• Cultural Intelligence

  • A proposito del libro di
  • Federico Prizzi,
  • Cultural Intelligence ed etnografia di guerra,
  • (Edizioni Altravista , ottobre 2021, pag. 217,
  • 25 Euro. www.edizionialtravista.com
  • di 
  • Sandro Giovannini

    • Ai due testi di S. G.
    • segue un LETTERA di Federico Prizzi
    • seguirà un ulteriore  III  intervento di S. G.,
    • relazionato agli eventuali testi critici di altri amici…

  • I

  • Questo libro di Federico Prizzi sarà pietra d’angolo.   ¿Solo per chi riesca a rappresentarsi appieno la dinamica attuale del permanente conflitto, od anche per chi magari è abituato a prendere le cose un poco più astrattamente credendo in tal modo (…quale modo poi?) d’essere più intelligente? Guardo la mia faccia nello schermo del computer mentre esprimo questa domanda retorica e m’immagino pertanto più facilmente tante altri volti e maschere, conosciuti bene o male e persino quelle/i che posso solo ipotizzare. E’, che… già ad un terzo della lettura ero con l’acqua alla bocca e riuscivo solo con difficoltà a respirare e quindi s’affacciavano tutti gli incubi della mia vita da pensante conscio/inconscio (1) ed i sempre posticipati riassunti a futura memoria che tutti gli “intelligenti” (magari non solo proprio gli “stupidi intelligenti”) hanno sempre creduto di poter lasciare lungo il percorso. Tutte le domande esistenziali (che non sono solo quelle ontologiche, filosofiche, letterarie, sociologiche, o latamente, appunto, antropologiche) che premono sfacciatamente fin dall’infanzia ma sono coperte dalla fame di dati e di volti, che poi, più spesso si rivelano, appena poco più in là, abbuffate quasi solo di cibo grezzo e maschere di zucchero… ¿Se esiste un Grande Vecchio, più o meno barbuto, che abbia creato ed osservi tutto, magari infischiandosene del vissuto vitale proprio perché si diverta a sorprendersi lui che non si dovrebbe sorprendere di nulla… ma forse… sorprendersi di che? Magari dei tre kili e mezzo di acronimi che gli “intelligenti” hanno sempre allestito per il consumo veloce… (anche i romani…), quello che serve per reagire bene ed in fretta invece di tardi e male? Al confronto un “complottista di serie B”, ovvero uno di quei pochi che più o meno orecchiamo, è un povero mestierante delle 3 carte… su uno scatolone sveltamente ripiegabile tra i passanti curiosi e/o fannulloni. ¿Potrebbe ancora sorridere quel Grande Vecchio barbuto? Probabile. ¿Oppure… in caso che il Grande Vecchio non esista proprio (o magari operino solo le più o meno inquietanti intermediazioni gnostiche) o magari noi fossimo solo uno stranissimo accidente dell’afferenza stravolgente e misteriosa? … ¿se gli animali sapiens, siano poi così talmente stupidi da prendersi proprio sul serio da credersi intelligenti, portandosi alla semi estinzione per bulimia e per inverificabile buonismo? Almeno una volta s’ammazzavano fra loro, non reputandosi se non responsabili di se stessi, riservandosi (in aggiunta agli inevitabili flagelli naturali) una buona media di morte indotta e selezionatrice.
