Ciò che è mistico


Trascendenza - natura - umanità 

di 

  • Sandro Giovannini
  • Reagisco alle sollecitazioni intellettuali di vari stimati amici fornendomi dei percorsi di avvicinamento più transitabili tra vette concettuali incombenti, impossibili da trascurare per la loro consistenza immane e temibile. Se non riuscissi ad orientarmi con un’addestrata intuizione atta a scansare strapiombi e scivolamenti facili, potrei perdermi in un elementare indifferenziato ove tutte le luci scolorano e le ombre s’allungano paurose. E’ sempre da lievissimi scarti dei passaggi logici che colgo le linee di pericolo per me. Quelle che altri magari superano di slancio.
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  • Qualche giorno addietro ho messo su “rivista online heliopolis” una bella recensione di Giovanni Sessa al testo: “HYLE. Breve storia della materia increata”, su un significativo saggio di Davide Ragnolini per Rubettino. Sessa sostiene che intento del saggio in questione (pag. 8) è suggerire: «...che la stessa storia filosofica e teologica occidentale può essere riletta a partire dal problema della giustificazione della materia (...) Dalla Patristica e dalla Scolastica, infatti, la storia della filosofia ha creato strategie speculative per domare questo problema...». Sessa di seguito sostiene che “...Ragnolini, nelle proprie analisi ha ben presenti gli interpreti eterodossi intenzionali dell’aristotelismo, che hanno rilevato il tratto centrale, niente affatto secondario della hyle nel sistema dello stagirita...”, procedendo poi con un excursus storico filosofico delle pur diverse centralità - a volte persino imprevedibili - della hyle in qualità di sostanza. Realtà e incorruttibilità increata della “materia”, messe al bando prima dalle autorità ateniesi per ateismo e di seguito dalle autorità ecclesiastiche sempre contro la risorgente, seppur articolata, concezione del Deus sive Natura. Nella sequela di tutto il suo lavoro filosofico Sessa conclude: “...Solo un filosofare atto a recuperare l’idea non dualista di materia-animata, può rappresentare l’uscita di sicurezza dallo stato presente del pensare”.
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  • Questo percorso logico mi trova convinto da tempo: l’“idea non dualista di materia-animata” è centrale nella mia motivazione a vivere (...e lo dico così - spudoratamente - senza bellettatura alcuna) assieme alla circolarità dissimile dell’avventura di tutte le forme nelle diverse fasi. Rifuggendo come la peste dalle etichette verbalistiche che vorrebbero schiacciarci su circoscrivibili recinti ove l’indispensabile mappatura in qualità eminente di viatico e di talismano in realtà tende prioritariamente e massivamente ad asservirci, con ordini e presuntuosi universalistici protocolli troppo spesso ignoranti di storia e senza senso se non verbalista. Che la trascendenza nasca dalla meraviglia sommamente artistica e per lo più irriducibilmente tragica delle forme viventi, e non solo, l’ho sempre esperita come evidenza crescente ed irrecusabile. Il fascino/farmaco a doppia valenza ne sono pegno e garanzia. E tutte le platonizzazioni dell’aristotelismo - ed i miliardi di capriole dialettiche - mi lasciano stupido ed inerte. Mi blocca coglierne l’assoluta strumentalità, che nasconde, nel profondo, la paura generante l’universale rimedio dell’illusione. Quello che poi tutte le religioni, più spesso implicandolo od addirittura almeno apertamente dichiarandolo come il buddhismo (...impermanenza, insostanzialità, sofferenza) strutturano a propria ragione e salvaguardia.
