• La menzogna RIDOTTO

  • ¿Passare (per forza) dal negativo?
  • di 
  • Sandro Giovannini
  •  
  • “...Si parte volontari con idee di sacrificioe ci si ritrova
  • in una guerra che somiglia  a quella dei mercenari,
  • con molte crudeltà in più
  • e con in meno il senso di rispetto dovuto al nemico”
  • (Simone Weil, 1938)       (*)

  • Alla luce della testimonianza di Simone de Beauvoir sulla giovane studentessa Weil alla Sorbona, (1)  con la determinazione, la ruvidezza, persino l’immediata antipatia unita al carisma altrettanto velocemente rilevabile, le parole della Weil, dopo l’esperienza in prima linea nel conflitto iberico, sono l’ammissione di una profonda rilettura interiore, che forse si comprende solo a distanza di parole e cose, tramutate, stravolte e pur inverate dall’infinito deformato ritorno dell’identico o dell’assimilabile, nella sempre improba traduzione dalla cosa alla parola  - direbbe il Leopardi (2) ed anche Foucault - e della non corrispondenza (se non nella retorica tanto legittimamente odiata e combattuta dalla Weil) della parola  alla  cosa.  Insegnamento del tutto contemporaneo
  • ...
  • Credo che la grandezza della Weil consista proprio nel suo pensiero che registra la catastrofe del sensibile (direbbe Stiegler) - ma questo solo alla fine del suo periplo vitale - come un entomologo fissa sulla carta la risultante disincarnata di un insetto, con tutte le sue parti salve dalla corruzione e la sua splendente apparenza di realtà morta. Per la visione lucidissima ma non certo per la freddezza.
  • ...
  • E’ quell’ampliamento di anima che non posso proprio non registrare per gli effetti di straniante coincidentia oppositorum nel prodotto finale del suo cammino, dopo la notevole effusione di sacrificio, anche se tutto mi distanzia da lei, in termini di religione, ideologia se non pur di stile esistenziale.  Ma so bene che l’esito esistenziale, non riscalda nessuno, essendo sostanzialmente disincarnato oltre che ancor meglio disincantato, nel nuovo potenziale reincanto delle cose, che leverebbe necessariamente, di mezzo (ed  in qualità di mezzzi), tutti  i termini di paragone utopici, ipotetici, noumenici, o come meglio vorremmo nominarli.   Quello stile d’esito esistenziale, beninteso, non cambia comunque la propra posizione nella (e di) visione del mondo, con i suoi motivi fondanti, le sue insopportazioni originarie, il fastidio insuperato ed insuperabile (quindi ben diversamente che negli esiti da “conversione”) per una antropologia che si avverte e poi si riconosce come totamente altra - antitetica - alla propria.  Quelle ragioni rimangono intatte e quindi di conseguenza non si passa (non si può passare) nel campo che costituisce  lo spazio interpretativo ed espressivo di chi si configuri  o reputi nemico.  Infatti nelle “conversioni” si cambia solo il posto del nemico, la maschera sociale del nemico, dentro e fuori di sé.  Invece in tali rarissimi casi (in cui non ci si converta ma solo ci si modifichi), il nemico non solo resta lo stesso, ma si essenzializza a tal punto che possono andare perfino in secondo piano le pure caratteristiche fisiologiche dell’odio e/o dell’insopportazione, che valgono per i più. Pulsioni concrete che sono difficilmente superabili, peraltro utilissime ai dominanti, nella guerra eterna dei pochi contro i molti. Si potrebbe persino dire di tutti contro tutti, in termini storicamente percentuali se non fossimo trattenuti dal dover doverosamente computare i sempre tanti o troppi “a parte”, ovvero gli osservatori in attesa dei risultati finali ed i pochi pacifisti convinti,  tutti in ogni modo trascinati prima o poi, volenti o nolenti, nel procurato meccanismo.  Quell’esito esistenziale, però cambia proprio (se avviene realmente e si conferma oltre ogni soprassalto, ritorno ed autonegazione) la procedura più rara del vivente nel senso che lo arricchisce di una sorta di doppia vita (alla Benn, alla Stevens, alla Pessoa) della sensibilità allargata, che si potrebbe leggere riccamente intellettuale o almeno minimamente spirituale.  Non necessariamente spiritualista.  Vorrei però chiarire meglio questa linea di potenzialità, essendo essa, come tutte le dimensioni attinenti alla vera ricerca interiore, ben difficile persino da avvicinare. 
