• “...¿Dire cose, dire parole?...”
  • di
  • Sandro Giovannini
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  • “...Quasi come se – per dirla con Berni – ei dicesse cose,
  • mentre gli altri dicevano parole e di queste, spesso, si accontentassero...”
  • (Leopardi, Zibaldone di pensieri)
  • ¿Ammesso e non concesso che Leopardi abbia ragione (e ho forte sospetto che abbia ragione) quale sarebbe il meccanismo logico per avvicinarsi a comprendere il rapporto cose/parole?
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  • Per cercare di comprenderlo un poco meglio, al di là della difficilmente definibile capacità intuitiva, si tratta, a mio avviso, di scegliere un esempio facilmente (si fa per dire) risalibile.     E l’esempio potrebbe (tra infiniti altri) essere questo.
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  • Una persona di indubbio valore  (si capisce da come argomenta), nel caso specifico un docente, dice che un suo alunno, reputato da tutti geniale, ha tradotto un testo da una lingua classica all’italiano in modo eccessivamente libero.  Insomma... è un alunno dotato, vezzeggiato da insegnanti e parentela, e, al voto non troppo basso (ma insufficiente) datogli dal docente, ben crede di aver motivo di risentirsi. Il docente, allora sostituto, sente, per approfondire, il titolare, il quale gli consiglia di alzare il voto, cosa che il docente sostituto non fa.  E fin qui la serie di “cose”.  Ma il docente sostituto, indubbiamente colto, trova, legittimamente  (ben comprensibilmente), le “parole” per giustificare la “cosa in sé”, o forse il noumeno, ovvero quella da lui giudicata come una traduzione eccessivamente libera e fantasiosa, meritevole d’attenzione certamente, ma punibile per l’eccessivo scostamento rispetto alla “cosa”(...sempre, si fa per dire) del testo.  Sembrerebbe che si sia nel regime delle “cose”, ma sappiamo tutti che le “cose” e le “parole” hanno fra di loro un rapporto molto più complesso di quello che pure tutti intuiscono per naturale intelligenza e/o per studio più o meno approfondito.
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  • Ma a questo punto, fra le varie riflessioni, tutte stimabili, che il docente sostituto fa, una di queste richiama particolarmente la mia attenzione. Cita Sanguineti (... proprio a fortiori della propria tesi) come esempio di capacità di tradurre con grande libertà ma assieme fedeltà (forse "profonda") il testo di riferimento.
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  • Ebbene, nel 1991, nella collana esordiente “Tabulae” del paraeditoriale Heliopolis, pubblicammo in tiratura pregiata proprio una traduzione di Sanguineti da Catullo intitolata “Omaggio a Catullo”, con prefazione del caro amico di Sanguineti e mio Franco Brioschi, stimatissimo docente di "Teoria della critica letteraria" alla Statale di Milano. Questo portare Sanguineti è, per me, “l’interruttore” tra parola e cosa.  Ma non per fatto personale, ma perché quel fatto personale specifico collega/discollega eminentemente cosa e parola. Vado a ripetermelo. Ma per farlo devo (non agevolmente) metaforizzare in parallelo questa versione di Sanguineti degli anni ‘90 di Catullo ad una mia storia di adolescente. 
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  • Quando imperversava il primo americanismo, tra i ‘50 ed i ‘60, che era fatto di tante e tante “cose” che però  impattavano le “parole” molto meno di quanto abbiano fatto poi nel secondo o meglio terzo americanismo “all’italiana”, io non avrei mai indossato dei blue-jeans per questioni ideologiche. Dopo gli anni ‘80 non trovai più motivi incidenti ed identitari per non farlo perché valutai che tutte le motivazioni precedenti s’erano usurate e definitivamente sfilacciate (i buchi/strappi sulle ginocchia) e non significavano più nulla. I cow-boys e nemmanco i teddy-boys avrebbero avuto collegamento riconoscibile con quei derivati (terzoritenzionali) di moda.  Avevamo operato sicuramente (non per merito ideologico ma per pura implementazione di mercato) tanti di quei falsi, successivi e divaricanti, su quel feticcio, quella “cosa/parola”, ovvero capaci (o meglio costretti) a fare per usura ciò che non avremmo mai potuto fare per verità.  Ancora più squallidamente, ma si sa che se si cammina nella polvere ci si intorbida. Ma non divaghiamo e torniamo a Sanguineti, ove però il mio flash apparentemente azzardato forse ci sosterrà nella disamina.
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  • Perché nella coltissima prefazione accademica di Brioschi  è infatti centrale la chiave del “travestimento”, che però è ancora insospettabilmente solo la maschera di scena, di coloro che sanno rimandarsi dei codici (vulgo ammiccare), tipo Petrolini/Butterfly, “...un po” per celia ed un po” per non morire..” (di noia) e non il “travestitismo” di tutti i sensi e di tutti i campi che furoreggia oggi. Qualcuno di rigoroso, che magari non sono proprio io, potrebbe dire che dal travestimento deriva, in ultima e disgraziata istanza anche il travestitismo, ma forse, allora, dimenticandosi proprio il decisivo originario ruolo delle persone (delle maschere di scena).
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  • Brioschi,  in Sanguineti,  parla di abbassamenti tonali,  escursioni erotiche, solecismi  grammaticali, anacoluti sintattici, con la permanente sostituzione della sua (di lui)  “persona” (maschera) a quella di Catullo. Personalmente, avendo certo intuito ma forse senza aver potuto, se non mediatamente poi tramite Brioschi, ben riconoscere tutte le “parole” sopra le “cose” (o forse "distanti”), con  una appercezione, diciamo forte, ben in parallelo.  
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  • Direbbe un altro: ma hai appena sfiorato il problema... che avevi introdotto con tanta sicumera! (stile:  FIRMATO DIAZ)...
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  • Sicuramente... mica l’archeologia di tutte le scienze...  come ne L'Ordre des choses, The Order of ThingsDie Ordnung der Dinge, e poi nel titolo definitivo Le parole e le cose, per obbedienza al contesto... (guarda caso...proprio)   per   l'episteme di un'epoca.
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  • Potevo solo cercare di trovare/investigare quel collegamento/interruttore, sicuro, indubitabile, seppur discutibilissimo, ove, da sempre e per sempre, cose e parole si danno la voce.