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  • Il “domare” la potenza (...ardua, ardita, ardente...) della physis (e qui forzo - semplificando - l’identificazione tra natura e materia) è ben comprensibile quando l’uomo deve agire sotto tutela (quasi sempre) e l’hybris è un abisso poco (e da pochi) esperibile se non con mille cautele. In tale groviglio ontologico la mistica ha sempre e dovunque operato con una violenza ermeneutica senza coperture, se non quelle della criptica, della fuga, della ricusazione o del martirio. (...¡dici niente! - direbbe qualcuno - ...e già...) Perché poi, nel rapporto natura-cultura, l’uomo è costantemente di fronte all’abisso, in sé e fuori di sé: il predominio assoluto della forza, la violenza intrinseca (e non solo estrinseca) di ogni legittimismo, l’isolamento finale dell’insopprimibile intelligenza, l’inutilità meravigliosa dello slancio dell’affidamento e della generosità senza meta e senza scopo se non per un sano - ma per lo più inverificabile - auto trascendimento. Soma sempre indispensabili ma pericolosissimi. Tutto quindi si gioca sulle misure. E su queste misure i più spregiudicati, i più accorti, e non solo i più saggi, costruiscono le referenze di ciò che reputano, persino sublimemente, e spesso a ragione, strumentale. E’ su questa finalizzata strumentalità assoluta che il “secolo” cammina e non certo sulle intuizioni magari splendide, isolate, fascinose, gratuite e/o crudeli, messe in circolo dalle “grandi anime”. Riconoscendo ad esse un potere più sottile e assieme parcellizzato, molto più a lungo o lunghissimo termine diffuso, capace di divorare poi gli altri (la massa, cioè tutti noi) divorando spesso (prima) anche se medesimi.
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  • Se la patristica e la scolastica sono state poi un’“interpretazione neoplatonica fatta propria dalla prospettiva cristiana”, lasciando a tale generalizzazione, operata sicuramente, una grande incidenza storico comportamentale ma sempre concettualmente su base non del tutto totalitaria (come Sessa accenna rilevantemente tramite il riferimento specifico al Timeo di Platone), ci dà l’idea che, alla fine, nella storia, a dare la rotta per le masse non è mai l’autentico pensiero pensante, sempre a gradiente complesso e poco riducibile ed a percorso periglioso, ma l’autostrada protocollare delle coordinate interpretative dello stato maggiore, che traducono necessariamente una ideazione “pura”. Legando inevitabilmente la traduzione a tempi, climi, a pressioni tutto sommato e dedotto segrete esposte in evidenza, in pessima compagnia di vergognose influenze inconfessabili, mode passeggere e pur grandi generosi slanci assieme a stupidità imprevedibili. L’intelligenza luciferina della - dovuta - traduzione applicata non esclude necessariamente la possibile e spesso quasi certa stupidità immane - gratuita - implicata. Quasi doverosa. Lo vediamo ultimamente, ancora per l’ennesima volta, nel precipitare vorticoso - pervicacemente ben poco razionalizzabile - dei conflitti.
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  • Questo mi dà l’aggancio ad una riflessione che si sposta decisamente sul versante strettamente contemporaneo, ovviamente debitore del passato, ove rimaniamo - giustamente - sorpresi se scopriamo che un altro pensiero pensante - e mi riferisco a quello di Vannini su Eckhart - si slancia dall’interpretazione complessiva del mistico tedesco, a una qualcosa che potrebbe persino apparire una surreale rilettura della fede cristiana cattolica, oltre e forse contro le sue più attestate basi teologiche.
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  • Perché, in questi ultimi giorni altre sollecitazioni mi sono venute a rinnovare un non solo personale sconcerto che è, chiarisco a scanso d’equivoco e nel mio caso, più quello dell’osservatore che quello del credente, che non sono. Una puntuale citazione di Luca Valentini (che rinnovava - ma con immutata e pur impensata sorpresa - le mie passate letture dello studioso di mistica) e che riporta un passo (a prima... ma forse anche a seconda vista) definibile, appunto sconcertante, di Vannini ed una recensione (“I Sermoni” Paoline, 688 pagg) del Cardinale Ravasi sul Sole 24h di domenica 24.03.24, intitolata: “Meister Eckhart, caleidoscopio di fede e vita reale”. La recensione un autentico capolavoro di equilibrismo scritturale e teologico. Oltreché, prevedibilmente, di pur concentratissima rilettura storico concettuale. Ravasi parte dalla bolla In agro dominico del 27 marzo 1329 del papa avignonese Giovanni XXII, quello fustigato da Dante, con la condanna delle 26 tesi di Meister E., con aggiunta clausola finale di ripudia delle stesse poco prima della morte e del già fissato processo per le sue popolari prediche in tedesco. Le parole più rilevanti e rivelanti della recensione sono a mio avviso queste:
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  • “...Abbiamo la possibilità di riascoltarlo idealmente in una riedizione curata da uno dei maggiori esperti italiani di Eckhart, Marco Vannini, grande ed originale interprete anche del fenomeno mistico, soprattutto medievale...” (...E, aggiungo io, anni fa, in un convegno alla Fondazione Cini, ascoltai Cacciari definire Vannini il più grande studioso vivente di mistica...).  