  • ...
  • Riconoscere nella “forza” la più grande liturgia del vivente e contemporaneamente ammetterne il maggior ruolo nella storia dell’umano (e non solo, ovviamente) significa in fondo ammettere la violenza (=azione/reazione, auto/supervalutazione, competitività) come elemento innato, insuperato ed insuperabile se non con una violenza su di sé (o sul contesto che implica il sé) commisurata alla dimensione che si reputi (o si sia costretti a pensare) di dover, appunto, superare.  Tutta la paideia di Nietzsche, al proposito, è centrata, oltreché rivelatoria e storicamente determinante, anche se è rivolta esattamente al contrario delle visioni perlopiù da molto tempo ritenute credibili e comunque massivamente diffuse.
  • ...
  • La nemesi del vivente è che, comunque, non si sfugge al potere della violenza (sugli altri o su di sé).
  • ...
  • Non per niente nella maggior parte delle stesse pratiche spirituali occidentali ed orientali, per superare la violenza nel sé ed attorno al sé, si studiano, si suggeriscono, si propugnano, si propagandano ed infine si praticano innumerevoli divaricazioni della difficilmente eliminabile pulsione vitale, sino al punto finale e “stravolgente”,  nel riassorbimento,  nell’annullamento o nell’estinzione.   Si opera, in tali casi, della “violenza su di sé”,  anche se essa viene gestita primariamente e con molta attenzione procedurale come violenza ermeneutica, ovvero cercando di deprivarla di tutti quegli aspetti innegabilmente cruenti che sono proprio quelle dimensioni vitali e quegli esiti comportamentali che andrebbero, secondo tale logica teorico/pratica, superati.  Esistono anche vie ove non c’è, invece, alcun tentativo di soppressione della violenza in genere o della “violenza su di sé”, od almeno essa non si configura come negativamente primaria, proprio perché, in tale finalizzazione, l’elemento di forzatura è addirittura proprio uno - od il principale - tra gli strumenti realizzativi.  Comunque in tutti i casi - ed, a tal punto, oltre ogni declinazione interpretativa di valore (etico) - la violenza, diversamente intesa, gestita e comunicata, è dimensione immemorialmente centrata e centripeta: crux docet.  Qui come simbolo polivalente. 
  • ...
  • E’ quindi chiaro che  mettere la “forza” al centro del mondo (dell’universo referenziale) per la Weil o per Nietzsche è la medesima cosa, con opposta causale smarcante, semplificando pur al massimo, l’una di “grande malattia” e l’altro di  “grande salute”.   E questa potrebbe apparentarsi - in prima lettura - alla pura sostituzione (della già da me definita “conversione” - termine usato in versione convintamente  anodina per non essere gratuitamente blasfemo) ma di dimensione infinitamente più implicante, perché di caratura ontologica.   Ancor più che politica, sociale o caratteriale.   La prova è che la Weil considera, così,  l’archetipo forza: “...L’impero romano, a mio avviso è il fenomeno più funesto per lo sviluppo dell’umanità che possiamo trovare nella storia...”,   (3)  ovvero come spartiacque assoluto della comprensione vitale dell’umano. 
  • ...
