• Straw dogs

  • A proposito di due libri
  • “Il dramma di Zarathustra” di Hans-Georg Gadamer,
  • a cura di Carlo Angelino, Il Melangolo, 1991,
  • Il ‘terribile segreto’ di Nietzsche
  • di Carlo Angelino, Il melangolo, 2000.
  • Sandro Giovannini
  • Da giovane mi sono seduto, inconsapevole, (...non c’erano ancora tutte quelle targhe in tedesco sui pietroni), sulla panchina proprio vicino alla “...possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlej, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero...”. Inconsapevole, perché non conoscevo ancora la rammemorazione sulla “...storia dello Zaratustra. La concezione fondamentale dell’opera, ‘il pensiero dell’eterno ritorno’, la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta - è dell’agosto 1881 - camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide...”. (1) Senza le targhe... avevo infatti già letto abbastanza Nietzsche, ma tale riferimento dall’Ecce Homo mi era sfuggito, forse perché la sua carica di virulenza paradigmatica l’avrei potuta forse assimilare (ma non allora) all’intuizione discriminante di cui parla tutta “...la tradizione classica indiana - tradizione filosofica, psicologica, spirituale e metafisica - specializzata nella comprensione teorico-pratica dell’intuizione”, (2) o, in campo occidentale, quella che, ad esempio, Jung denominò “immaginazione attiva”. Solo più tardi, ci arrivai, nella perseguita ricerca, tra ripetuti processi assimilativi e differenziativi. E non mi ricordo che altrove N. richiami tale evidenza (violenza) illuminativa a proposito di altri plessi del suo pensiero che pure procede di continuo nel dramma (...prevedibilmente ma conseguentemente sempre poco accomodante) determinato anche dall’intrinseca pericolosità della volontà di potenza e/o volontà di verità. Lo sconcerto “umano troppo umano” dei suoi più vicini corrispondenti e persino dei cari amici, alla fine, ha del facilmente comprensibile, ma porta in sé, soprattutto per chi come Overbeck si esprime, in quel tempo, con concetti molto simili (3) anche l’incomprensibile del differenziale tra personalità perseguita ed essenza esperita. C’è in più che in quegli anni tendevo a tenere lontano da me proprio il “Così parlò...”, per una sorta di recondito e forse inconfessabile fastidio proprio verso quel libro, mentre gli altri li leggevo sempre a riprese, con rinnovato slancio. A nessuno interesserebbe conoscerne le complesse motivazioni e quindi su questo potenziale vortice di elucubrazioni, mi trattengo, sostenuto ancor più dall’acuto passaggio nel saggio di Gadamer. quando accenna: “...Heidegger si è risparmiato la tendenza consueta a sbarazzarsi della fase del Zarathustra e, al contrario, trova nella figura tragicamente minacciosa di Zarathustra che lotta per affermare il suo coraggio della verità, la più coerente espressione della contraddizione in cui si impigliò il circolo magico della riflessione caratteristica del concetto ‘moderno’ di autocoscienza.”  (4)
  • ...
  • Successivamente affrontai per un tempo, diversamente dal mio solito, molto dilatato il libro rosso ‘scuro’ sullo Zarathustra (forse per esigenze editoriali... dopo il successo planetario dell’edizione integrale illustrata in facsimile del 2009 del libro rosso/liber novus, il cosiddetto libro segreto, di Jung), che invece riporta distesamente i seminari del ‘34-’39, interrotti, sullo Zarathustra. L’intero seminario Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche, (tr. it. e cura di A. Croce, Bollati Boringhieri, Torino 2011-2013, 4 voll.), costituisce, nell’insieme, la più lunga opera di Jung e il più vasto commento esistente a una singola opera di Nietzsche - se non a una singola opera filosofica. Quindi, pur tra infinite cose che non mi tornavano (ovviamente per mia carenza), la disposizione interiore cambiò. Questo perché qualsiasi siano le prese di distanza su Jung, comunque con lui si ribalta il paradigma psicologico precedente e si torna ad una compenetrazione organica col numinoso. “...L’interesse fondamentale del mio lavoro non consiste nel trattamento delle nevrosi, ma nell’accostamento al numinoso. Infatti, l’accesso al numinoso è la vera terapia, e nella misura in cui si arriva alle esperienze numinose si è salvati dalla maledizione della malattia...” (5) L’enantiodromia eraclitea attribuita da Jung a N, come un tratto distintivo della sua personalità complessiva coscienziale ed autoriale (che per Jung, a scanso di equivoci, sono la stessa intima cosa), in contemporanea con una durezza di trattamento critico parallela alla chiara ammissione di un fortissimo debito esistenziale, è quello poi che mi creò il quadro di compatibilità, diciamo sentimentale, per quella lettura. D’altronde la stessa linea fenomenologica di Husserl, (basta leggere “Fenomenologia dell’inconscio. I casi limite della coscienza”, (6) nel suo paradossale “attraversare i confini”, ove sono ripensati tutti i concetti, di nascita, sonno e morte e di altre dimensioni sempre tenute ai margini, per me poi mediate tramite la lettura trascendentalista di Angela Ales Bello) e poi della Stein, offre continui impulsi alla sempre evocata luce interiore che riesca ad illuminare, seppur da prospettive di sguardo altrimenti dislocate, il flusso esperienziale. Senza neanche avere quel debito profondo d’avversione verso l’ontologia neo-platonica, come sostiene Lövith a riguardo di Heidegger, che si traduce poi, nella metafisica dell’esigenza delle parole, ben oltre la metafisica dell’esigenza delle prove... anche se allora convenivo (fine anni ’70, da “poeta militante”) che la maggiore potenza del giudizio heideggeriano consistesse proprio nel momento divinatorio del linguaggio, con queste mie: “...Il contatto tra il momento espressivo e momento significativo è delicatissimo ma perseguibile appunto solo lungo la linea di una ricerca radicale”. (7) Domande giovanilmente radicali (al solito) poi senza risposte, che non siano lo scoperchiare il linguaggio morto, tappeto di foglie disseccate e che si reinvolvono nella luce e nell’ombra di questa natura per noi così necessaria, che pur non sembra affatto corrispondere, nell’appercezione umana, a nessuna delle più late e diverse esigenze morali. Forse solo ad immagini evocatrici, stravolgenti, che ci riportino dentro la nostra anima intuitiva. Nella cometa ciclica Heidegger, l’eccessivo logocentrismo pascola, per sempre ormai, l’essere con i cani del linguaggio (greco/tedesco) e nella luce della sua radura, proprio nella corona verde scuro attorno, tiene pure in ombra (al contrario) la romanità riequilibratrice e la sua carsica rinascenza, con un paradossale rientro nella metafisica, seppur del negativo. Questo lo sentii dire proprio da Jünger: “...la patria di Heidegger è il bosco... suo fratello è l’albero...” , nel 1977 a Pisa, in “La riscoperta del sacro da Heidegger ad Eliade”. Il primo personale incontro tra i due - J. e H. - avvenne, significativamente, a Todtnauberg, residenza montana di Heidegger, in Selva Nera), e Jünger, nel post-convegno, ci disse più esplicitamente dell’“inattaccabilità” di H., vera volpe nella selva, che, poi, negli atti è riportato: “...nella sua ricchezza egli era inattaccabile, sì, inattaccabile - perfino se gli sbirri venissero per sequestrargli il cappotto - il suo astuto guardar di lato lo rivelava. Avrebbe entusiasmato un Aristofane”. In quel convegno più che immeritatamente, non per il decente e forse non trombonesco (...la mia sarebbe stata comunque una trombetta) sforzo di assurda sintesi centrata proprio sull’“essere per la morte” a cui contrapposi, il nostro de-siderato “la morte per l’essere”, con un brutale ma efficace ribaltamento, ma per la presunzione giovanile con cui l’affrontai, tenni una relazione. Convegno organizzato da Vettori, aperto da Jünger e chiuso da Eliade. Estasiato da questi grandi, forse rapito nella mia personale sequela della mito-poesia che desideravo potesse scoprirsi proprio allora anche comunitaria e per quanto potessi capire del vero dialogo tra poeta e pensatore e quindi abbacinato dallo sfarfallare verso il verde (scuro e l’oro):... Quando la luce mattutina cresce sui monti...
