• Gorlani Maritare il Mondo LE TRE VIE

  • Solstizio invernale
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • (da: Maritare il mondo) 

 

  • I
  • L’inizio dell’inverno è liberazione dall’oscurità che non ci ha mai attanagliato.   Il sole torna a camminare verso nord.  Nei sei mesi precedenti si era attardato tra le ombre dei morti.  E tuttavia gli alberi portavano foglie e cantavano.  Ora il canto è diverso; il freddo morde i rami spogli, mentre cade la neve, ma c’è una nota cristallina, come una stalattite di ghiaccio che va dal cielo alla terra.  Si cerchi il segreto d’una simile ierogamia, affinché anche il buio risplenda.  Le giornate sono brevi, girano veloci.  Inutile è darsene pena; insulso è aggrapparsi alla quantità delle cose reputate di volta in volta gradevoli o sgradevoli, brutte o belle.   L’intelligenza insopprimibile intuisce la libertà, il sorridere di là dagli opposti, pur immersa in un oceano agitato da forze scomposte.  Alla libertà si può attingere con semplicità e immediatezza. Come?  In che modo è possibile sciogliere nodi apparentemente insolubili, balzare al cuore della sofferenza, recidendo i legami che ad essa avvincono?  Ecco albeggiare la Conoscenza eminente, l’unica alla quale val la pena dedicarsi.  In seguito – e non in senso temporale – si celebreranno i fuscelli secchi e i teneri germogli, ma non saranno né gli uni né gli altri ad ispirarci.   Si vedrà la meraviglia in entrambi, nella tristezza, nella gioia, nel franare delle speranze: sfumature di un unico accordo.   Le parole si trasformeranno in gabbiette per grilli; una folata irruente disperderà gli intrecci d’erba palustre e ne restituirà i prigionieri all’aperta campagna.   Affiorerà una voce capace di dire il tutto in ciascun suono.   Si parlerà con se stessi, soli, senza potersene auto-compiacere o disperare.   Si conoscerà il proprio vero volto, il proprio nome originario.   Ci si sarà persi, privi di qualsiasi conoscenza oggettuale.   Che rilevanza può avere stare qui o altrove?    E non poter dire quali siano le differenze tra una direzione e l’altra?  Tutti finiscono con lo smarrirsi; che almeno sia il Sublime ad accogliere il risvegliato.  Non c’è niente nella coppa caduta nel prato sotto il davanzale ornato da gerani; le poche gocce di liquido dorato che essa conteneva si sono disperse tra radici e steli.  Come si chiamava l’antico abitatore del calice?   Chi era?   Nessuno lo sa.   Nell’aria aleggia un profumo, l’eco di un accordo amorevole, tanto intenso da penetrare nel Nome impronunciabile.   Il sole ridistende le braccia sulle querce rossicce al solstizio.   Possa la sua luce illuminare il tragitto di chi si sottrae alla schiavitù, avanzando con pacata fierezza, pur circondato da marasmi di dubbi e paure.

 

  • II
  • La bellezza della natura è inesauribile, non c’è fine al contemplarla.   L’uomo che si sposta di luogo in luogo con frequenza, il turista, l’homo saecularis, non vede nulla.  L’unico suo orizzonte è l’avidità insaziabile, indispensabile ad impedire l’affioramento alla coscienza dell’insignificanza nella quale egli si è auto-confinato.   «Osserviamo dunque, dalla finestra della quiete e della contemplazione, come la volubile ruota della vita secolare si volga nella sua volubilità, e allora potremo cogliere la grande incostanza con cui si agita circolando la coscienza secolare». (1)    Se si è desti, invece, una valle, l’azzurro intenso del cielo decembrino, un cantuccio d’Appennino, una rupe circondata da calanchi diventano aditi sull’infinito.   E non si desidera più andare a visitare altri territori, regioni lontane, mostre, musei, ossari.  Ma nemmeno differenti mondi, paradisi, purgatori, inferni.  L’universo in una corolla raggrinzita, in una ghianda, nella cima tondeggiante della collina è cibo sufficiente alla fame d’Ineffabile.   Lo sbalordimento reverenziale che ci trasmette un angolo di bosco merita di essere considerato attentamente.   È opportuno fermarsi, scavare sotto la superficie dell’apparenza, specchiarsi nel vuoto, nel silenzio.  Chi sono, buon Dio, chi sono?   Cos’è questo?   Che cosa sono l’aria, il respiro, le nuvole?   Da dove emergono i pensieri?   Cos’è il ruotare degli astri, tra fulgore e tenebra?   C’è un fondamento, un sostrato al divenire inarrestabile?   Lo si può fissare?   In esso ci si può riconoscere?   Il punto in cui si incontrano e fondono Dakshinayana (il corso discendente del sole) e Uttarayana (il corso ascendente dal Tropico del Capricorno al Tropico del Cancro) è invisibile, impensabile, sfugge ad ogni determinazione, ma lo si può “meditare”.   Ovvero è possibile concentrarsi su di esso, abbandonando ogni pretesa di sapere, di giudicare, di confrontare.   Soltanto così può emergere l’onnipervadenza della coincidentia solstiziale.