  • L’odio secco ma inarrestabile (genetico?) della Weil per Roma e per l’autorappresentazione dei romani come popolo destinato al dominio sopra ogni altro popolo del mondo, spiega proprio, in modo forse altrimenti ineguagliato, che tale “senso di sé” è l’unica spiegazione possibile del perché una piccola urbe e non una congregazione diversamente identitaria, episodio isolato nella storia, sia divenuta l’intero orbe, l’intero orizzonte d’immense terre. La forza come valore assoluto, valore di concretezza e di astrazione assieme, al quale si può sottomettere ogni altra dimensione, personale e comunitaria, perché in quella, sola, evidentemente, vissuta come un destino sovrumano, tutto si concentri giustificato e tutto giustificante e Roma possa, per secoli e secoli, apparire come una fede di vittoria sacrale innegabile, oltre ogni sconfitta reale o potenziale.
  • ...
  • “...I Romani hanno saputo maneggiare a loro uso e consumo i sentimenti degli uomini. E’ così che si diventa  padroni del mondo. Ogni volta che il potere s’accresce, esso suscita attorno a sé sentimenti diversi; se per capacità o buona sorte, il potere riesce a intimidire quei popoli che daranno - a chi già lo detiene - il metodo per accrescerlo ancora, ebbene questo potere andrà lontano. I popoli e gli uomini collocati ai confini dei territori sottomessi al potere di Roma hanno provato, come tutti i mortali, di volta in volta, la paura, il terrore, la collera, l’indignazione, la speranza, la tranquillità, il torpore; ma tutte le emozioni che provavano, in ogni momento, erano esattamente quelle che servivano all’interesse di Roma, e tutto questo grazie alla abilità manipolatoria propria dei Romani. Perfezionare in maniera tanto notevole un’abilità simile implica senza dubbio una sorta di genialità, ma altresì una brutalità senza fondo e senza rispetto nei confronti di nulla”.  (4)
  • ...
  • Ecco: “...senza rispetto nei confronti di nulla...”...  è la comprensione profonda della questione, perché essa agisce prima di tutto in sé che negli altri.   ¿Sarebbe forse come dire: con rispetto nei confronti di tutto?  Non sembri un escamotage dialettico.  Una pulsione cieca e consapevole assieme (comprovata - nella storia-  anche se rara) di un destino vissuto come un’evidenza identitaria, che finché dura in tal guisa è insuperabile e diviene, poi, qualora persa, l’archetipo di ogni altro, seppur apparentemente diverso, senso del potere imperiale.  Si trasferisce, necessariamente, in modalità sempre diverse e sempre legittimamente criticabili, ma la sostanza prima rimane invariata.   Come scrivemmo in un nostro ELOGICON: la volontà di potenza si serve della menzogna, ma la volontà di potenza non è menzognera.  Tale lettura non ci appare poi una parodia del positivo perché comunque, anche al negativo, tale ordine di struttura ha richiesto (richiede e sempre richiederebbe) una giustificazione insuperabile.
  • ...
  • Ciò nonostante ribadiamo che proprio l’aver riportato tutto il processo di comprensione alla sua scaturigine massimamente essenzializzata, potremmo dire all’impulso primario che precede ogni eventuale e comunque successiva concettualizzazione (ogni teorizzazione ed ogni eventuale filosofia), come dominazione/potenza ineguagliabile (anche se per la Weil parzialmente superabile in un contesto di personale totale rifiuto), inibisce primariamente l’immiserirsi nelle illusioni, nelle false rappresentazioni di coloro che non hanno ben chiaro ciò che si determina davvero dentro la volontà di potenza, per chi la possiede come un dono, un patto e correlativamente un’immane responsabilità. E per chi, al contrario, la subisce.  Non perdendosi così totalmente nelle diatribe dell’umano troppo umano non comprensive del fattore primario in questione, che invece innerva la consistenza storica riconoscibile da sempre e, probabilmente, per sempre.  La stessa valutazione di merito così scompare, si giudichi pure a torto od a ragione, di fronte all’immane potenza dell’evidenza medesima, sempre costantemente riproducentesi sotto i più diversi cieli.
  • ...