  • ...
  • Ed a conforto, Eliade, anche da come ci riconfermò personalmente Staglieno, considerava Il mito dell’Eterno ritorno (Borla, 1989) come la sua opera più importante. Il centro di tutto. E quindi tentare davvero di comprenderlo. Sempre cercando tracce, spunti, lacerti, fallimenti, vittorie. La morte, certamente, ma anche la vita. E corrispondentemente, perché noi constatiamo, esistere accanto alla morte, sempre, la vita. E’ la vita che torna uscendo dalla morte... come la morte esce dalla vita. Banale dirselo ma non banale chiedersi perché se possiamo uscire dalla vita, quando vogliamo, non possiamo entrare nella vita, quando vogliamo. Non ci spetta perché noi siamo prodotti della Natura. Liberi nella nostra finitezza e finiti nella nostra libertà. Ma questo pulsare eterno, garanzia di vita e morte assieme, è prova, ineludibile, della ciclicità.   Non-duale.
  • ...
  • Così, lentamente, sono giunto alla lettura di questi due testi su N, che valutai importanti, non solo per il loro valore intrinseco, ma perché ponevano il problema (centrale per la mia equazione personale) della possibile/impossibile concordanza logica (...ora parliamo di cose serie...) tra l’eterno ritorno dell’identico e volontà di potenza. Considerare poi tali due dimensioni centrali del pensiero maturo di N., in qualità di “teorie” per molti studiosi del suo pensiero, è fuorviante, proprio per la sostanziale circolarità (anche come fattore pulsionale e non solo strettamente mentalistico in lui) del processo veritativo. Il “terribile segreto” ed il “dramma”, così fortemente evidenziati da Carlo Angelino nei due rispettivi testi, mi richiamavano già in quel mio tempo di riflessione a qualcosa di più di una problematica strettamente ermeneutica sul problema in questione. Quindi esulando da una apparentemente pura, o libera discussione su una linea filosofica (tra le possibili), che, qualora imboccata e non rifiutata, rimossa o contrastata, potesse riguardare, in parte o tendenzialmente alcuni di noi pensanti, per riferimenti comunque considerati non secondari, ma proprio un fattore di vita del pensiero e dell’azione conseguente.
  • ...
  • Infatti nello stesso periodo registravo il crescere ed il progressivo rinforzarsi di una linea filosofica, proprio inattuale, che riguardava da vicino una nuova risistemazione possibile, oltre che auspicabile, a carico del “pensiero di tradizione”, ovvero di quella linea che ha avuto ed ha tuttora, prima con G.F. Lami e poi con G. Sessa, validi interpreti. Per qualche anno avremmo anche potuto con il movimento di pensiero “Nuova Oggettività”, persino favorire felicemente tale originale ed originaria posizione, come uno dei pochi transiti attivi ed importanti, del tutto nostri - per quanto possa essere nostro un movimento di pensiero - verso una valorizzazione, anche comunitaria, fuori dei soliti logori schemi di bassa dialettica ed antidialettica. Ma la scomparsa del tutto imprevedibile di Lami vanificò il processo in fieri. Ancor più, ovviamente per carenza, questa esigenza di chiarimento mi si è fatta più evidente, ed ora pressante, perché tutta una costellazione di pensiero che, in linea di partenza si sarebbe potuta considerare sostanzialmente omogenea, pur nelle sue geneticamente legittime differenze costitutive, è arrivata ormai alla presa d’atto d’insuperabilità derivate. Ma al centro rimane, spesso incredibilmente, proprio quel terribile segreto e quel dramma, del giovane/vecchio N., ovvero il possibile riscontro tra eterno ritorno dell’identico e volontà di potenza (e/o volontà di verità).
  • ...
  • ¿Che cosa può aver significato in fondo, se non questo (come problema, ovviamente), nella storia intellettuale di un Lami il lavoro di primissima mano su Eric Voegelin, con una serie di antologie e poi i lavori non certo di routine accademica su Tilgher ed infine su Evola, trovando una strada di approfondimento esegetico sulle diversamente plausibili ed attuabili vie realizzative e contro ogni distacco tra vita vocazionale, vita del pensiero e magistero realizzato? “Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente”, (8) suggella meravigliosamente (ed icasticamente) in limine, tutto il suo portato d’interrogazione e di prova esistenziale contro ogni resa diversamente paludata.
  • ...
  • ¿E come altrimenti intendere già tutto il compiuto da Sessa lungo i suoi libri più importanti, quello su Michelstaedter, fondamentale su Emo, centratissimo su Evola, di ricerca sulla physis nella Germania segreta con cinque grandi pensatori come Stefan George, Ludwig Klages, Ernst Jünger, Walter Benjamin, Karl Löwith; gli altri libri pubblicati e curati a corona su questo specifico processo di pensiero e con i prossimi lavori in programma sulla linea d’intersezione tra necessario recupero della physis ed il “sempre possibile dell’origine”?
