanzo o racconto di finzione o nei versi di una poesia per caso, bisogna che sia «qualcuno», nel bene o nel male. La vita di Julius Evola è stata un romanzo, anzi molti romanzi...
Vai all'articolo...
  • Usa e getta 2
  • COSA
  • CI INSEGNA IL POPOLO SIRIANO
  • di
  • Sebastiano Caputo
  • (Dal blog Engagez Vous su Il Giornale, del 14.04.2018)
  • L’attacco sarà stato anche circoscritto ed estemporaneo, come dicono i politologi sempre pronti a perdonare all’alleato americano qualsiasi sopruso, ma intanto questa notte gli abitanti di Damasco sono saltati dal letto credendo che fosse arrivato il giorno dell’Apocalisse. Ora staremo a vedere se davvero si tratta solo di una rappresaglia perché anche se fosse non nasconderebbe il supporto diretto e indiretto che gli Stati Uniti insieme ai loro alleati della regione hanno dato in tutti questi anni ai gruppi terroristici che hanno portato la guerra in Siria. Da questo episodio fulmineo, quasi inaspettato dopo che le tensioni sembravano essersi calmate, alcuni aspetti fondamentali devono farci riflettere in profondità.
Vai all'articolo...

  • Equo 2
  • E’ necessario
  • che ognuno di noi, forzato con le spalle alla voragine epocale ove la corruzione totalitaria di un occidentalismo terminale ci ha costretti, dichiari senza ambiguità residue la propria volontà di resistenza, non solo per sé ma anche per ciò che resta del nostro amato popolo. La rabbia folle e psicopatica, priva ormai di qualsivoglia copertura se non quella della rinuncia colpevole e della vigliaccheria orchestrata, di fronte alla caduta dei miti fasulli della malefica e rozza accozzaglia imperialista di neocons-sionisti-atlantisti e vari consanguinei, porterà, speriamo sempre il più tardi possibile, ad un esito spaventoso. Noi siamo certi che, operando anche oltre e persino contro differenze di storie ideologiche e comprensibili scarti di sensibilità ideali, in piena indipendenza di cuore e perfettamente consapevoli dei rischi spirituali che scelte inevitabili impongono in tempi gravosi di responsabilità, prenderemo la nostra giusta posizione, sofferta, ma decisiva.       S. G.

  • PieroVisani

  • E’ uscito - per i tipi di OAKS Editrice, diretta da Luca Gallesi - il primo volume del libro di Piero Visani, Storia della guerra dall’Antichità ad oggi, che è intitolato Storia della guerra dall’Antichità al Novecento. Successivamente uscirà il secondo volume, intitolato Storia della guerra nel XX secolo Qui di seguito l’indice del volume primo.  Il libro è già prenotabile sui principali siti librari “on line”. A breve una nostra presentazione.   S.G
Vai all'articolo...
  • Purusa Prakrti
  • L’ispirazione 
  • di   
  • Giuseppe Gorlani
  •  
  • I
  • L’ispirazione prospera in lande di cui si hanno mappe imprecise. Congetturare di averne tracciato coordinate sicure vota necessariamente al disinganno. Art happens.* Ciò non condanna a vagare tra brume in attesa che, per “grazia”, emerga la musa. Piuttosto è opportuno fissare la chiarità noumenica, sino al punto in cui essa, combaciando con l’Innato, permanga e illumini. Dalla soluzione alla contrapposizione, inerente il divenire, pullula poiesis. Parrebbe un’incongruenza: si comprende tanto meglio il fluire fenomenico quanto più lo si conosce nella sua parvenza.
Vai all'articolo...
  • cheng ming
  • La
  • parola  
  • di  
  • Giuseppe Gorlani
  • I
  •  
  • In interiore homine c’è l’erba piegata dal vento. All’esterno, sul calar della sera, c’è l’erba d’oro tinta. In alto l’etere, in basso il cielo. Intorno la madre silente ripete quel che le suggeriamo. Al grido risponde con un grido, al sussurro con un sussurro. Saperlo induce a quiescere. Oppure ancora ci si ostina ad immaginare cornucopie sostenute dal cachinno del secolo?

 

vai all'articolo

1 Cavallo del Fato fianco 1

  • Il sogno del Cavallo
  • di
  • Sandro Giovannini

 

  • Che ci fosse sopra, sotto, intorno, un’idea d’inganno non affiorata alla coscienza, lo sospettavo. Quella spinta così prepotente che si era imposta in me di realizzare effettivamente il grande cavallo, al di là della congerie d’impulsi determinatasi senza un’apparente causa, era d’evidenza innegabile. La furia ideativa e creativa non s’è fermata per un anno intero anche se ho continuato a fare contemporaneamente anche altre cose. Ma ero certo, ogni mattina, con il sole o la pioggia, freddo o caldo, che era quello che volevo perseguire, in un’abitudine assurda e compiaciuta, dove, alla fine, anche la stanchezza fisica trovava un suo quotidiano, meritato, riposo. (...)
vai all'articolo
  • associazioni dolenti
  • Il capitalismo struttura la psiche individuale...
  • di
  • Adriano Segatori
  • (da: lefondamenta.it)
  •            
  • C’è una pervasiva frustrazione che insegue l’uomo nella sua esistenza e che lo condanna ad una ricerca tanto pressante quanto invalidante: è la felicità, il miraggio di una beatitudine terrena che va dalla pretesa di salute alla soddisfazione di qualsivoglia indotto bisogno. In tutti i casi la responsabilità è politica, politica intesa come arte di educazione dell’uomo e del cittadino, e come tale fallita. Oggi, i due paradigmi che pretendono il massimo dalla felicità è la visione edenica della salute e la pretesa soddisfazione di qualsiasi bisogno.  
vai all'articolo
  • Vivarelli locandina

