• Gorlani Maritare il Mondo LE TRE VIE

  • Il gioco
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • (da “Maritare il mondo”,
  • La finestra Editrice, 2023,
  • Lavis (TN), www.la-finestra.com)
  • Si trattiene il gioco sulla punta della lingua e lo si ingoia. Giocare col mattino, in ogni momento carezzare il paradosso. Che il giorno trascorra veloce o lento non ha la minima importanza.  “Veloce, lento”, che cosa significano?   Giocare è inalare il fumo dissolto attorno alla montagna ove sta Shiva semicoperto da una pelle.   Con un dito persuade la tigre a trasformarsi in seggio e vi si asside sopra.  Se si è fumato una volta è per sempre.  Se si è smesso un istante è per sempre.  È il mondo che arde, non la sacra gangia nella pipa verticale custodita da Balaganesh.  Pipa impalpabile che il gioco richiama e allontana.   Erba intimamente fusa alla carne: sparisce e ricompare col respiro.   È un gioco girovagare, riposare, mangiare, meditare, osservare lo strano viso dell’“altro”.   Ed eziandio sorridere o lamentarsi o tentare l’uscita dal labirinto.  Le volute dell’incenso assumono le forme delle karika alla Mandukya-upanishad; eccone una scheggia: «Questa è la suprema verità: nessuna cosa è mai nata». (1)  E il fornello freddo trasforma lo yogin in pietra vivente assai più del fornello ardente.  I piccioni, le gazze, le ghiandaie e altri uccelli si posano sul suo capo, sul naso, sulle spalle; il muschio cresce sulle sue braccia, l’edera lo incorona.  La pelle gioca coll’acqua gelida, con la neve, col fuoco, con l’aria invernale.  Non c’è nulla da sentire che non sia ananda.  Lo rivela il prana che scende e si diffonde attraverso le settantaduemila nadi, ciascuna delle quali contiene a sua volta trilioni di universi.  La cecità osa dire “io”, sottolineandone l’inconsistenza con un breve cenno.  Osa dire “nasco”, “muoio”.  Il principio di  non contraddizione, il principio di ragione sufficiente continuano ad esercitare la loro autorità nel vicolo cieco che impone un giogo funesto, giacché proteggono dalla follia. Gli smarriti, in fila o sparsi, borbottano minacce, promesse, orrori, ricchezze. Chiamano l’incubo “unica realtà”. Non vedono altro, portano il fardello del “peccato” e nelle loro enciclopedie si fregiano di spiegare scientificamente la tragicommedia dell’esistere. Un’ombra terrificante compare nel sonno e sfiora il dormiente. Non ha consistenza: tocca le unghie sporche del vespillone e si dissolve. Il burattino trema.  L’intrico infittisce, le notti e i giorni di Brahma si uniscono in ghirlande.  Inizio e fine sono supposizioni infondate. Nessuno vedrà mai alcuna conclusione, né una prima volta. Mentre si guarda l’ignoto se ne ha già contezza. Si conosce tutto prima di conoscere.  Uddalaka Aruni chiese al figlio: «Shvetaketu, mio caro, dato che sei così soddisfatto e orgoglioso della tua conoscenza, hai mai chiesto quell’insegnamento per cui ciò che non si era ascoltato è come se lo si fosse ascoltato, ciò che non si era pensato è come se lo si fosse pensato e ciò che non si è conosciuto è come se lo si fosse conosciuto?». (2)   La chiave del labirinto rivela l’inganno: sembra un serpente, ma è una corda animata dal chiaroscuro delle foglie.  Il motivo dell’apparire erroneo non sta nella corda, ma proviene da una fonte estranea ad essa.  Ciò implica dualità, laddove si vuole indicare la non-dualità: l’aporia è insita nella sostanza delle parole. Paramashiva non è toccato né dalla dualità né dalla non-dualità.  Eppure tutto lo riguarda.
  • 1) Gaudapada, Mandukyakarika, Advaita Prakarana, 48, Asram Vidya, Roma 1981. 
  • 2) Chandogya-upanishad, vi 1, 3. Cit. in H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, Mondadori, Milano 2001, pp. 281-282.