  • ...
  • A tal punto si capisce meglio perché io giudichi fondamentale una giusta riflessione, non solo demandata alle giuste menti, ma anche a sensibilità comunque orientate a trovare una via di sostegno complessivo, su tale dimensione... Non sapere o non capire o addirittura non riuscire neanche ad intuire, che una visione ciclica, pur non meccanicamente intesa, ed una visione linearista e rivelazionista ed all’interno delle due, una sorta di libero arbitrio pur diversamente declinato, non debbano o non possano trovare un punto di dialettica risoluzione nella prassi anche della vita ordinaria, mi sembrerebbe un’offesa all’intelligenza del tentativo (o al tentativo dell’intelligenza) della comprensione/risoluzione, sempre pur così difficile, delle cose del mondo. Ma è pur altrettanto vero che la ricerca filosofica (¿pura, impura?) ha operato, troppo spesso nel tempo, con un disprezzo totale per la vita reale che è anche la vita dei più, che comunque ci attornia ed assedia, considerati, i più poi, come greggi ad uso dei pastori, tramite i cani. Questo anche indipendentemente dalla specifica visione ideologica, che potrebbe meglio comunque giustificarsi (a poterla giustificare), almeno logicamente, in un reazionarismo organico.
  • ...
  • Gott als Tod, Tod als Gott...(9) (...sia Dio che gli Dei) potrebbe rappresentare questa voragine senza ritorno, la scepsi antimetafisica come dice Angelino di N., prima e dopo di noi, l’infinità senza vita (apparente) che è la morte (ciò che si mostra nel piccolo del grande Niente) ma constatabile da tutti. Ma se operasse davvero - in noi - (e qui non è funzione del credere quanto almeno dell’illudersi di constatare) l’eterno ritorno dell’identico, qualsiasi fosse stata o sia ancora poi la figura geometrica pluridimensionale che noi si alleghi alla metafora, ci sarebbe una vera Volontà di Potenza che sarebbe agente al di fuori di noi e persino senza o contro di noi, magari pur, necessariamente, inglobandoci. In corrispondenza con tale volontà di potenza “esterna” se ne potrebbe definire una come “interna”, ovvero legata (forse, solamente e disperatamente) all’uomo. In tal senso si costituirebbe l’interpretazione letteralista di Heidegger, riportata da Gadamer, (10) lodandola di “prospettiva decisiva”, ovvero il sostituire, nella pulsione umana, una supponibile/indefinita volontà di potenza (che si dovrebbe presumere aver comunque uno scopo) proprio con il dichiarato “senza scopo” (se non reagire al senza scopo medesimo), nella volontà di volere di N. Resterebbe però, il problema, incistato come un tumore, nella dimensione postmetafisica. La volontà di potenza (quella ipnoticamente rassicurativa) sarebbe allora il logico grido dell’umano - Angst del Servo contro la Signora morte - nella subìta vacuità del mondo in favore del nostro desiderato destino. ...come vacuità e destino. Contro l’unica realtà divina (l’unica signoria) che sarebbe la morte. ¿Questo, indifferentemente, sia nel caso di un universo ritenuto ciclico che di uno ritenuto lineare? Indifferentemente forse per il concreto, verificabile, esito umano, ma non per la comprensione che gli umani possano avere dell’alta realtà in gioco, de-siderati sulla porzione di terra con la nostra piccola tabula fati che capita in sorte. Con in più il sospetto che le rappresentazioni della ciclicità e della linearità, siano la basale intuizione che di necessità trasferita linguisticamente, tendenzialmente inganna. Ma essendo l’eterno ritorno dell’identico primieramente pulsionale manda l’eco (qui, nel mondo che vive) dell’antico grido di rifiuto della morte e di conseguenza attiva, consapevolmente od inconsapevolmente, l’umana volontà di potenza. Comunque, silenziare per secoli questo tipo di morte/vita (ricomparsa evocatoriamente con N. in modalità scandalose di “spirito libero”, intellettualmente ateo ma arcanamente più che consapevole dell’enormità della propria personale e indecifrabile, evidenza), morte/vita di scelta ciclica, ha significato sostituire, necessariamente, per secoli, un’altra vita/morte di scelta linearista. E questa non è un’opinione.
  • ...
  • ¿E se conosciamo bene quel grido, chi ha detto che dobbiamo amare per forza l’eterno ritorno dell’identico... sostitutivamente soggiogati dal numinoso e fatale fascino (Signore, Divino) dell’immutabile? ¿Persino considerandolo vero? Esso sarebbe il “terribile segreto” di N. ed il “dramma” di Zarathustra non più la rappresentazione di uno stupefacente veggente alienato, quanto il fatto che stupisce, ancora e sempre, dell’ordinario squilibrio originario. Al quale si può reagire con uscite, comprensibilmente anche se non ugualmente, verso l’assenza o la presenza, (verso l’affidamento, la sottomissione, la pazzia, il suicidio, il gioco estremo, il grande gioco, la sfida, il superamento...).
  • ...