  • Neanche perdendosi in tutte le scolastiche, di ogni genere e grado, con le loro  spropositate superfetazioni sofistiche, che, se nel “positivo” si presentano come meccanismi insostituibili di Maya, nel “negativo” si registrano esclusivamente al servizio efficace della pulsione primaria = vera/falsa coscienza ben gestita dal potere che persegue scientemente la volontà di potenza. Così spazzando via nebbie e caligini, rimanendo chiara, all’interno, seppur forse per molti disperante, all’esterno, un’evidenza spietatamente leggibile, anche se l’uomo ne ha comprensibilmente terrore e conseguente prevalente rifiuto. 
  • ...
  • ¿In tale direzione a chi può piacere convintamente e conseguentemente la Weil?   Credo che non possa che dispiacere a troppi - e sempre più -  o magari per diversissime ragioni potrebbe piacere ad altri, ma forse non a molti tra quelli presumibili.
  • ...
  • ¿Potrebbe piacere, proprio oggi, a quel tipo di intellettualità europea di marcatura radicale, che però non possiede più il naturalissimo odio di matrice proletaria contro certi agi, certi moderati lussi, certi occhiuti distacchi e certi corti circuiti che fecero eroica e miserevole assieme una certa piccola borghesia spiritualista (come l’avrebbe definita la Weil)  che, a differenza sua, non piangeva certo necessariamente allora (e  - traslatis verbis - certamente neanche ora) per “la carestia in Cina, il fascismo in Spagna,  lo sfruttamento degli operai,  il meccanismo paranoico del potere”?  (5)     ¿O magari ne soffriva, altrimenti, in modo altrettanto reattivo, virile e comunitario?  E con ben altre visioni e soluzioni.   ¿Potrebbe forse piacere ad altre insopportazioni antropologiche intellettuali e viscerali ed apparentemente inestinguibili che hanno fatto comunque la vera storia intima, rancorosa e grandiosamente fosca delle immani ribellioni di diversa coloritura degli ultimi secoli?  E cerco di raffigurarmele a 360°.   Riesce proprio difficile crederlo.
  • ...
  • Non potrà quasi più piacere a nessuno di tale pur varia tipologia, anche perché (per rimanere sempre a lei) le marcature di certa piccola borghesia spiritualista si sono oggi estese con una poco resistibile potenza avviluppante a tutte le masse (almeno nel primo mondo) uscite dall’indigenza primaria e pervenute a fare da sostanziale collante, da stressato cane da compagnia se non proprio da cane da guardia, alle lontane ed irresponsabili (sugli altri) élites ultraliberiste e finanziariste e nuovamente splendentemente usurocratiche.  I nuovi dominatori. 
  • ...
  • So che sembra spietata tale analisi e non me ne compiaccio affatto, proprio perché le sostituzioni consolatorie, le rimozioni forzate e tutti i transfert di ogni ordine e natura, hanno portato grandi masse ad avere una vita materialisticamente appercepita come ben più vivibile, anche se tutto ciò avviene pur nel nichilismo di massa e nella confermata vigliaccheria, spesso persino antiutilitarista in quanto incongrua, del calcolo costi/benefici (...basti vedere cosa avviene nelle sempre ripullulanti guerre e quali siano i risultati delle tante indagini a livello europeo sulle predisposizioni dei “consumatori  occidentalisti” a reali ed ipotetici sacrifici bellici) tramite anche la nuova prepotente emersione delle esisgenze narcisistiche e di genere vario, al posto dei sacri diritti d’antan.  Tutto comprensibilissimo, anche se indegno. E quegli intellettuali che non la amano, se non come etichetta buona per entrare in contatto con un minimo di propria supposta verità, si raddoppiano innaturalmente (e potenziano ovviamente) con quelli che non hanno mai potuta amarla per la incongrua decostruzione dell’epifania della forza, epifania sommamente disturbante per certo progressismo comodista attuale, ma anche per troppo moderatismo destrorso accomodatorio tragicamente privo di potestà di visione.  
  • ...