  • Ma questo è tutto implicito nel libro di Prizzi. “…L’implicito, ovviamente fondamento dell’arte. Qui l’implicito è tutto esplicito, ma a ragion veduta, non per difetto. E’ un discorso d’amarezza.” (2) Ovviamente. Non solo perché l’implicito è il fondamento dell’arte. Ma perché qui Prizzi parla (e non parla) da “antropologo militare”. Che non è una contraddizione in termini, ma una solida realtà strumentale. Ben operata ed operativa. E quindi tutto l’esplicito è l’insieme delle infinite e susseguenti teorie interpretative usate ed usabili nella ben poco facile convivenza del e nel mondo e delle infinite collegate ermeneutiche della supposta realtà e forse non serve proprio aggiungere un ulteriore posticcio filo d’arianna interpretativo a priori (supposto primo) nel labirinto delle interpretazioni (supposte seconde). Questo magari spetta a me, qui, per uscire fuori dal dedalo (che è l’ombra cupa del labirinto… come ci suggerisce Borges), del dedalo immaginale ed immaginario, appena all’inizio del percorso ed in minima parte e solo con i limitati mezzi che possiedo… Ma devo stare attento anch’io a non partire per la tangente, cosa che farebbero magari volentieri anche quelli che seguiranno, poi, sicuramente a commentare, forse più attenzionabili (…quanto mi piace l’obbrobrio!!!) al succo tecnico che alla supposte verità nascoste in evidenza. Di quelle che a noi - magari - fanno molto gola ma che a certi altri proprio non interessano.
  • Ora avete capito che questa è solo una sincopata (per ora) introduzione ad un libro che diverrà, appunto, angolare e che necessiterà di ulteriori approfondimenti fatti con spirito libero. Per quanto possibile. Secondo l’ELOGICON di Casanova. (3)
  • Note:
  • 1) L’autore dell’articolo si è confrontato con problematiche affini o comunque afferenti in vari momenti della sua vita di pensante. Dai vari testi contenuti nel mio primo libro di saggi “L’armonioso fine”, Società Editrice Barbarossa, Cusano Milanino, 2005, quali: Gli spiriti eroici di Mishima; Irradiazioni di Jünger; Storie di ufficiali di Spina; a “La capitale del tempo”, (NovAntico, 2014) romanzo con forti connotati storico documentali sull’avventura coloniale, ai testi del secondo libro di saggi “…come vacuità e destino”, NovAntico, Pinerolo, 2013, quali: Potere senso e repressione in Marc Augé; Genere. Virilismo-Virilità; Il mondo occidentale e la guerra; Anima-spada e anima-libro. (Ricercare le due anime. Pio Filippani Ronconi); Rapidi ed invisibili…, all’ultimo “N-SNOB. Altre evocazioni”, OAKS editrice Milano, 2021, col saggio La Fantasia del complotto; al prossimo libro di saggi “In limine”, con i saggi: Entro questo occidente; Lo scontro d’inciviltà; Paideia negativa, riservarsi una logica; Lealtà e finzione; Nemesi può attendere;…tutti già leggibili su www.heliopolisedizioni.com sezione “Rivista online Heliopolis”.
  • 2) Mario Dessy, Il sole alle spalle. Cappelli Editore Bologna, 1970, dalla ‘Presentazione’ di Salvato Cappelli, pag. 10.
  • 3) L’ELOGICON di Casanova (Luigi Sgroi).
  • casanova inglese DEFINITIVO 2

  • II
  • Dell’approccio geostrategico e di quello antropologico  
  • (S. G.)
  • L’autore, come tutti coloro che autenticamente hanno compiuto un percorso di conoscenza attraverso le cose e le persone, rintraccia fin dall’introduzione al suo testo una sorta di personale acquisizione progressiva e destinale sulle formule e sui grumi, divenienti e mai fermi, d’interpretazione della realtà.  I grumi (che si riscontrano negli inarrestabili acronimi delle infinite organizzazioni) e le formule (che si riscontrano nelle bulimiche teorie interpretative costantemente a dieta di realtà) sono sottoposti alla Necessità (…ogni altra definizione pseudorazionale offenderebbe), del capitale globalisticamente inteso. Tale multiforme neo-capitale, diviso sempre sulle aree di decisionalità e di confrontazione performante e sulle risorse universalmente rapinabili, riesce comunque a ingoiare tutto, uomini, biosfera, riserve passate e future, terre comuni e rare, divorando ogni cosa e restituendola poi necessariamente predigerita in pasto alle bocche frementi e spalancate dei nidi, ovunque innumerevolmente esplosi in voracità ed inquietudine. Il numero, innumere. Una