  • Per tutto questo non ho che flebili risposte a fronte di spaventose domande... ove l’invocata innocenza dello spirito del bambino/Zarathustra... “...del gioco, della completa assenza di senso del tempo, in cui la pienezza della vita è tutta nell’attimo¸ è lo spirito di chi riacquista fiducia, anche quando tutte le opportunità sono andate perdute. Questa è per Zarathustra la forma più alta dello spirito e il vero contenuto del suo messaggio”. (11) Parole di Gadamer, ma parole, che per lo stesso Gadamer potrebbero suonare senza senso per chi annuncia l’oltreuomo, a meno che ogni parvenza di progetto, costruzione pensata, programma prestabilito, (magari tutti ridicoli, fallaci o disastrosamente gloriosi), venga assoggettata ad una danza che potrebbe essere valida solo se fatta da un Dio, ovvero in costanza di potenza assoluta. Danzare (non marciare), per non marcire nella propria morte. Ma allora la volontà di potenza sarebbe del Dio/Natura - prima e post tradizione metafisica personalistica (...ma paradossalmente allora anche supermetafisica) e coinciderebbe con “...la trasposizione nel linguaggio concettuale del pensiero moderno, di quell’originaria esperienza del pensiero.” ... “...N. anticipa in questo senso ‘il passo indietro’ teorizzato da Heidegger , e segnatamente in direzione della phisis come archè di ogni movimento (dell’en kai pan) di cui il filosofo deve portare alla luce, mercé l’ausilio del logos, l’ordine che lo governa...” (12) Una sorta di OltreDio, se ci è concessa la folle iperbole, che conterrebbe ciclicità (ovvero ripetizione) e linearità (ovvero potenza novante), il nuovo dentro il vecchio, un’antica conoscenza, deus seu natura, ma sempre tendenzialmente e tendenziosamente additata di maledettismo... - vedi Baruch, il Benedetto - quando di non panteistico ateismo, soprattutto verso i suoi alfieri più dotati, e forse col recupero (addirittura) di una sua pleromatica identità incondizionata, persino nelle sue emanazioni ultime, parallelamente a ciò che ormai si mostra nella parafrasi, nella traduzione linguistica (nelle rappresentazioni), della teoria cosmologica (con la sostanziale indifferenza dei colti per la sua apparente illogicità), tra inflazione eterna, universo unico, multiverso esponenziale e multiverso ridotto. (13) Oltre ogni comprensibilmente classico timor di Dio ed oltre ogni innata paura biologica della morte. Nel nulla totale della referenza logica. La tanatologia (e la sua correlativa rimozione), da tempo imperante nella riflessione allargata. Da cui una mia inversione, appunto, come ingenuamente proposi, la morte per l’essere a l’essere per la morte. Seppure il vedere, così, sarebbe comunque un vedere bifronte. Sguardo bifronte Tutte le grandi conoscenze hanno uno sguardo bifronte). (14) Ma quel Giano Pater è il dio primordiale e non ha solo due volti. La prima duplicità passato/presente (dietro) e presente/futuro (davanti). Ma esistono le quattro vettorialità cardinali e qui il discorso si complica. Il vedere tutto (od in ogni direzione) corrisponde al veder niente (senza il focus) ma non a non vedere il niente. Quell’eterno istante sospeso. Ma ammaestrati da ciò che ci dice Colli, dobbiamo aver presente che il “presente non esiste”... almeno nel senso che “...La vita profonda si attinge dal pozzo del passato, è più vivo ciò che è più remoto nel tempo”. (15) Ecco perché l’origine come meta. “Ursprung ist das Ziel”. L’eterno presente è quindi una “rappresentazione” anch’essa, come il passato ed il futuro, come punto inesteso (solo “volontà” o) condizione di liberazione (“Il Liberatore”, Dioniso), dall’illusione di questa millenaria tensione alla separatezza umana, alla segregazione umana dall’articolazione dei regni, da noi sempre meno associati, dell’animalità, della vegetalità, della mineralità. La physis come divina materia dell’incanto penetrabile... ripenetrabile per osmosi.
  • ...
  • Allora cercare di vedere, non solo, temendo, guardare, ma assimilando il Nulla (che in alcune tradizioni è detto anche “Assoluto” o “Zero metafisico”) che sarebbe poi semplice e diretta vita e morte assieme, (come con un crescendo inestricabile ma inarrestabile ce la filma Husserl, proprio in Fenomenologia dell’...) esperite, depurate, in tal senso però, di qualsiasi velatura di sola ingannevole speranza, che non spetti alla nostra più stretta e privata esperienza. Colli dice: “...Tale è il fondamento dell’eterno ritorno, che svela la morte come qualcosa di illusorio, di strumentale, di non definitivo. Era questo l’ottimismo raggiunto, ma non consolidato da Nietzsche. Con la morte non finisce nulla, neppure quella espressione (se non nel suo contingente momentaneo accadere) che ritornerà eternamente. Tolto l’orrore della morte, anche il dolore è trasfigurato, è visto in una luce dionisiaca, poiché esso è uno strumento, una manifestazione della vita, non della morte. Nell’immediato c’è la radice del dolore, la violenza, ma anche della gioia, il gioco. Dolore, gioia, morte esprimono l’immediato, appartengono alla vita”. (16) Ma dice bene Colli: “non consolidato”, forse per l’abbandono della “pars construens” di Schopenhauer, quella che avrebbe potuto riallacciarlo risolutivamente non solo alla sapienza, ma anche alla lucidità funzionale (il severo sorriso immemoriale della tradizione viva). Nel “Terribile segreto...”, cit., Angelino, infatti, riporta di N.: “:..Non possiamo pensare il divenire altrimenti che come passaggio da una condizione persistente dell’‘essere-morto’ a un’altra condizione persistente dell’‘essere-morto’. Attenzione! Chiamiamo ‘ciò-che-è-morto’ quanto è privo di movimento! Come se ci fosse qualcosa privo di movimento! Ciò-che-vive non è l’opposto di ciò-che-è-morto, sibbene un suo caso speciale”. (17) Il che mostra plasticamente quanto sia reversibile ogni riflessione di N. e quanto lo sia maggiormente, di conseguenza, ogni nostra interpretazione. Ma quel “Come se ci fosse qualcosa privo di movimento!”, se non ci può assicurare in sé della vita, per come noi - ordinariamente - la intendiamo, è però un’evidenza innegabile di quel movimento incessante, di quel processo di continua trasformazione a partire da ciò che noi - sempre ordinariamente - possiamo appercepire come “morte” (vuoto, nulla, niente, assenza, freddo, rigidità...). Processo che, anche quando non crediamo di averne prova od addirittura notizia, è, innegabilmente, un passaggio dalla “morte” ad altro dalla morte (alla “vita”). Mi richiama questa sollecitazione ciò che disse Evola, in un suo testo dei primi anni ‘20 del ‘900 che mutò titolazione da L’individuo e il processo del mondo a L’individuo e il divenire del mondo, ripubblicato in 3 edizioni del 1926, del 1976 e del 2015, ove, come ci ricorda Sessa, “...presentò in nuce i tratti essenziali del suo idealismo magico”. (18) In “un Nietzsche oltre Nietzsche” vengono smascherati tutti gli “abbellimenti dell’oscurità” costruiti dalla rettorica per tacitare il vero. Tutte le spinte incrociate e quasi sempre opposte che, nel continente da prima della Grande Guerra e poi, in successione alla mattanza intraeuropea, molti interpretano, sul versante “spiritualista” e molti sull’opposto “materialista”, pur ferocemente reciproci, come uno sperato e tentato ribaltamento della proterva normalità borghese e capitalistica, ha però incredibile complessità e fluttuazioni continue mediate da mille sette, gruppi, tendenze e professioni di utopia militante, con le maggiori correnti teosofiche e poi antroposofiche. Molto spesso, persino insospettabili, influenze incrociate che solo uno studio critico documentatissimo, riesce a sottrarre alla vulgata del posteriore massivo fatto compiuto ed ancor peggio alla cancellazione della comprensione. “...Per porsi lungo la via della Sophia è necessario non recedere di fronte alla visione terrifica dell’abisso, non abbellire l’oscurità che da essa promana, ma trasfonderla in malia, in meraviglia, nel riso di Zarathustra che dice sì alla terra così com’è”. (19) Queste parole di Sessa relative al N. di Evola, sembrano persino ripercorrere la polemica visione con cui Kojève (...uno per tutti, ma non tutti per uno) manifestava la sua metafisica della realtà oggettiva e che definì energologia “...che vuol essere un aggiornamento di quella hegeliana - una energologia che differisce nettamente da quella hegeliana” e poi tutta la sua paradossale “via verso Dio” con “L’ateismo”. Per lui, infatti, teisti e ateisti, sono indifferentemente diretti e guidati da “tutto ciò che è Altro”... “quel qualcosa che non è l’uomo, né il mondo, né di questo mondo”). (20) Cosa che però ci fa capire - seppur con riserve di vario genere sulle dinamiche implicate - come si possa divenire maestri segreti di due o tre generazioni intellettuali, genericamente definibili, “di confine”.