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  • Ancora: “...la trama tematica dei sermoni rivela alcuni nodi capitali che sono ampiamente illustrati da Vannini, tenendo conto anche delle altre opere latine, in particolare i trattai. Ne facciamo solo cenno, data la complessità dello svolgimento teorico che ricorre anche alle rationes naturales dei filosofi, e la vertigine che genera un pensiero amante del paradosso e della radicalità. Concetto chiave è il “distacco” che rimanda al limite e alla parzialità del volere umano da cui ci si deve liberare in un atto di svuotamento e di nudità che tocca anche il legame religioso con Dio. Si giunge così ad un totale superamento dell’ego psicologico per approdare allo spirito che è quel “fondo dell’anima” - altro tema nodale in Eckhart - che si identifica col “fondo” stesso di Dio, così da divenire “Uno nell’Uno”. E’ così che nell’anima umana e divina si compie la generazione del Logos in un atto trinitario, il tutto descritto in modo arduo, ardito ed ardente. Fermiamoci qui, lasciando all’introduzione di Vannini a questa edizione dei Sermoni eckhartiani di delineare una mappa che esige un esercizio intellettuale destinato ad affacciarsi su abissi di antropologia teologica (tra l’altro, lo studioso ha dedicato vari saggi a questo pensiero così mobile e sorprendente). Noi ora evochiamo solo un aspetto semplice ed affascinante nel predicatore tedesco, il rimando alla simbologia naturale e quotidiana, incastonata nelle riflessioni di alta caratura teologica: il mondo vegetale ed animale, l’universo cosmico, l’orizzonte terrestre, coi suoi ritmi e paesaggi. Il tutto segnato dalla «...purezza e riconoscenza verso la vita, dalla gioia dell’essere, dalla multiforme luce divina, con un’abbondanza e profondità che richiama, al lettore italiano, la profondità simbolica della Divina Commedia...», contemporanea alla predicazione del Meister. In conclusione, l’ascolto di questi discorsi può creare uno straniamento anche gioioso. Certo stupiscono alcuni ribaltamenti o riletture dialettiche... (...) Forse, alla fine, non impressiona più quanto scriveva un agnostico come André Gide: «...Senza mistica non si raggiunge niente di grande». Persino Bertrand Russel apriva un suo saggio affermando che «...i più grandi filosofi hanno sentito il bisogno sia della scienza sia della mistica»”.
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  • E’ impossibile non apprezzare con quanta sprezzatura il Cardinal Ravasi, per la generosa comprensione dei non specialisti, tratti una terminologia eckhartiana ove generazioni di interpreti si sono battuti duramente per dare a quei tre o quattro concetti “virgolettati in italiano” una consistenza iconica e filologica di difficilissima stabilizzazione anche nella dizione originaria, ma a parte la forma ciò che conta qui - almeno per noi - è la direzione di una più o meno supponibile distanziazione dalle vetuste ma non proprio onuste parole della religiosa bolla di condanna. Ed è impossibile non apprezzare anche la citazione diretta di Vannini riportata da Ravasi ripetiamola: «...purezza e riconoscenza verso la vita, dalla gioia dell’essere, dalla multiforme luce divina, con un’abbondanza e profondità...», nelle quali parole (e nei formanti concetti) s’intravede una forte riemersione, seppur filtratissima dalle infinite falde delle umane (ed ecclesiastiche) vicende, del Deus sive Natura, di cui alla recensione base di Sessa sull’Hyle di Ragnolini...  Ora, ad un interprete della caratura del cardinale Ravasi che credo sarebbe proprio capace in poco o niente (e non certo per una pagina giornalistica) d’allestire una lectio magistralis sull’alto crinale trinitario o lama di rasoio dell’unio inconfusa della battuta bondiana “...agitato e non mescolato...", a. i. verbis, non sfugge nulla di ciò che è in gioco (si fa per dire) delle tesi non di Meister E., ormai forse troppo (e non proprio lealmente) storicizzate, ma di Vannini, ovviamente da quello che potrebbe essere il suo punto di vista e che per fortuna di noi osservatori non è il nostro.   Il nostro sarebbe quello di gente che ha rinunciato definitivamente ad una visione dicotomica, per usare un eufemismo, come per lo stesso Vannini, forse in termini ben diversi, ma per noi sicuramente con minore problematica.
