• Manifesto nuova filosofiaBeuys
  • Per una nuova filosofia
  • Massimo Donà e l’arte
  • di
  • Giovanni Sessa

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  • La nostra è epoca di “acque basse”. Manca la forte aspirazione anagogica, iperbolica, presente in altri frangenti storici. Il dibattito intellettuale è monocorde, sintonizzato sul senso comune. Fortunatamente, c’è chi non si accoda al coro conformistico. Lo dimostra l’ultimo numero della rivista Nova Theoretica edita da Castelvecchi, significativamente intitolato, Manifesto per una nuova filosofia (per ordini: 06/ 8412007, info@castelvecchieditore.com, pp. 223, euro 20,00). In esso, sette illustri accademici (M. Adinolfi, M. Donà, F. Leoni, C. Meazza, M. Moschini, G. Rametta, R. Ronchi) presentano un progetto ambizioso, pensare un nuovo paradigma filosofico: «Tenendo fede a un solo principio: quello della ricerca svolta in prima persona» (p. 5), liberi da ogni appartenenza di scuola e, soprattutto, dai dogmi imperanti nel nostro tempo che, in filosofia, hanno isterilito il confronto attorno a false opposizioni: continentali/analitici, differenza/identità, soggettività/evento. Il tentativo è serio, importante. Muove dalla consapevolezza che la filosofia non è un sapere: «già costituito […] ma è sempre allo stato nascente, sempre in questione quanto alle sue possibilità» (p. 7).
    Qui ci intratterremo sugli scritti di Massimo Donà. Il filosofo veneziano si occupa di tre lemmi fondamentali di un nuovo lessico speculativo, strettamente connessi tra loro sotto il profilo teoretico: impossibilità, inalterità, singolarità. Per quanto attiene al primo, Donà ricorda che in Occidente, nell’endiadi potenza/atto è stato assegnato il primato a quest’ultimo nell’iter che conduce da Aristotele a Hegel e giunge al neo eleatismo di Severino. Detto ciò, il pensatore si confronta con i plessi più rilevanti della tradizione speculativa europea, mostrando, in tutta evidenza, l’inanità della classica distinzione di possibile e necessario, discendente dalla valorizzazione dell’atto. Incalza, inoltre, il lettore, interrogandosi retoricamente: «E se impossibile fosse tutto quello che esiste, proprio quale esistenza del non-esistente? […] E se impossibile fosse cioè proprio quello che non solo può essere, ma è?» (p. 88). Ciò che esiste è l’impossibile, in quanto il “positivo” non è che la negazione di una negazione. Per questo le cose non sono mai quel che dicono di essere: «come avrebbe saputo fin da giovane, il filosofo-artista Evola, impegnato a rivendicare […] l’assolutezza dell’arbitrario […] che, in quanto tale, non sarà mai universalizzabile» (p. 88).

  • All’impossibilità è connesso il tema dell’inalterità. Donà lo rileva mostrando l’auto contraddittorietà del principium firmissimum. Essa si mostra nell’elenchos aristotelico: il negatore, volendo contrapporsi alla verità statuita dal principio d’identità, paradossalmente se ne serve, smentendo se stesso. Ma, venuta meno la negazione del principio, il vero perde il volto che, fino a quel momento gli competeva, diviene erratico. Il pensiero dell’inalterità insegna che non vi è un terzo tra gli opposti: «Forse si tratta solo di sintonizzarsi con l’autonegazione di entrambi gli opposti» (p. 97), oltre ogni tentativo dialettizzante. Eternità/tempo, essere/nulla, unità/molteplicità sono in uno. Tale tesi induce Donà a confrontarsi con la singolarità, centrale in tanta filosofia contemporanea. L’argomentazione del nostro muove da una domanda essenziale. Esiste davvero un orizzonte nel quale le molteplicità singolari sono poste fuori dall’individualità che è propria dell’assoluto? Se così fosse si: «rischierebbe di fare dell’Assoluto medesimo, un che di solitario, abbandonato e risolutamente inattingibile da parte della singolarità» (p. 198). Il compito di ogni singolarità è quello di non dimenticare che in essa palpita il volto dell’individualità assoluta: «In particolare, là dove quest’ultimo sappia vivere finanche le proprie incertezze […] quali perfette espressioni sempre del medesimo assoluto» (p. 199). Il filosofo veneziano recupera, pertanto, al di là delle consuete esegesi storiografiche, il nesso teoretico che legherebbe il più consapevole tomismo, nientemeno che alla tradizione ermetica bruniana.