  • ...
  • Ma questo avviene anche perché: “...Il demone della scrittura, nella versione estrema, inappagata e tragica che assume in N., ci mette in crisi dinanzi alla scrittura stessa. E non significa continuare la strada di N., l’inseguirlo, come hanno fatto alcuni, su vertiginosi ‘ponti di parole”, che senza il suo pathos appaiono come sterili tele di ragno”. (21)   Bell’eco... alle orecchie.
  • ...
  • Ma ritornando a vita/morte, direi però che proprio qui il pensiero antitetico di Angelino, pur ricchissimo di tutti i percorsi classici della più grande filosofia occidentale perde il tempo rispetto al pensiero antidicotomico che non è necessariamente un pensiero solo filologico/filosofico, ma è eminentemente un pensiero del recupero necessariamente attuale (il Qui ed Ora... sempre inteso come sopra) dell’immemoriale. Ciò che si è perso in noi - ciò che purtuttavia rimane in noi - del tempo e dello spazio che non conosciamo, pensiero di quanti ci sono più vicini in questo nostro cammino di ricerca, via che persegue (nel campo delle scienze umane... ma questo vale in modo traslato per ogni campo d’indagine) il trattenere dell’esperienza praticabile. Non solo usando la necessaria prudenza che tratta il modo ascensivo, dalla fisiologia, alla neurologia, al funzionamento patologico e poi a quello integralmente normale, per arrivare a spiegare gli elementi strutturali della realtà allargata, ma, costitutivamente, anche il modo discensivo, ovvero dall’intelletto intuitivo alla consapevolezza meditativa, ciò che unisce la dimensione spirituale, il corpo sottile, il corpo materiale, sulla via della superiore dialettica priva di determinazioni escludenti, in una difficile ma praticabile coscienza soprapsichica.
  • ...
  • Sappiamo bene poi che, anche una volta chiaritasi, per noi, la partita vita-morte in chiave relazionata al dato del credere (di un credere), ma tramite l’esperire, noi non si rimane comunque esclusi dal processo dell’insieme vitale, dipendendo esso non da un credere, appunto, ma dall’avere maturato (o meno) la consapevolezza di tale coscienza soprapsichica, secondo la potenzialità offertaci dalla (sostanziale) tripartita struttura della costituzione umana. Questa rimane l’insuperabile differenza della nostra visione dal riduzionismo materialistico.
  • ...
  • In questa praticabile coscienza soprapsichica, è implicata necessariamente la disponibilità consapevole, l’approfondimento esperienziale ed il metodo appropriato, nell’opporsi ad ogni forma di prevaricazione esterna oltre ogni possibile interno cedimento. Come nei cieli contesi di una volta... (e di sempre), volare con un caccia “ognitempo”.
  •  
  •  
  • Note:
  • I due testi sono: 1) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Zarathustra, a cura di Carlo Angelino, Il Melangolo, Genova, 1991; e 2) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di Nietzsche, Il melangolo, Genova, 2000. Vi è una continuità evidente fra i due testi, uno a cura e l’altro direttamente di Angelino. Nel primo il filosofo di Genova, traduce ed introduce, la conferenza di Gadamer per il centenario dello Zarathustra, sorta di concentrato giudizio delle più importanti interpretazioni sul tema; nel secondo collaziona cinque suoi intensi interventi: “La ‘fisiologia’ della religione di F.N.”; “Una curiosa poesia di F.N.”; “Morte o caduta di Dio? (Nietzsche e Baudelaire)”; “F.N.: Dioniso contro il Crocifisso”; “Che cos’è la filosofia della religione?”.
  •  
  • 1) Hans Georg Gadamer, Il dramma..., cit., pag. 9.
  • 2) Matteo Karawatt, Non sapevo di sapere. Psicologia, yoga, intuizione, meditazione, Teoria e pratica, La Parola, Roma, 2012, pag.25.