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  • Sospetto che Vannini non potrebbe non apprezzare la recensione ravasiana, sorta di universale e ben potente salvacondotto nell’élite dei molto colti e fortissimamente ferrati in argomento, ma a tal proposito direi che il confrontare le citazioni sopraindicate con il tratto diretto di Vannini riportato da Luca Valentini, comporterebbe - comunque e per tutti noi - qualche non irrrilevante interrogazione di sostanza.
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  • Dalla pagina FB di Luca Valentini del 10.04.2024
  • Un Vannini tutto da leggere:
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  • «...Il rimando a un Dio creatore non è solo una forma ingenua di cosmogo­nia, ma soprattutto una fantasia dovuta alla sofferenza della nostra psiche, ai suoi bisogni non mai placati. È ciò che permette di immaginare “piani di Dio”, “disegni di Dio” ed altre consimili finzioni, corrispondenti a de­sideri di volta in volta diversi. L’alterità di Dio e la creazione gettano il mondo e l’uomo nella tempo­ralità, opposta all’eternità di Dio. Nella temporalità non v’è la pace dell’e­terno presente, ma la grande malinconia del fluire, dello scomparire di tutte le cose belle e amate, e il senso dell’ingiustizia del mondo, dove gli innocenti soffrono, ecc. Con l’immaginazione ci si sforza di dare risposte, ma, in fondo, si sa bene che sono menzogne. Si deve allora rimandare al mistero, al sacro, al divino, inanellando men­zogna su menzogna […]. Il racconto biblico della creazione è un pasticcio, dove due narrazioni immaginarie, scritte in secoli diversi, sono giustapposte, senza curar­si delle contraddizioni. Dare a questi racconti valore di verità religiosa, ontologica, e finanche scientifica, facendoli diventare fondativi delle teo­logie ebraica, cristiana, musulmana, è stato ed è un atto di ingenuità - o, peggio, di menzogna - dalle conseguenze incalcolabili. Da allora in poi Dio - ovvero il Bene, la verità, la luce - è altro, e l’uomo può illudersi di seguirlo, obbedirgli, ecc., ma non lo è mai. Se si esce dal mito biblico della creazione, finisce immediatamente il pa­radigma alienante della divisione soprannaturale-naturale, Dio-mondo, e, quasi per incanto, tutto cambia, diventa chiaro e luminoso: tutto è Uno. Il pensiero dell’Uno è il pensiero corrispondente al distacco, mentre il pensiero del due, della dualità, è il pensiero/non-pensiero della appro­priazione. Infatti il due, per il quale Dio è un ente, ed ente altro da noi, pure pensati come enti, è ciò che permette di appigliarsi a qualcosa, in modo da poter sostenere quei contenuti che servono alla volontà, al desi­derio, e innanzitutto all’amore di sé". (Marco Vannini; Contro Lutero e il falso evangelo, p. 31)...»