realtà ormai innegabilmente (seppur copertamente) connessa a quella sorta di “società automatica” e di “potere automatico”, che corrisponde alla complessità oscura odierna di cui parlano (poco ma bene) i più consapevoli  e liberi filosofi. Essi fanno ormai, dalle già citate verità segrete esposte in evidenza, base problematica per tutti gli altri ma sostanzialmente univoca nella sua episteme, ovvero il pensiero unico che permea democrature, oligarchie e dittature, tutte diversamente abili. Sistemi molto più interconnessi di quanto si possa e voglia dire, seppur ferocemente concorrenti per il potere universale e che, a livello antropologico, al di là di pur abissali distanze ereditate in termini di valori ancestrali e tradizionali per tanti versi di riferimento ancora attuali o residuali, è sempre più marcata da una riduzione consumista del sognato avere virtuale rispetto all’esperito essere vitale.  E tutti ne  abbiamo vissuto ed ancor più ne vivremo, la contraddizione spaventosa e tragica.  La cosiddetta  “miseria simbolica” reinterpretata non solo esteticamente ma anche politicamente in ben opposte ed apparentemente paradossali opposizioni, ma come dato, anche insuperabilmente pervasivo.  Ovvero il dominio planetario del capitalismo consumistico - pur diversamente normato e nominalisticamente declinato - che crea instancabilmente le sue varie ipostasi, le coordina sempre più automaticamente e sempre più automaticamente le affina per il dominio. Ma, proprio in relazione con il libro di Prizzi, non posso e non voglio surrettiziamente commissionare, al testo che qui vado commentando, una caratura esplicitamente filosofica, cosa che non è nelle parole espresse dall’autore, proprio per la scelta, da lui fatta, di rimanere, indiscutibilmente ma dialetticamente, con gli scarponi sul terreno, e con la testa vigile, per l’elevatissima caratura teorica, dimostrata dal procedere concatenato in più di 200 pagine, ove ogni capitolo potrebbe dar luogo ad un mondo a parte di sviluppi logici…  Io che questi scarponi non li uso da decenni, posso tranquillamente prendermi la libertà di leggere questo libro fondamentale, con un taglio en artiste e magari caricarmi di tutte quelle contraddizioni che forse suggeriscono un livello più elevato per coloro che non vogliano solo nutrirsi della linfa tecnico/esperienziale ma guardino alla lotta delle idee, innervata però di imprescindibili acquisizioni realisticamente lucide seppur spietate.  Prizzi, lungo tutti i capitoli del suo libro, usa un procedere piano e del tutto sempre perfettamente risalibile, corroborato da infinite “prove di esistenza”, anche per smontare la facile costruibilità astratta che diversamente attira sempre i pensatori acuti ma con le relative possibili fuoriuscite per la tangente…  I capitoli magistrali, a tale proposito,  non meno didattici di altri ma forse più atti proprio a renderci partecipi consapevoli della robusta documentazione a corredo (che è la prova tangibile di quanto il pensare strategico sia una sorta di “supercomplotto”, da sempre e per sempre, pur deprivato dei risibili risvolti maniacali e patologici, ma non per questo meno serenamente inquietante) sono:  “Il ruolo dei media e dei Social Network nella propaganda sovversiva”;   “Complottismo  e teorie cospirazioniste”;  “Un’analisi critica alle teorie di Gene Sharp”; “Ipotesi di confronto con il mondo accademico”; “Il Caporale Strategico nell’Era dei Media (Strategic Corporal)”; “Nascita e declino dello Human Terrain Sistem (HTS)”; “Le critiche dell’American Anthropological Association (AAA)”; “Cross Cultural Competence (3C)”; L’utopia del Population-Centric Counterinsurgency Approach”; “I Cross Cutting Topics (CCT)”; L’immersione partecipanteLe interviste degli informatori…  e ne ho scelti proprio pochi tra tanti… e questi solo a mia personalissima predilezione, ché invece tutti i capitoli si determinano, alla fine, come assolutamente conseguenti.  Senza poi neanche accennare al Capitolo 7 de “Il Caso Studio: Al Shabaab e l’Information Warfare”, che onora tale libro dell’ineguagliabile esperienza diretta. Ed, infine, di una “Bibliografia” complessa ed articolata, che non è la solita compilazione necessitata, ma un utile strumento di comprensione.