  • 3) Carlo Angelino, Il ‘terribile...”, cit., pag.7-10: «...E questo convincimento N. condivideva in particolare con l’amico Overbeck, che poneva proprio il tema della morte al centro delle sue riflessioni ‘filosofiche’ sulla Urgeschichte del cristianesimo: in uno dei suoi frammenti postumi editi da C.A. Bernoulli, (allievo di Overbeck, N.d.A.) in Chistentum und Kultur, 1963. Overbeck così commentava: ‘Matteo5, 48: ...siate dunque perfetti come è perfetto il padre vostro celeste’: ‘der Tod ist die gewältigste Predigt der von uns in der Bergpredigt (an dieser Stelle) gefordenten Vollkommenheit, die wir kennen und abzusehen vermögen’. Tradurrei: ‘Morte è il richiamo più potente alla perfezione, richiestaci dall’Oratio montana, (sino a qui) che si conosca e si sia in grado di prevedere». Potremmo ulteriormente dirci che, data la qualità elevatissima dell’avventura conoscitiva di Overbeck, la posizione immediatamente e coraggiosamente anticonformista e teoricamente sempre ai limiti del socialmente sopportabile, persino la parziale sequela di una teologia prima di moda e poi giudicata discutibile come quella del Ferdinand Christian Baur, guida della scuola esegetica di Tubinga, residua proprio per quel mio “incomprensibile”, di cui sopra, un differenziale comunque riscontrabile tra N. e O.. Perché N. e O. (ed intorno Lou Salomé, Paul Rée, Peter Gast, Erwin Rhode, Carl von Gersdorff, Cosima e Richard Wagner, Malwida von Meysenburg, ed ovviamente Elisabeth Forster-Nietzsche e la madre Franziska) sono anche le dramatis personae di un’avventura unica ed in quanto personaggi anche paramitologici riescono a parlarci dell’avventura pericolosa dell’esistenza (sovente) e soprattutto della ricerca (quando lo è) come sfide, sempre di complessa decifrazione. Parallelamente ai personaggi, Sinn-bilder, Ur-bilder, Denk-bilder, Vor-bilder dello Zarathustra, ruoli simbolici, archetipici, mentali, comportamentali, nell’invenzione di N.: maschere. Azzardo tale trasposizione su altro piano, perché rimasi proprio colpito dal confronto tra il più che lusinghiero giudizio espresso da Löwith nel 1956, reperibile sul libro di Lou Salomé (uscito in prima nel 1894, quindi prima di Ecce homo), ed i marginalia della sorella di N. al testo della russa. Soprattutto perché, al comprensibilissimo ed accresciuto odio per Lou, della sorella di N., dopo il ritorno nel 1893 dalla fallita avventura “Nuova Germania” del marito e di 14 famiglie tedesche in Paraguay (1887-1889 circa) ed il suicidio di lui, si aggiunge la necessità per la sorella di uscire progressivamente con articoli firmati da collaboratori del Nietzsche-Archiv, Fritz Kögel e poi Rudolf Steiner (all’epoca, 1895, anch’egli collaboratore del N.-Archiv, ancor prima di divenire guida del movimento antroposofico), avanti di dover intervenire direttamente. Puntualissima la ricostruzione (di tale progressione) nella Postfazione di Domenico M. Fazio, al libro della Lou Andreas-Salomé, “F. N. in seinenWerken”, (trad. it.: “F. N.”, a cura di Enrico Donaggio e Domenico M. Fazio, SE, Milano,2009, Postfazione, 3. ‘Eva contro Eva’, pagg. 215-225). A differenza del Kögel, però Steiner col suo libro: “F. N.. Ein Kämpfer gegen sein Zeit”, Weimar, 1895, ispirato alle parole di N., in Considerazioni Inattuali II, Sull’utilità ed il danno della storia per la vita, (trad. it.: “F. N. Un lottatore contro il suo tempo”, Carabba, Lanciano, 1935, Anno XIII, rist. anast., 2017), tratta eminentemente la propria interpretazione, ben differente sia da N. che da Lou Salomé, del concetto di superuomo. Testimonianza molto diversa da ogni altra, in quel tempo, e di non facile risoluzione al suo stesso interno. Che si dimostrerà come ben diversa, proprio per il rapporto genio/devianza, da quelle di Mann, Jaspers, Jung, Heidegger. Infatti chi approfondisce, (inserite nella traduzione italiana del libro di Steiner) la Prefazione alla prima edizione, Weimar, 1895, lo stralcio dall’Autobiografia di R. Steiner del 1924, e la Prefazione alla nuova edizione del 1926 di Eugen Kolisko, può comprendere un’unità di fondo nel giudizio nelle pur molto diverse circostanze di contesto (per Steiner) in cui quel giudizio è progressivamente maturato.
  • ...
  • E quindi solo lungo così complesse “rappresentazioni”, tutto possibilmente sommato e detratto, si può considerare quel mio “incomprensibile”. Che Gurdjieff (ma, beninteso, qui solo come collettore di altre tradizioni interpretative al riguardo), porrebbe tra essenza e personalità. Tra chi cioè investe tutto il proprio capitale energetico in un’impresa conoscitiva anche a rischio di fallimento totale (l’égarement orgiastico di Dioniso) e chi sa amministrare, magari per raro merito derivatogli da altre riserve accumulate con altri stili di vita e sempre oculatamente rese stabili e con una gestione magistrale delle maschere di scena (la difficile sintesi apollinea), un vitale capitale residuo. Nella solo mondana vita comune, attestato pure il persistente coraggio testimoniale di O. verso l’amico scomparso, ciò, da parte mia, sarebbe deviante ed ingeneroso. Perché comunque resta il grande lascito di N.: la volontà di verità allo stremo, che coinvolge tutti i suoi più profondi interpreti, coloro che hanno fatto di lui non un mito ma un severo discrimine (per troppi incomprensibile) di differenze ed, al proposito, mi sorprese proprio quella frase di Rudolf Steiner: “Ci si può abbandonare gioiosamente alla luce del suo spirito, col senso di pietà, col senso di piena libertà, poiché ove spuntasse la idea che egli intenda imporci di consentire - come fanno Haeckel o Spencer - le parole di Nietzsche si sente che comincerebbero a ridere”. (R. S., F. N. Lottatore contro..., cit., pag. 25). Le sue parole... forse, il suo indagatore sorriso, meno.
