• Coloreria Shamash

  • A proposito di
  • Coloreria Schamash
  • di Lorenzo Pica e Raffaele Rogaia
  • (Morlacchi Editore, Perugia, 2017) 
  • rec. di
  • Sandro Giovannini


  • In genere non riesco a scrivere di un libro, immediatamente, alla fine della lettura. A volte faccio passare mesi quando non anni, per un mio difetto di contemporaneità, per un’illusione di atemporalità. Ma in questo caso sono stato indotto dalle varie stimolanti contraddizioni che si sono svolte nel mio cervello in risonanza con la complessità agente del testo. Ed i giorni persi nel labirinto del tempo giocano comunque per una giusta distanza dall’edizione, che è, infatti, del 2017.
  • La struttura innanzitutto, un sentiero erto che sale verso una collina - di pensier in pensier di monte in monte, iter ad Parnassum - da cui si domina dall’alto Parigi, gli idoli della mente e gli echi della vita, ovvero i generi, il racconto, la storia, altre città formicolanti e campagne semidesolate, la vita, l’arte, la cronaca, la guerra, il nascondimento, la circolare discriminazione degli uni contro gli altri, la fuga, la fame, la disperazione, la lotta, la morte, la rara luce e, come suggella il poeta l’infinita vanità del tutto.
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  • E poi il linguaggio, che s’adatta sapientemente alla costruzione architettonica, ove l’ampio spazio, ma certo non qui, ormai rare volte geniale ed accogliente, trova quasi sempre un bianco accecante di senso storico, a dritta ed a manca del razionalizzato e dell’astratto, diversamente da ciò che un’anima ingenua potrebbe aspettarsi, nel naturale ed ineliminabile cretto terrestre, ovvero un carico di colori che si volga al pigmento denso, scuro ed avvolgente, a questo punto cementificato nel bene e nel male. Oggi, di seguito alle nostre cicliche fobie, sterilizziamo tutto per orrore di batteri e virus ma il marcio unto del mondo ci avvolge comunque alle spalle, appena si perda (...clinamen epocale, guerra), sofferentemente, quell’illusione della pulizia radicale, quel bianco dell’astrazione minimalista, autoritaria o modaiola che sia, comunque quell’esausta utopia sacra della luce.
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  • I due giovani autori edificano una narrativa matura e necessariamente molto studiata e ben significante alla distanza, anche se a corto raggio potrebbe reputarsi forzata. Infatti si apre, in un continuo braccio di ferro espressivo, la ripetizione dei due moduli narrativi: la prolessi coraggiosamente inaugurando il tutto, in alto a destra della pagina con avvertenza secca di ora del giorno, e di seguito sempre l’analessi, che però non è meno deuteragonista della storia, con un - in alto al centro - ricapitolo d’antan, “...dove si racconta dell...”. Sconcerta forse un poco che si inizi dalla contemporaneità della fine della fabula, ovvero come si dice oggi dal flashfoward, mentre il basso continuo del flashback, non comporti necessariamente un meno drammatico, meno pulsante o forse meno oscuramente sentito incombere della storia complessiva, di suo né edificante, né qui ideologicamente spiattellata. Infatti tutti gli attori sono sospesi in una loro ultimità del momento che tende spasmodicamente al futuro come via di fuga dalla miseria del presente ma ha al piede la palla di piombo di un passato occhiuto e sostanzialmente irredimibile. Tutti moriamo, alla fine, per il nostro aggregato esistenziale, nessuno si salva da se stesso. E questo è un sortilegio immediatamente percepibile della coloreria che porta bene - a mio privatissimo parere - alle quattro mani che scrivono, perché anche se non è dubitabile per quale tesi propendano, è giocato sapientemente il giorno per giorno che spera e dispera assieme, più disteso o più duro, come poi avviene nella realtà della vita di tutti noi, senza che il più delle volte, nell’inesauribili illusioni ed amate riassicurazioni, ci si possa ben render conto di quanto tutto tenda a scivolare, anche o forse soprattutto, contro la nostra volontà. Certo... la volontà... è un cerbero che acquista e conquista quasi tutto l’acquistabile ed il conquistabile, sia degli eserciti più o meno automatici, sia degli artisti più o meno sonnambolici, sia persino degli scettici più o meno propagati che s’adattino a tutte le possibili ed impossibili miserie ed a tutte le favorite umiliazioni. Il successo vero, finto o mimato, domina la vita sino al punto da renderci estranei a noi stessi, non al nostro invisibile e greve sacco nero, ma alle vesti nuove che sogniamo finalmente di sostituire a quelle stazzonate (in un’apoteosi di decorazioni sopra le nostre spalle) e che si rivelano il più delle volte, conseguentemente, bizzarre, incongrue, persino, alla fine, risibilmente insulse.
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  • Ma qui si porrebbe un’altra interrogazione. Se la discrezione degli autori sulla vicenda morale del “guasto della miseria”, sia una giusta strategia che lasci a ciascuno di noi lettori la libertà e la responsabilità di un giudizio non solo storico, ma strettamente individuale, nostro e personalissimo, sulla stortura medesima ed i suoi effetti decisivi e perversi. Ad esempio, il fastidio che ho sempre provato per la discrasia terminale di molte vite che sorprendono per la loro incongruenza tra sofferenze subite e sofferenze restituite è una mia distorsione del giudizio complessivo, radicale rifiuto per cui qualsiasi genialità anche la più indiscutibile, per ingenerosità non meriti mai il perdono? ¿Ed il perdono stesso non sarebbe poi una dimensione estranea (un dover essere ancor meno vocazionale che sostanziale) ad ogni primario valore della vita? ¿Oppure, nell’incertezza, altrettanto radicale, è meglio sospendere il giudizio e stendere un velo d’umana pietà sulla differenza tra un’anima generosa ed una rancorosa? ¿In attesa di che? (...¿se non di noi stessi?). Questa è una domanda che non necessariamente odora di sacrestie, ma che interroga profondamente e forse irreversibilmente sul nostro intuibile livello esistenziale. Perché poi è facile constatare come troppi - persino dei più, a loro modo, fertili - restituiscano, appena possibile, oblio, distanza, estraneità e persino odio.