  • Ma vorrei fermarmi, icasticamente, su alcuni passi:
  • “…la cultura al servizio degli equilibri geopolitici” (pag.14);  
  • “…coerentemente con quanto previsto dal Diritto Internazionale relativamente alla figura del legittimo combattente” (pag.15);
  • “…Un’Utopia che pensava di risolvere le guerre civili, il frantumamento degli Stati, le pulizie etniche, semplicemente separando fisicamente i contendenti e pagando con gli aiuti internazionali la soppressione delle tendenze bellicistiche. Chi non si voleva piegare a questa logica ‘umanitaria’, veniva sottoposto alla gogna mediatica e alla giustizia dei tribunali internazionali…” (pag.18);
  • “…Oggi, invece, le guerre non si dichiarano, ma si fanno in modo indiretto…(…) Oggi si attaccano gli avversari attraverso i media, con la disinformazione, con gli attacchi finanziari sui mercati borsistici, con le sanzioni economiche, sostenendo movimenti di lotta armata, ma anche ‘pacifiche’ proteste di piazza, creando eserciti di mercenari, uccidendo gli avversari con missili teleguidati, con droni, con virus letali, con gli scandali giudiziari. No, nelle guerre di oggi più che in passato, non c’è necessariamente bisogno di armi per uccidere il proprio nemico…” (pag.20)
  • “…Secondo l’attuale Capo di stato Maggiore delle Forze Armate Russe Generale Valerij Gerasimov le guerre del futuro saranno, necessariamente, Guerre Cognitive, cioè guerre d’informazione.” (pag.21);
  •  “…Un nucleo che per Andrej Il’nitskij, analista russo vicino al partito di Putin ‘Russia Unita’, rappresenta l’ideologia. Un concetto secondo l’articolista russo, centrale nella visione militare russa. Poiché per ‘…indebolire e distruggere la vitalità di una nazione, senza azione militare diretta, è necessario distruggerne appunto il nucleo ideologico (…) …Poiché l’ideologia è il navigatore di una nazione che mette in collegamento passato, presente e futuro’…” (pag.22);
  • “…Queste sottoculture rivoluzionarie, che si possono trovare in forme e quantità diverse nello stesso tempo e in qualsiasi società, danno vita all’agitazione sovversiva che è lo stadio propedeutico alle altre fasi della ‘conflittualità non convenzionale’…” (pag.25);
  • “…poiché attraverso la conquista delle popolazioni, si voleva trasformare  il cittadino in un ‘uomo-arma’. …‘Uomo-arma’ che era il prodotto della penetrazione silenziosa, psicologica e morale della propaganda  attraverso la diffamazione, le delazioni, le provocazioni alle classi dirigenti nemiche…” (pag. 28).
  • Ma oltre queste brevi ed apparentemente del tutto leggibili riflessioni (ma ne abbiamo mai tratto il minimo conseguente - definitivo - insegnamento esistenziale?) vorrei portarvi altri due esempi, appena poco più distesi, per dimostrare quanto Prizzi vada in profondità, senza sconti per nessuno (neanche per se stesso).
  • Pag.112: “… La Defence Cultural Specialist Unit (DCSU), come superare gli errori dello HTS.
  • “…Nel luglio del 2019 il Prof. Gilbert Achar della School of Oriental & African Studies (SOAS) è stato coinvolto in uno scandalo che l’ha visto implicato, insieme ad altri docenti, nell’addestramento, dal Gennaio all’Aprile 2019, di una unità dell’intelligence inglese: la Defence Cultural Specialist Unit (DCSU). Addestramento che avrebbe visto fondi per 400.000 sterline finanziati dal Ministero della Difesa britannico e che sarebbe iniziato già nel 2017.  Ciò che incuriosì in modo particolare la stampa britannica  fu che il Prof. Achar, noto per le sue posizioni marxiste e per la sua collaborazione al Jacobin Magazine e al Democracy Now, abbia affermato di essere stato convinto dell’importanza che docenti d’estrazione politica di sinistra fossero impegnati nella formazione culturale dei militari inviati in missioni all’estero da Noam Chomsky.  Il quale, com’è notorio, ha sempre mantenuto un rapporto di collaborazione con la Difesa americana. Ciò al fine di togliere un certo monopolio al pensiero di ‘destra’ in ambito militare.  Questo scandalo, in realtà ha riportato in auge il controverso rapporto tra mondo accademico e militare in merito all’utilizzo delle Scienze Sociali e antropologiche  nell’ambito delle operazioni di guerra. Un rapporto che sembrava ufficialmente tramontato con il fallimento dello HTS, ma che ha invece visto, specie nel mondo anglosassone, una continuità d’impiego apparentemente mai interrotta…
  • … no comment.