  • 4) H. G. Gadamer, Il dramma..., cit., pag 52. Anche (pag. 26-27): “...Il vero compito filosofico che pone il pensiero di N. consiste certamente nel risolvere l’apparente inconciliabilità di volontà di potenza ed eterno ritorno dell’identico. E in ciò mi pare di poter indicare l’autentico contributo di Martin Heidegger che, pur con l’abituale violenza che caratterizza le sue interpretazioni, ha in questo caso trovato la prospettiva decisiva: una soluzione di quell’apparente contrasto che mi parve subito plausibile e chiara. Le teorie nietzscheane sono fra loro complementari e sono solo le due facce di una stessa medaglia. La volontà di potenza, che non vuole qualcosa ma se stessa, è volontà di volere, e l’anello dell’eterno ritorno smaschera ogni volizione e scelta, ogni evasione e ogni speranza come una sorta di follia. Entrambi questi aspetti dissolvono il problema del senso, dello scopo. E in ciò Heidegger scorge ed individua il risultato ultimo del pensiero nietzscheano...”. Devo dire che se questa soluzione soddisfa Gadamer ed ovviamente Heidegger, non soddisfa molti altri sia in una direzione che in un’altra. Una direzione interpreta lo scoprimento a tutti i costi del senso dell’essere (come tenta di fare Heidegger) restando nella prospettiva sostanzialmente religiosa se non del tutto metafisica, (paradossalmente, ma non eccessivamente perché prima e dopo di lui c’è tutto un milieu di pensiero prima in Germania e poi in Francia, che lo fa convintamente, indagando il proprio rapporto col sacro tramite meccanismi fenomenologici di rilevazione anche a-spirituali se non del tutto materialisti), cosa anche meno radicale di quella di N., che opterebbe, alla fine del suo percorso, solo nell’investimento di senso (pur frustrato), in qualità di volontà di volere o potenza, che dir si voglia ed in un quadro di pura referenza naturale. Nulla di mistico o misticheggiante. E non per tutti, necessariamente, lo scoprimento o svelamento del “non senso”, in tal caso pulsionale e/o metodologico, priverebbe di appiglio, euforia, felicità, rispecchiamento, nel togliere il velo, privando lo svelamento di ogni aura, dorata o nigra che sia. Molti potrebbero persino ritenersi soddisfatti di svelare lo svelamento come ultimo mito dell’ultimo uomo, ovvero il nulla (totale) dietro l’eterno ritorno. Ma questo fa parte - forse - e dico forse perché non riesco bene a capire il grado di correlazione tra moda culturale ed influsso ineliminabile del grande (opposto e pur sovente intrecciato) alone di potenza interpretativa, (-Forschung) quale fu quello kantiano, hegeliano e poi, appunto, fenomenologico e specificatamente heideggeriano. Come dice G. F. Lami in Qui e Ora... cit, pag.42: “...Ogni dis-velamento, ogni operazione che decostruisce e differenzia, all’interno di una struttura preesistente, mette allo scoperto la inadeguatezza di certi supporti, di certi sostegni istituzionali, di certi simboli ordinanti, ma soltanto per sostituirli in un’identità rinnovata e, alla fine, ”ritrovata”. Ogni fase critica incide sulla compattezza di una mentalità, indebolita dall’evoluzione della logica sociale, ma produce, a sua volta, nuovi valori e forze, che si ricompattano in una diversa ‘insularità antropologica’. In questo processo di ordinaria ‘de-costruzione’ e ‘ricostruzione’, suona l’intonazione del Faust goethiano: ‘Fermati, attimo, sei bello!’...” A proposito delle siderali convergenze parallelle Goethe-Nietzsche, proprio Rudolf Steiner ha detto cose interessanti sul non voler parlare di mistica e sul non volere essere mistici: “...Goethe trovò nella realtà della natura lo spirito: Nietzsche perdette nel suo sogno della natura il mito spirituale”.   (F.N. Lottatore contro..., cit. pag. 33) E comunque - per noi, a riguardo della sostanza - tale compiacimento non cancellerebbe la contraddizione di un ritornare, in ogni operazione complessiva, del nulla. Ma il nulla, totale, se esistesse, sarebbe la morte continua e non alternata. Chi la afferma così, l’afferma incondizionata, necessariamente, anche se non appare quasi mai far base logica su questa banale considerazione.
  • ...
  • Invece, da tutt’altra direzione, potremmo noi allora chiederci veramente cosa fosse per N. (per capire poi cosa sia davvero per noi) questo eterno ritorno dell’identico. E cosa sia stato in fondo anche per l’interprete Heidegger, se lo Jünger parla (nel convegno pisano del 1977, cit.), al proposito, del lavoro ben più che etimologico, ben più che filologico, del suo amico Heidegger. Dice infatti: “...è forse cosa consueta l’approvazione universale, al sorgere di fenomeni del mondo dello spirito?” “Fenomeno del mondo dello spirito” sarebbe quindi, e proprio per J., il pensiero di Heidegger. Non credo lo dicesse nel senso dello spirito mondano, intellettuale, filosofico, artistico, etc, etc... Ma forse nessuno parla proprio dell’altro ma solo di se stesso tramite gli altri, o, in caso più rispettoso di sé e degli altri, del portato che gli altri forniscono per la messa a fuoco del sé. A maggior ragione allora per noi... il sentire l’eterno ritorno, in tutte le possibili gradazioni della ripetizione, nel respiro del mondo e non solo come alcuni amici di N. derubricavano “il terribile segreto”, come un scontato repêchage filologico-filosofico della teoria classica. Perché noi pensiamo, effettivamente, in termini di ritmica, di respiro. Di pieno/vuoto. Istruttiva, come posizione limite, al proposito, proprio la parabola che incarna Kojéve per illustrare la logica delle antecedenze causali nel proprio processo a fasi inclusive che parte dal kantismo, s’appropria delle dottrine orientali, fa la tesi su Solov’ëv, frequenta il circolo degli “euroasiatici” filosofi e/o messianici, matematici, storici delle scienze e mistici, (Berdiaev, Karsavin...), studia matematica e fisica, poi affronta con soluzione mediata la querelle du determinisme, nel suo “L’idée du déterminisme dans la physique classique et dans la physique moderne” (1932), l’attraversamento (scopertosi, poi, del tutto) personale dell’hegelismo nei famosissimi seminari del 1933-34 all’École Pratique des Hautes Études, che, come dice Filoni, “rimane, in fondo, l’immagine speculare atea di un’interpretazione teologica” tramite anche la forte mediazione di Heidegger. Ed ancora la fenomenologia husserlaina della assenza/presenza del sacro e sotto l’ala di Koyré l’epistemologia ove le “due culture” transitivamente si confrontano, tramite Bachelard, Natorp, Meyreson, Carnot, Einstein, Bohr, Fermi, Heisemberg, Plank, de Broglie, Born, Langevine..., in quella deriva conoscitiva che Morin definirà come “scomparsa delle Leggi sostituite da costrizioni, invarianze, costanti, regolarità varie e diverse nell’universo”. Ed ancora il proprio sistema filosofico ateista che lo conduce verso l’al di fuori del mondo, e cioè in quella da lui denomina via verso Dio che persegue (quindi, nella sua visione, molto meno isolata di quanto normalmente non si reputi) sia il deista che trova, comunque declinato, Qualcosa, sia l’ateo che trova, comunque dato come condizione certa, il Niente. (Che a questo punto non si saprebbe neanche intuire, nella sua sostanza, oltreché, ovviamente definire). Sino ad arrivare alla risoluzione dell’infinito pensare in una condizione esistenziale ed intellettuale (rimbaudiana rovesciata), di produzione di segretariato ad altissimo livello e capacità di pressione, sia amministrativa che diplomatica e geostrategica - l’Impero Latino - formativa ed informativa.
  • ...
  • La metafora dell’anello d’oro (fatta nei famosi seminari che colpì profondamente l’uditorio e poi trascritta in A. K., Introduction à la lecture de Hegel , Gallimard, 1962, trad. ital.: A. K., Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996, pag. 604), però, a mio avviso, racchiude tutto ciò che Kojéve ci ha potuto indicare, col suo dualismo dialettico (...che mi ricorda molto da vicino il Non Duale Advaita Vedānta... se non ne è solo una sorta di parodia), qualsiasi sia la nostra provenienza e la nostra destinazione, venendo da mondi difficili ed andando verso orizzonti non meno inquietanti. L’oro è Natura, il buco è l’Uomo e l’anello è lo Spirito. Anche se io la interpreto, ovviamente, in chiave spiritualista, lui in categorie logiche universali.
