• radici dellidealismo

  • Pubblichiamo un estratto dalla postfazione di 
  • Giovanni Sessa
  • al volume,
  • Le radici dell’idealismo.
  • Lettere a Benedetto Croce 1925-1933 e a Giovanni Gentile 1927-1929,
  • a cura di Stefano Arcella, con introduzione di Hervé A. Cavallera,
  • Fondazione Evola-Pagine editrice,
  • Roma 2022,
  • pp. 194, euro 18,00
  • […] Gli epistolari Croce-Gentile hanno mostrato che l’attualismo non fu affatto una costola del crocianesimo. Al contrario, come tra gli altri ha chiarito Melchionda: «il percorso idealistico di Gentile antecede quello di Croce […] il più giovane […] svolse nei confronti del meno giovane una specie di azione di sottile convincimento» . In realtà, Croce continuò a pensare la filosofia in termini ancillari rispetto alle arti e alle scienze, che avrebbe dovuto semplicemente “illuminare”. La filosofia, a suo giudizio, mancava di un oggetto specifico di indagine. Al contrario, la teoresi risulta centrale per Gentile in quanto egli avverte in tutta la sua forza la domanda di senso, di valore, di verità: «in definitiva di spirito». […] Gentile: «porta dentro la filosofia l’“entusiasmo” di cui racconta Platone nel Fedro, lo stupore magico di un’anima partecipe del sacro. Croce confessa […] di essere stato sempre refrattario […] al problema teologico-filosofico». Croce, nonostante tale “atrofia” religiosa, si tutelò rispetto a derive materialiste, aderendo toto corde all’etica concettualista del realista Herbart e ciò gli fu sufficiente per conseguire quella condizione interiore di pessimismo appagato e conciliato con il mondo, propria dell’erudito soddisfatto di sé.
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  • Finì così per ritenere conclusa la grande storia e individuò nell’Europa liberale il migliore dei mondi possibili. Per Gentile, invece: «la grande storia doveva allora aprire un capitolo tutto nuovo»,  era storia aperta. A questo punto due considerazioni in merito risultano opportune. Come ha sostenuto Augusto Del Noce, la rottura Gentile-Croce, sopravvenuta nell’autunno del 1924, costrinse quest’ultimo, il cui pensiero era inadeguato a compiere una critica dell’attualismo in chiave teoretica, a “reagire” in termini politici nei confronti dell’attualista . Non si rese però conto che, in tal modo: «si avviava ad accettare il concetto del suo avversario secondo cui la politica, lungi dall’essere un semplice scontro di passioni, è sempre la politica di una filosofia». In secondo luogo, da tutto ciò si evince come il vero referente culturale di Evola, per ragioni molteplici e disparte, sia da individuarsi, a nostro parere, in Gentile, nient’affatto in Croce, rispetto al quale le differenze teoretiche risultano enormi ed insormontabili.
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  • La “vicinanza” tra i due che emerge dalle lettere è dovuta a ragioni contingenti e ci pare del tutto strumentale. E’ dettata dalla necessità impellente del giovane Evola di avere “entrature” nel mondo editoriale del tempo e dall’interesse, meramente erudito, si badi, di Croce, nei confronti della produzione esoterica cinque-seicentesca, lo ha ben precisato Arcella. Ben diversa, l’accoglienza che l’idealista magico avrebbe potuto trovare, ma che non trovò, presso Gentile. L’attualismo fu il punto di partenza del filosofare evoliano, pensiero ritenuto conclusivo della storia d’Occidente. Il problema è che Evola ritenne di aver individuato una via oltre la filosofia di Gentile, atta a recuperare il sapere magico-ermetico. Ciò spiega la reazione esageratamente negativa, espressa da Spirito […] alle opere teoretiche del pensatore romano, così come le successive prese di posizioni decisamente critiche ed “irritate”, anche sotto il profilo personale, di Evola nei confronti del filosofo di Castelvetrano e di esponenti della sua scuola, che, accortamente, Cavallera legge quali lapsus freudiani, rivelanti la delusione per quel mancato incontro.
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  • La filosofia evoliana attraversa il gentilianesimo per farsi ultrattualista: sorse quale tentativo di superamento del limite meramente gnoseologico incontrato dall’attualismo. L’atto puro del pensatore di Castelvetrano per Evola non è mai compiutamente realizzato, è entità di conoscenza, ma non potenza attiva. Attraverso il recupero di Fichte, nota Donà, nella contrapposizione di Io e non-io, l’idealista magico avverte qualcosa che non ci: «limita affatto definitivamente», oltre la quale è possibile riconoscere un’ulteriorità cui tendere. […] Tutto quel che è, esiste in quanto posto dall’Io: l’incontro con il mondo innesca lo sforzo. Il limite agisce da motore dell’Io, permettendogli di essere, a tutti gli effetti, atto sempre all’opera. L’Io gentiliano tale situazione l’aveva conosciuta, mentre Evola vuole renderla reale, fattiva. Va mostrato, nelle cose, che l’oggetto non è altro da noi!
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  • Allo scopo esso va trasfigurato ma, si badi, la sua trasfigurazione è possibile a condizione che l’Io stesso si metamorfizzi. Se l’azione trasmutante si fosse manifestata solo nei confronti del mondo, Evola sarebbe rimasto all’interno della prospettiva della sinistra hegeliana, al prassismo di Marx. Il filosofo romano è ben più radicale, sa che l’Io: «in quanto incondizionato, non può venire identificato con alcuna forma» , deve negare ogni norma inconfutabile, sottrarsi ad ogni imperativo, anche quando a vincolarlo: «dovesse essere la stessa incondizionata libertà». Il problema è tutto qui: il fondamento è infondato, è la libertà! Principio infondato che si sottrae all’entificazione. Per questo, l’individuo assoluto, incapace di trovar pace in un positum, pur non essendo limitato, non manca del non-io, non esclude il limite. Tale situazione lo induce a ri-fare, ri-fondare, alla luce della infondatezza del principio, la libertà, sé stesso ed il mondo.
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  • Per Evola […] L’impossibile è: «volontà capace di volere il passato; allo stesso modo in cui tutti noi, di norma, ci sentiamo autorizzati a volere il futuro».
  • […]
  • Evola fa, in più luoghi del proprio percorso, esplicito riferimento alla tradizione ermetica, al magismo, quali forme di pensiero-azione atte a realizzare la possibilità dell’impossibile. La stessa che attualizza nel suo fare ogni poietes, ogni artista. Da ciò la straordinaria interpretazione della musica jazz fornita da Evola, fin dagli anni Trenta. Il filosofo, nota Donà, comprese, meglio del “progressista” Adorno, che tale tipologia musicale, evocante forze di pura azione e di puro ritmo, poneva gli uomini nuovamente al centro di evocazioni menadiche e, tanto negli strumentisti, quanto nei fruitori, era in grado di indurre un potente incipit vita nova. Così Donà: «proprio nel jazz questa capacità di affermare e negare in uno - senza che il negare si ritrovasse costretto […] a risolversi […] nella semplice indicazione di “altro” positivo - stava ridando voce alla vera Tradizione».