  • Tali posizioni si evincono da un ulteriore scritto di Donà, occasionato dalla celebrazione dell’incontro di due artisti del Novecento, Alberto Burri e Joseph Beuys, avvenuto a Perugia il 3 aprile 1980. Per l’occasione, il nostro ha scritto un saggio illuminate dedicato all’artista tedesco, mentre Massimiliano Marianelli si è occupato, con perspicacia argomentativa, di Burri. I due contributi sono sati raccolti nel volume, Beuys e Burri: 1980-2020. Un tempo e il suo orizzonte di senso, pubblicato dall’editore Piè di pagina (pp. 93, euro 18). Il volume è accompagnato da un intrigante apparto fotografico, che riproduce le opere che, in quella circostanza, i due realizzarono nella città umbra.
  • Donà sostiene che senso ultimo dell’arte per Beuys è: «rendere manifesta la vera naturalità comunque custodita “da” e “in” ogni artificio» (p. 21). La natura, intesa come “quel che si muove da sé”, interroga l’essere naturale che anche ognuno di noi è e lo induce ad agire fabbrilmente: «Il fatto è che io “muovo”solo in quanto nell’artificiale o nel naturale, vi è già qualcosa che vuole e può muoversi» (p. 24). L’artista non fa che corrispondere a questo potere-volere. In funzione di tale sintonia viene meno la distinzione esterno/interno che sembra mostrarsi nel fare artistico, in quanto ad agire è tale “potenza”, sempre in fieri, nell’uomo e nella natura. Poietes è chi s-muove le forme fisse, la dimensione statica che, esteriormente, connota gli enti di natura, mostrando il fluxus che li costituisce. La verità dell’arte di Beuys, sta nell’identità di quiete e movimento e di tutti gli opposti che animano l’esistere: «un fare vero dovrà mostrarsi capace di smentire la fallace persuasione secondo cui il sostrato sarebbe “qualcosa” di determinatamente distinto dal muoversi di quel che si muove» (p. 27). Tutto è movimento puro, insensato, misterioso.   Per Beuys, l’arte non può essere ridotta all’opera, in quanto è sempre all’opera. Ciò che conta è il “vissuto” dell’artista, connotato da una preparazione di tipo “iniziatico”, mirata a s-determinare la propria singolarità e ad aprirla all’individualità della potenza operate in natura. Tale processo è, fichtianamente, tendente all’infinito, aporetico, inconcluso. Ma, sopratutto, è aperto all’altro, alle sue possibili smentite, in un incontro dialogico, centrato sulla libertà. Da qui il tratto sociale, comunitario, della produzione di Beuys, sensibile alla difesa della natura in un’epoca nella quale questa, ridotta a regno della quantità, è sottoposta al rapporto apprensivo della tecno-scienza. Il poietes deve farsi modello antropologico di un’umanità diversa, rispetto a quella costituitasi nell’era dell’individualismo borghese. La sua è arte allargata, un nuovo modello del fare, privo: «tanto di soggetto quanto di oggetto» (p. 43).
  • Donà, postosi in sequela di tale lezione, da autentico musicista-filosofo, indica una via di liberazione dalla datità, dalla staticità in cui la vita è stata costretta dalla visione logocentrica.