  • 5) C. G. Jung, Lettera del 28 agosto 1945 a P. W. Martin, in: Romano Màdera, Carl Gustav Jung, Feltrinelli, Milano, 2016, pag. 96.
  • 6) Edmund Husserl, Fenomenologia dell’inconscio . I casi limite della coscienza, a cura di Mariannina Failla, Mimesis, Mi, 2021. Testo tedesco-italiano a fronte.
  • 7) Sandro Giovannini, relazione al convegno organizzato da Vittorio Vettori all’Accademia dell’Ussaro a Pisa, inverno 1977 con interventi di Jünger, Vettori, Giovannini, Gianfranceschi, Eliade ed altri e poi riportato in volume nel 1986 in: Revisione, “La riscoperta del sacro da Heidegger a Eliade”, anno XIV, 1985-86 n°59-62, con successivi interventi aggiunti negli atti. La relazione non ripubblicata nel mio primo libro di saggi “L’armonioso fine”, SEB, Milano, 2005, è in capo al secondo libro di saggi “...come vacuità e destino”, NovAntico, Pinerolo, 2013.
  • 8) Giuseppe Casale, Gian Franco Lami, Qui e Ora. Per una filosofia dell’eterno presente, Il Cerchio, Rimini, 2011.
  • 9) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag.10
  • 10) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Z., cit., pag. 27.
  • 11) Hans Georg Gadamer, Il dramma di Z., cit., pag. 34.
  • 12) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag.15.
  • 13) Art. pubbl. 02.05.2018, Journal of High Energy Physics. Internet.
  • 14) Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di N...., cit., pag. 46.
  • 15) Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, pag. 63.
  • 16) Giorgio Colli, cit., pag 105.
  • 17) F. N., Frammenti postumi, Frammento immediatamente seguente quello in cui N. (Sils Maria, inizio agosto 1881), presenta per la prima volta il pensiero dell’eterno ritorno, pag. 17, di “Il terribile segreto...”, cit.
  • 18) Iulius Evola, Par delà Nietzsche, Nino Aragno Editore, 2015, pag. 17, a cura di Gianfranco de Turris, con Premessa di Alessandro Giuli, testo introduttivo di Giovanni Sessa: ‘J. E. e la metafisica della gioventù’, testo francese di Evola, testo finale di Andrea Scarabelli: ‘Evola e Nietzsche ovvero sulle audaci affermazioni di un giovane scrittore’.
  • 19) Iulius Evola, Par delà..., cit., pag. 18.
  • 20) Marco Filoni, L’azione politica del filosofo. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Nuova ediz., 2021, rif. a: A. Kojève, L’ateismo, trad. ital., Quodlibet, macerata, 2008, pag. 104. In tale direzione - di comprensione degli intrecci imperdonabili, ma non solo - c’è il bellissimo testo di Federico Gizzi, uscito sul n° 43, 2009 (ultimo numero di 3 serie successive) di “Letteratura-Tradizione”, dal titolo “L’evocazione del sacro perduto: dal George-Kreis al Collège de Sociologie”, ora leggibile su “Rivista online Heliopolis”: www.heliopolisedizioni.com   Per comodità si riporta uno stralcio dalla parte iniziale ove F. Gizzi riassume la ragione essenziale del suo scritto:
  • ...
  • «...Il focus di questo contributo è centrato su due ambiti delimitati, il George-Kreis e il Collège de Sociologie, ormai piuttosto ben studiati e sui quali ambiti, ovvero sui protagonisti di essi, esistono diverse opere imprescindibili, alle quali si rimanda [2], il che mi esenta dal trattarne diffusamente e generalmente. Mi è invece sembrato più interessante trattarne a luce radente, diciamo, alcuni aspetti comparativi, marcandone differenze ed analogie, osservandone alcuni aspetti fenomenologici peculiari, e soprattutto inserendo questi ambiti, ed i loro protagonisti, nelle vicende storiche di cui, pur nella discrezione del loro essere ed operare, si sono trovati ad essere spettatori e talvolta anche attori; quell’insieme di vicende, che, tra fine del XIX secolo e metà del XX, possiamo riassumere nel termine Tramonto dell’Occidente ed ingresso (dell’Europa) nella Post-storia [3]. L’interesse per questi due ambiti, ciascuno a suo modo così elitario, è cominciato per me quando incontrai la figura del tutto eccezionale di Alfred Schuler, che potremmo definire lo psicopompo del George-Kreis [4]; di questo autore, e della sua opera principale, ho avuto modo di trattare nel n° 29 della rivista La Cittadella, dove, parlandone più diffusamente, ho abbozzato il confronto con gli ambiti propri al Collège [5]. Qui invece il baricentro della narrazione è spostato su quest’ultimo gruppo, che ho cercato di posizionare all’interno di un vastissimo insieme di relazioni palesi e segrete che segnano la storia culturale, e non solo, del Novecento europeo. Parlare di relazioni palesi e segrete non vuol certo suggerire, gli Dei ci consentano di sfuggirne sempre, una visione volgarmente complottistica degli eventi storici; piuttosto, invitare a vedere, del tessuto storico, la trama e l’ordito. E’ stato detto che quel che spesso ci manca è una storia gnostica, che sappia leggere gli intersignes che punteggiano così di frequente, a saperli vedere, il tempo storico [6]. Questo scritto, con molta presunzione, ambirebbe anche a fornire un contributo in questa direzione. Un’ultima osservazione, relativa allo stile di queste pagine; uno scrittore dei nostri tempi, Jean Parvulesco, ha sostenuto più volte con forza che i tempi presenti, e l’affrontare determinati argomenti, richiedano da parte dello scrittore l’utilizzo dello stile esaltato, l’unico atto a far emergere certi specifici contenuti. Benché non sia uno scrittore, ho tentato di praticare, in una determinata misura, la stessa scelta [7]. Se anche minimamente vi sia riuscito, questo, ovviamente, è giudizio che spetta al benevolo lettore. Le note al testo, bibliografiche o meno, hanno anche il compito di riequilibrare lo scritto e ancorarlo alle modalità consuete della prosa saggistica....»
  • 21) Giorgio Colli, cit., pag 141.