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  • Ed, indipendentemente da quanto possa sembrare involversi la mia reazione rispetto ad una serie di domande imperdonabili, è merito del metodo di tale libro, di averle suscitate. Comunque la buona novella delle quattro mani è che qui non si fa la solita apologia dei belli/brutti e dannati, lieta quanto quasi sempre irresponsabile, e soprattutto falsa, perché i puzzolenti e gli sporchi sono poi aborriti - e giustamente - dalle donne, e il carico insopportato delle sofferenze ci insegna che snaturarsi - ovvero portarsi là dove si avanza sempre (...¿per arrivare a quale traguardo?..e, troppo spesso, nel fango e nella polvere) e non ci si ritira mai - è portarsi all’estremo. All’estremo di noi stessi. Più che guardare in quel vortice.
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  • Ecco perché, da noi, in un’epoca come l’attuale, si cerca di far dominare la tinta pastello, in un’orgia di giustificata ipocrisia, costretti poi come siamo ad esorcizzare i nostri incubi di sempre... a peste a fame a bello... i bianchi lisciati e lancinanti e il fosco grezzo della materia dura, si combattono come non mai, si rendono estranei come non mai e credo che i due architetti autori, ne siano ben consapevoli, sino al punto di farne la cifra segreta di questo testo, fuori da ogni prevedibile schema. Di questo gli sono proprio debitore come lettore, singolarmente. Il che non significa affatto, anzi il contrario, che il tutto non sia estremamente pensato. Al di là dei due registri narrativi - prolessi e metalessi - ci sono tanti altri segnacoli continui che mimano i diversi livelli di consapevolezza critica, dal “...dico io...” della riconoscibile voce dentro/fuori campo, agli inserti di comunicati della propaganda di guerra, tutti ben adatti alla bisogna del raccordo, e tutti ormai ben presenti nella coscienza avvertita. Le note e le foto stesse, tutte sapientemente marcate e sorta di paratesto vibrante, sono quindi non meri espedienti, ma strumenti ben godibili nell’inconscio medio di un lettore contemporaneo. C’è anche qualche iperbole narrativa, finemente poetica, come la griglia della finestrella nel buco ipernascosto, rifugio dell’ebreo in fuga, che diventa ascissa ed ordinata, more pythagorico, del suo spiare all’esterno, tipico autoriflesso di colui ch’è abituato non solo a vedere ma a guardare, parafrasi ironica, azzarderei quasi sacrale, nel suo... al di là di bene e male. Cosa che in più - criticamente - stringe ed allenta assieme le maglie del velo voyeuristico/artistico e che è rigiocata - a suo modo - persino da un ospite/soccorritore, nella sua totale spietatezza ributtante ma anche illuminante, il grande falsario e mediocre pittore, che s’affaccia alla fine del libro. Ma decisivo per l’esito del protagonista, ovvero la fuga terminale nell’Olanda ancora tra le truppe in lotta ed il suo definitivo annegare, quando quasi libero.
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  • Tre utilissime introduzioni corredano il testo.
  • Prima: Apocalisse con figure, di Marco Genzolini. Una “geo-estetica” (che poi è il vero e proprio protagonismo dei luoghi tramite il genius loci, ribadito anche da Simone Germini, non solo dichiarato ma ben realizzato lungo tutto il testo) non sembra proprio quella - per l’estrema accortezza espressiva - di un “romanzo divulgativo”. Invece è indiscutibile la sottolineatura della storicizzata profezia sul “suicidio europeo” nel matttatoio duplicato nella prima metà del secolo feroce.
  • Seconda: Parigi come leggenda, di Flavio Cuniberto, che, da par suo, sviluppa una serie inestricabile di urgenze profonde che fanno precipitare in Parigi, nate da ogni vicina e lontana landa, una frenesia espressiva nella compresenza magmatica e quasi insondabile delle corrispondenze fra inconscio, décadence, arcaico, primitivo, simbolico, rarefazione tonale e figurativa, scomposizione analitica, futurismo, dada, surrealismo, costruttivismo razionalizzato, nuovi spiritualismi, infine recupero e piena esaltazione delle pulsioni imperialistiche grandiosamente tragiche ed assieme millantatrici... Tutto interpretato come contraddittorio percorso di riemersione dell’onda lunga del Romanticismo, ma sotto l’influsso di uno sterminato radicalismo nichilista.
  • Terza ed ultima: “L’Introduzione all’opera” di Simone Germini, sodale dei due autori, che puntualizza alcune caratteristiche della struttura, del linguaggio e della poca conformità cartolinesca del tutto. Aiuta a trarsi da facili conclusioni anche la didascalia “Parigi era sporcizia, malattia e povertà mostruosa”... messa, quasi indecifrabile, sotto la vetrina della coloreria, in seconda di copertina.
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  • Un libro realmente affascinante, che restituisce fra tanta differenziata spazzatura verbale ed ideologica, il piacere grande d’immergersi in un sogno ingegnoso che è a tratti incubo e rêverie, come è, più o meno, tutta la nostra vita. Un solo errore storico, che mi spiace proprio, sinceramente, aver dovuto registrare.