  • Pag. 154:
  • “…Una possibile soluzione a questi ed altri dilemmi in cui l’Etnografo di Guerra potrebbe incorrere nell’interpretazione etnografica di un conflitto è data dalla ‘Prospettiva Ermeneutica’ di Clifford Geerz.  Il quale, prima di tutto, sosteneva che le Scienze Sociali sono Scienze Interpretative e che l’antropologia interpretativa è tale perché cerca i significati attraverso i simboli caratterizzanti la vita psichica collettiva.  I quali, si nascondono dietro le interazioni sociali. Questa sua enfasi sulla comprensione  e sull’interpretazione porta implicitamente alla ‘traduzione’ di una cultura a un’altra.  Traduzione perché cerca appunto di dare un senso a ciò che è straniero, rendendo familiare l’atto compiuto dal locale allo staff militare.  L’etnografo di guerra, pertanto, si inserisce in questa ‘traduzione culturale’.  Traduzione che non vuole però dire attuazione di un  mero metodo comparativo. Bensì, come insegnato da Geerz, bisogna focalizzare la propria attenzione sui significati locali dei fatti culturali.  I quali possono essere compresi solo all’interno del quadro simbolico che li ha prodotti. Attraverso una ‘descrizione densa’ si scopre  e si ricostruisce la complessità dei significati non espliciti. Contestualizzandoli e traducendoli in informazioni utili per la pianificazione e la condotta delle operazioni militari…”
  • …no comment.
  • E potrei continuare così quasi all’infinito… lungo tutte le oltre 200 pagine del testo. Ed il concatenamento progressivo dei significati è sempre supportato efficacemente dai significanti.
  • Tornando alla mia discutibilissima lettura potrei allora concentrami (ovviamente semplificando al massimo del lecito) sulla dimensione dell’altro e sull’immersione partecipante, in qualità di due rocche concettuali che Prizzi ci invita a penetrare e poi a scalare. Ma avvicinandoci, ed incominciando davvero a saggiare il terreno, scopriamo che fanno parte di un unico ed enorme campo trincerato. L’altro - banalissimamente - non sono mai… io… a prima vista.  Ma, addentrandomi ancora, scopro che il mio terrore e la continua rincorsa di una possibile ulteriore  e meno illusoria comprensione di quell’altro mi portano inevitabilmente a domandarmi, senza più ritegno e copertura, od almeno con sempre meno ritegno e copertura (se non perdo del tutto la testa nel  vorticoso furor …all’esempio di Kurtz: se, appunto, senza tirare le somme …he had judged. "The horror!), chi io sia, effettivamente.  Questo non era proprio lo statuto ermeneutico dell’occidente moderno, ove tutto andava sempre più materializzandosi, pur sempre con un taglio individualizzante.  Ma tutta la cultura antropologica ha dovuto compiere questo spaventevole regressus ab inferis, ed in tal modo ha completato un primo ciclo (anche storiograficamente accademico) di vitale ricomprensione del mondo.  Un mondo - di seguito - sempre meno materialisticamente diviso tra occidente ed oriente e tra nord e sud.  E l’antropologo/etnografo di guerra deve ancor più scendere βάθος τῆς ψυχῆς  o meglio βάθος καρδίας ἀνθρώπου e questa è una scelta che nasce ontologicamente prima ancora che confessionalmente  (o professionalmente).   Ad esempio (professionalmente): L’HTS (Human Terrain System) si nutre di questo paredro virtuale e con le altre due… “…discipline diverse: il CQ (Cultural Quotient), lo Human Terrain System, e l’Antropologia Pubblica.  