  • Così la Weil rimane un’eccezione umana, tanto meno amata, poi, quanto metta in contraddizione crescente tutti coloro che “...avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato... (...) ...coloro che sono capaci, oggi come un tempo, di individuare la forza al centro dell’intera storia umana, vi trovano il più bello e il più terso degli specchi”.   (6)  La forza (della/nella speculazione evidente) mette potentemente in crisi - oltre ogni arrampicante dialettica - il processo linearista. Forse come poche altre evidenze.
  • ...
  • Ancora, la forza, al centro dell’intera storia umana disturba tutte le anime belle (che non sono, ovviamente le grandi anime) di ogni colore, proprio perché la Weil comunque sa di cosa parla, sapendo cosa intimamente crede, ovvero: “...Conoscere la forza vuol dire, pur considerandola quasi sovrana in questo mondo, rifiutarla con disgusto e disprezzo.  Questo disprezzo è l’altra faccia  della compassione rivolta a tutto ciò che è esposto alle ferite della forza”. (7)    L’altra faccia della medaglia sarebbe l’amore. Ma, in tale visione, necessariamente solo per i deboli (sempre che si credano anche i giusti e le vittime), l’amore, che dovrebbe comunque, per affermarsi, far sempre paradossalmente ricorso, ad una equiparabile forza e volontà di potenza.  Come in effetti è avvenuto, altrimenti ma sempre, nella storia.
  • ...
  • Ora, da noi, il rovesciamento definitivo dell’illusione progrediente non viene dalla più o meno appariscente e resistente sdrucitura degli apparati delle fedi, delle ideologie e delle più diverse logiche di accomodamento e di sviluppo delle masse montanti del mondo, ma proprio dall’avvertito pericolo incombente della riemersione potente della forza.  Sospettata come potenza sempre meno controllata e controllabile, per quanto gli interessati al dominio (nel raccontare il “positivo” - perché quelli del “negativo” non soffrono alcuna problematica) si affannino a narrare il contrario.  Ancor più pericolosa.  Il tutto con l’aggravante della massimizzazione tecnologica (che non diminuisce ma anzi amplia comunque il carnaio, potenziale e reale, del contesto) e dell’esplosione del numero, tutte cose che per definizione, come direbbe Girard, portano all’estremo, se non, in diversa episteme,  al dia-ballo.
  • ...
  • Quest’evidenza staglia in piena attualità, ciò ch’è sempre stato attuale, ma che riemerge periodicamente dal cono d’ombra delle varie strutture imperiali, diversamente dominanti, strutturate e mimetizzate (e necessariamente mitizzate, come dice anche Augé in Poteri di vita poteri di morte, quando parla dell'ideo-logia come ideologica strutturante qualsivoglia sistema di convivenza), appena crisi strutturali determinino lo svelamento (endogeno od esogeno, parziale o totale) degli apparati di copertura. 
  • ...
  • ¿ Dunque... Passare dal negativo per giungere al positivo?  Ovvero cogliere come momento di svelamento dell’essenzialità nel nostro processo di comprensione del presente passaggio epocale il processo di esaurimento totale dell’illusione razionale (o meglio maleficamente razionalizzante, in quanto mette comunque al suo servizio ogni altro possibile strumentale affidamento irrazionale)? 
  • Note:
  • *   Lettera a Georges Bernanos, S.W., in Diario della guerra di Spagna, Farina Edit., 2018, pag. 47.
  • 1) Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene, Einaudi, 1995, pag. 244.
  • 2) Giacomo Leopardi,  Zibaldone di Pensieri: “...Quasi come se – per dirla con Berni – ei dicesse cose, mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero...”
  • 3) Simone Weil, Il libro della forza, Farina Editore, 2019, pag. 104.
  • 4) Simone Weil, cit., pag. 112.
  • 5) Simone Weil, cit.,  pag. 9.
  • 6) Simone Weil, Il poema della forza, Farina Edit., 2016, pag. 11.
  • 7) Simone Weil, Il libro della forza, cit., pag. 151.