  • Apresi venerdì 13 Aprile alle ore 17,00, alla Spezia e nella cornice del Palazzo del Governo, la mostra "Fantasie futuriste nel Golfo armato": trenta grafiche a colori di Curzio Vivarelli. Disegni nei quali la temperie futurista che rappresentò per La Spezia una breve entusiasmante stagione riappare sciolta dall'inquietudine di quel tempo per approdare a nitide figurazioni classicizzate. Prendono spunto, le grafiche, da opere che parteciparono al celebre concorso di pittura del 1933 a tema la bellezza d'un Golfo passato da albergo di poeti romantici a dinamico porto di navi da guerra. Della trasformazione profittavano i futuristi organizzando una manifestazione memorabile ove vincitore fu Gerardo Dottori. Va da sè che l'Autore dedichi appunto più disegni alle opere che il pittore perugino approntava in vista del concorso che lo avrebbe visto trionfare al punto da coniare con il titolo della sua opera una nuova dizione del Golfo. Non più solo Golfo delle Meraviglie, ma futuristicamente Golfo armato: e arma è qui la Poesia.

  • L uomo eternoI Parassiti della Mente
  • Colin Wilson & Jacques Bergier.

  •  (Ovvero la congiura della storia)

  • di
  • Andrea Scarabelli

 

«La nostra civiltà, come ogni civiltà, è una congiura. Una miriade di minuscole divinità storna i nostri sguardi dal volto fantastico della realtà». Così si apre L’uomo eterno di Pauwels e Bergier, primo (e, di fatto, unico) di cinque volumi dedicati a una riforma dell’uomo moderno. Sono tesi assai simili a quelle del romanzo I parassiti della mente di Colin Wilson, uscito nel 1977 per Fanucci e tornato in libreria – anzi, in edicola – in «Urania collezione» pochi giorni fa, nella magistrale traduzione di Roberta Rambelli; una storia complicata e affascinante con al centro la «trappola della storia», l’idea che quest’ultima sia determinata da fattori ben più articolati di quelli che le nostre piccole menti razionaliste possono comprendere.

vai all'articolo
  • Ipazia 1
  • (ELOGICON su suggerimento di Luigi Sgroi)

  • Fato  ed  Estinzione
  • di
  • Sandro Giovannini

  •  
  • “… I veri rappresentanti d'uno spirito scientifico erano dunque loro, gli arcaici;
  • non noi che crediamo di poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento,
  • e dunque partecipiamo d'una mentalità più vicina alla magia.
  • Il coincidere col ritmo dell'universo era il segreto dell'armonia,
  • "musica" pitagorica che ancora in Platone regola l'astronomia come
  • la poesia e l'etica. Ma è anche il senso della necessità, quello
  • che risorgerà in mutata forma
  • con Keplero, Galileo, Bruno, ‘in cui l'intelletto si apre a fini
  • che non son più limitatamente umani,
  • e si sente di abbracciare e complèttere il tutto
  • in uno splendido amor Fati’”. 
  • Da: “Il cielo sono io” di Italo Calvino
  • (recensione di: Fato antico e fato moderno, Giorgio de Santillana, Adelphi)
  • Di fronte all’ineluttabile Calvino richiama la sostanziale dialettica in De Santillana: il tragico senso di colpa e l’armonia classica risolta come accettazione (certamente in origine né quieta né serena), come i due poli di una rappresentazione anch’essa dinamica, che valgono per il macrocosmo ed il microcosmo. Sappiamo poi bene come lo stesso Fato antico sia passato attraverso interpretazioni anche molto diverse (una per tutte, problematica, quella di Enea/Virgilio).
vai all'articolo

Sibò

  • Nota di
  • "Asino Rosso":
  • Ottima mostra su Sibò, futurista ancora poco relativamente noto,
  • ancora di fine novecento e anche post futurismo storico,
  • di grande espressività, antimaestro dell'Aeropittura, tecnicamente ineccepibile e precursore anche
  • della miglioe pop art se non certo Iperrealismo stesso ecc....
  • fino all'era spaziale e la stessa cosmopittura
  • di Antonio Fiore Ufagrà, contemporaneo!
  • (Roby Guerra)

 

vai all'articolo

untori esecuzione

    • Lo straniero, colui che porta i mali...
    • di
    • Paolo Aldo Rossi
  • Ormai è il tempo di ripensare da un punto di vista storico il concetto di straniero   Il termine greco ξένος (xenos) può volere dire ospite, straniero, amico, forestiero, estraneo, strano, nemico, sconosciuto…, ma la grande sfumatura di significato sta come indizio di concetti contrastanti che vanno dal "nemico straniero" così come all’"amico ospite".
vai all'articolo