La prima nata  nel 2003, nel mondo della formazione manageriale mentre le altre due  nel 2006 nell’ambito militare  e in quello accademico…”, (pag.54)…  riesce a comporre una comprensibile tavola sinottica sulla quale si potranno esercitare tutte le successive variazioni ed implementazioni. La stessa parola “terreno” archetipicamente indicava la parte più basale di qualsiasi corpo, quella che contattava le forze ctonie e da esse, controllandole e verificandole (quindi non lasciandosene nefastamente dominare), fortificava il cuore. La “terra del cuore”, grunde des herzen,  intensifica, in direzione sùpera, il cuore fino all’implosivo uso eckhartiano grunt der sêle…  nella sua impervia accessibilità poco risalibile ed ancor meno esprimibile,  e poi ancora, in Taulero ed  altri, come se il terreno fosse la più riservata oscura/luminosa cella del discorso con il Tutto… e così via, sino al mix di misticismo e razionalismo in Leibniz  e poi alle anticipazioni psicologizzanti e sociologizzanti delle collegate dimensioni.  Questa piccola incursione in ciò che non dice il libro… ma indubitabilmente implica, e che serve solo a stabilire che l’altro e l’immersione partecipante  hanno un cuore immemoriale.  Prizzi lo evidenzia nella chiusa del suo conciso intervento a corredo del mio primo intervento (I), quando recita: “...Tuttavia, cio’ e’ gia’ stato fatto, in tempi oramai dimenticati e disprezzati, da uomini differenziati che dell’immersione partecipante nel mondo che li circondava fecero una scelta di vita”.    

  •  LETTERA
  • di
  • Federico Prizzi
  • “…Con l’avvento degli attentati terroristici di matrice jihadista che hanno sconvolto gli Stati Uniti il 9 settembre 2001, e poi buona parte dell’Europa, i vari esperti di intelligence hanno iniziato a parlare sempre piu’ insistentemente dell’importanza della cultura per comprendere e sconfiggere il fenomeno del terrorismo. Un fenomeno che, culturalmente, spesso nasceva all’interno delle nostre societa’.
  • ……Cultura….ma di quale cultura parlavano questi esperti? Della nostra o della loro? Di come noi ci rapportiamo alle culture diverse o come queste culture diverse interagiscno con noi…. anche all’interno delle nostre societa’?
  • Sebbene tentativi di dare delle risposte fossero state abbozzate negli anni… mi mancava comunque un metodo chiaro, lineare e applicabile sul campo; anche per chi come me sia semplicemente uno studioso-viaggiatore in zone di confine.
  • Infatti, le domande che mi sono sorte, lavorando anche in paesi dove quella cultura terroristica aveva ampi proseliti, sono sempre state: “Ma come si studia una cultura radicalizzata, sia di tipo terroristico che prettamente militare?”, “Quali sono le griglie di analisi?”, “Come si puo’ studiare questa cultura da vicino senza essere influenzati dagli sterili dibattiti accademici?”. A queste e a tante altre domande il mio libro “Cultural Intelligence ed Etnografia di Guerra” vuole dare una risposta pratica. Una risposta incentrata su una metodología analitica di tipo antropologico che mira in particolare a comprendere come la cultura altra, in questo caso gli jihadisti somali di Al Shabaab, utilizzino il potere mediatico per veicolare messaggi a specifici target audience, in Somalia e nel mondo….anche a casa nostra.   Fare pero’ del “terreno umano”, come definito oltreoceano, il proprio campo di ricerca non e’ semplice, anzi, assolutamente difficile. Tuttavia, cio’ e’ gia’ stato fatto, in tempi oramai dimenticati e disprezzati, da uomini differenziati che dell’immersione partecipante nel mondo che li circondava fecero una scelta di vita.”   (Federico Prizzi)