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  • Mentre potrei condividere la citazione parola per parola - ovviamente questo lacerto fuori contesto, per questioni di spazio logico, non permette che una veloce risultanza - aggiungerei, a tal proposito, che ognuno di noi potrebbe apparire compiere, appunto, un uso solo strumentale delle parole e delle tesi che leggiamo, sulle quali molti ci confrontiamo in pura gratuità, e reputo in perfetta buona fede... alle quali pur si crede di credere. ¿E, d’altra parte, una pura evidenza, possibile, dell’“...uscita dal mito biblico della creazione”, come non potrebbe (¿dovrebbe?) divenire non una pietra d’inciampo ma una pietra tombale? ¿Per che cosa? Per potersi autorappresentare all’interno di una qualsiasi koinè confessionale. Questo, pur con qualsivoglia ammortizzatore dialettico, utile od utilissimo, geniale o genialissimo, lo crediamo sinceramente.
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  • Infatti in “Marco Vannini, un punto di svolta", un testo uscito nel mio secondo libro di saggi "...come vacuità e destino", Novantico, 2013, affrontai l’autentica gloriosa avventura interpretativa dello studioso di mistica. La lettura quasi integrale del pensiero di Vannini mi mise allora in una attenzione decisiva rispetto al rivelazionismo. Dico decisiva, perché riuscii a distanziarmi definitivamente da molte mie residue resistenze, che relativamente attestanti per il mio poco importante caso umano, sono però comunque rivelatrici dei processi necessari per uscire “in purezza di ricerca di verità” direbbe qualcuno, dall’inevitabile portato secolare, in purezza di ricerca tramite propri meccanismi di riconoscimento della verità, quindi non proprio ¿il quid est veritas?, famoso o famigerato, a scelta...
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  • Direi che tale dimensione, è paradossale in termini ben più che formali per chi si professa ancora "credente" (e questo è bene che sia sempre anche autocritico, pur usando "noi" credenti-non-credenti (non credenti almeno genericamente nelle religioni del libro), tanti ammortizzatori in più rispetto al concetto di "fede"), con le risultanze di tutt'altra provenienza e sostanza, che vengono, ormai da decenni, da diverse fonti. Oltre che da infinite suggestioni delle humanities post-nihiliste non sempre accantonabili, anche da parte di certo diverso paradigma scientifico post-newtoniano, una volta apparendo anch’esso quasi ereticale (mistico o misticheggiante... i vari tao della fisica) ed oggi ampiamente autolegittimatosi, in un felice elitarismo di sostituibili più che falsificabili fantasmagorie cosmologiche.
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  • A tali livelli di rarefazione poi della mistica e dello stesso studio sulla mistica, riesce ancora più interessante ma arduo, ardito, ardente, poter valutare meglio una sorta di ipotizzabile possibile e plausibile "ur-religione siderale" (ma il termine è altamente approssimativo e quasi ridicolo), originariamente priva totalmente di Bhakti. E tale riconsiderazione non ha un valore solo filologico od archeologico, comunque ancora valido, ma un senso potentissimo e quasi inesplorato per rafforzare ulteriormente la nostra scelta stoica, priva totalmente di illusioni e votata invece ad una dimensione di "lealtà metafisica". Incoercibile quanto - in genere, ma persino nello specifico - poco sondata.
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  • Così, nell’apprezzare la segnalazione di Valentini ed il suo laborioso sconcerto... poi nell’aver appena messo su heliopolis online la recensione di Sessa a hyle ed a tutta la sua implicata problematica materia - spirito (semplificando sempre all’estremo) ed ancora nel percorrere passo passo la recensione di Ravasi a Vannini (anche se da due diversi libri) ed infine nel rammentare il mio percorso del saggio su Vannini ove m’occupavo primieramente di ciò che è esprimibile e di ciò che è solo avvicinabile e della (per lui) Religione della ragione contraria al mero intellettualismo scritturale ed alla istintuale suggestione emozionale, ad una «sottrazione assoluta e potenziale del sé» (...seguiamo la lezione pastorale di Ravasi e la dizione magistrale di Vannini) ed al metabolismo mistico, etc, etc. ed ad esergo c’era il viatico di Heidegger che diceva “...alla mistica grande ed autentica convengono la trasparenza e la profondità estrema del pensiero” ...mi sono chiesto, in corpore vili, ove (come) possano dialogare, autenticamente, trasparenza e profondità.