 

  • III
  • Il viatore immobile esce abbracciato alle figure che il vento suscita con sterpi e polvere.   Procede, mentre alcuni passanti gli gridano: «Perché non ti affretti? Non cedere all’inerzia. Vivi, vivi».  Frasi insignificanti.  Un’eminenza grigia, primario d’ospedale psichiatrico, sentenzia: «Sta sprofondando nella catatonia. Avrebbe bisogno di un buon vaccino messaggero rinvigorente.  Morto, malato o ancora vivace, verrebbe rimesso in circolo».   È patente come costoro non “vedano”.   Le immense conglomerazioni stellari sfiorano le loro palpebre senza che ne siano consapevoli.   Elevano cecità ed ignoranza a paradigmi virtuosi ai quali ci si deve conformare.   Il viatore assorbe in sé la molteplicità, anche l’orrore della stupidità più bieca, e valica la Soglia del Sole.   Stupidità e cecità, accompagnati dai loro numerosi corollari, sono pozioni terribili in grado di danneggiare i migliori tra gli eroi o avatara.   Si pensi ad Eracle devastato dalla tunica avvelenata offertagli dalla gelosa Deianira su suggerimento del centauro Nesso.   O a Gesù di Nazareth che volontariamente si lasciò inchiodare alla croce del supremo sacrificio.   Perfino Shiva Nilakantha, dalla gola blu, il compassionevole Dio degli Dei, accettò di ingoiare halahala, il liquido distruttivo scaturito dalla zangolatura dell’oceano primordiale perpetrata da deva ed asura per produrre l’amrita. Sono numerosi i veleni nei quali ci si imbatte lungo il Cammino del Sole; solo la Conoscenza può renderli inoffensivi, risolvendoli in sbuffi leggiadri.

 

  • IIII
  • Il solstizio è una lama che fende, separa ed unisce.  La lama è Janua Coeli, presieduta da Giano, axis mundi, palo sacrificale: quercia secolare alle cui radici, in una cavità, vigila il Lingam, segno aniconico di Paramashiva.   Né Brahma, né Vishnu riusciranno mai a trovarne la cima o il fondo.  Gli uccelli amano questo albero sul quale sostano spesso, si incontrano, amoreggiano, gorgheggiano.   Le sue radici si estendono sino ad incontrare quelle di altri roveri giganti, sostengono il territorio e lo proteggono.   Ai solstizi e agli equinozi ci si raccoglie sotto le sue branche poderose: ad occhi chiusi, si penetra nella terra e si sale in verticale lungo il tronco massiccio.   Non si può vedere il cerchio formato dalle due linee che inevitabilmente si congiungono: circoscrive la profusione dei mondi, una tra le tante possibili.  I momenti astronomici fondamentali sono neumi in uno spartito musicale.   Ricordarsene, viverli significa risvegliarsi all’interno del Canto, non da estranei inebetiti, chiusi in una bolla d’illusoria potenza, bensì come indigeni con l’occhio interiore focalizzato sull’“in Sé”. Intonando le quattro note primarie, di cui il solstizio vernale è quella dominante, si impara a considerare la coincidenza del macrocosmo col microcosmo, del divino con l’umano.   Del resto, senza ritmo non si danno azioni efficaci; qualora si privi l’esistere delle appropriate scansioni esso regredisce ad amalgama confuso, ricettacolo a continue sofferenze.  Come si può creare, manifestare il dharma, se non si aderisce agli accenti del Signore della danza, custode delle foreste, delle montagne con i suoi fiumi, degli oceani e di tutto ciò che batte e respira?   «Per Thomas Traherne Dio può essere conosciuto solo attraverso la creazione, la quale acquista significato quando è rispecchiata e ricreata dalla mente dell’uomo, il cui dovere (morale, spirituale, religioso) è ricreare perennemente il Mondo e offrirlo a Dio». (2)    Ricreare il mondo non significa strepitare o agitarsi vanamente, ma contemplare, contemplare e lasciar agire in sé il Tao.   In uno placido e terribile, formale e informale, Shiva Nataraja riassume qualsiasi contraddizione e protegge dalla follia, oggi chiamata normalità. Non riconoscerlo condanna alla più miserabile inconsistenza, induce a sprofondare nella vacuità, nell’auto-annichilimento.  Si è “liberi”, certo, di permettere all’inerzia di possederci, ma è altrettanto sicuro come tale scelta ci lascerà follemente disperati.
  • Note:
  • 1) Pietro di Celle, monaco benedettino, cit. in R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2020, p. 43.
  • 2) G. Ortolani, Nell’imminenza del pericolo spirituale, in W. de la Mere, L’enigma e altre storie, Edizioni Hypnos, Milano 2022, p. 395.