• Ierogamia
  • di
  • Giuseppe Gorlani
  • Se, in nuce, l’uomo contiene tutto, allora può comunicare con tutto, in alto e in basso. Può spegnere le stelle e accenderle. Può scegliere o perfezionare involucri in cui manifestarsi. Può unire il fuoco all’acqua in una superiore sintesi. L’uomo attuale si è perfezionato nel potere meno intelligente di distruggere… e si pensa “evoluto”. Il giovane Pico sosteneva: «Magiam operari non est aliud quam maritari mundum».1     Maritare il mondo per analogia, per similitudine, per sympatheia o, in particolare, per contrasto. Due poli opposti hanno infatti in comune il prana, la forza-potenza primaria emanata dall’Essere. Per esempio, il veleno e il medicamento non sono, agli occhi del sapiente, inconciliabili, ma complementari, coincidenti; essi, se utilizzati con arte impeccabile, si capovolgono e fondono l’uno nell’altro, «onde effettuare i miracoli dell’Unico».2   Il dragone ermetico «… è velenosissimo, e tuttavia è perfetto. […] Il suo veleno diventa la gran medicina. […] Di questo tutti i saggi si rallegrano a gran voce».3     Maritare il limitato con l’illimitato, il finito con l’infinito, il tempo con l’eternità, il profano col sacro, lo scendere col salire, l’espirare con l’inspirare, Ida con Pingala, il passato con il futuro, la notte con il giorno, il no con il sì, il Kali-yuga con il Satya-yuga.   Realizza tali ierogamie il principio divino, sovra-cosciente, quando apre porte sottilissime ai solstizi, nei crepuscoli, nelle aurore, nel samadhi, al fine di svelare l’immortalità che l’esoterismo addita.   Ne ebbe intuizione Gustavo Adolfo Bécquer: «Quién reunió la tarde a la mañana? / Lo ignoro; solo sé / que en una breve noche de verano / se unieron los crepúscolos y… fué»
  • «Il cammino della vita, il cammino dell’intelligenza è pensato da Eckhart come un reditus, come un ritorno all’origine, dal molteplice verso quell’Uno da cui siamo usciti, ma sempre in qualche modo rimasti, giacché niente sta fuori dall’Uno».5    In tal senso qui si parla di maritari mundum.   La Magia sarà dunque, nel suo aspetto alto, nobile, una prassi conoscitiva e non certo goetia.  Apuleio sostiene che «essa è un’arte accetta agli dei immortali, che ben conosce il modo di onorarli e venerarli, un’arte pia, evidentemente, e che conosce il divino».6   Elifas Levi si riferisce ai praticanti dell’Alta Magia come agli «eletti dell’intelligenza».
  • Nello Hatha-Yoga-Pradipika, dopo aver descritto il mahavedha (sul quale non ci si sofferma, a causa della sua pericolosità), Svatmarama parla del matrimonio tra Ida e Pingala: «Si genera così l’unione della Luna, del Sole e del Fuoco, per l’immortalità».   Il “Fuoco” si riferisce all’infinitesimale canale mediano, sushumna, nel quale i due precedenti entrano, unendosi.   All’interno di una psiche purificata e debitamente disciplinata, è necessario sviluppare l’attenzione perfetta; da essa sostenuti è possibile porgere al Sé-Shiva la propria irriducibile Verità, sulle ali possenti del Maha Mrityunjaya Mantra: «Om Tryambakam Yajamahe…», offriamo il nostro sacrificare al Signore dai tre occhi.   Un mantra non è certo una semplice preghiera o un pensiero, per quanto elevato; esso è formula di potere, fondata sulla Conoscenza. Dice Asclepio, confrontando il linguaggio sacro degli Egiziani con la lingua dei Greci: «La stessa particolarità del suono, la precisa intonazione dei vocaboli egiziani, racchiudono in sé l’energia delle cose che vengono dette […] Noi non usiamo semplicemente parole, ma suoni pieni di efficacia».7
  • I Filidh, che andavano di villaggio in villaggio a istruire e a cantare i miti, suscitavano negli ascoltatori la percezione del suono delle campane, lo sciacquio delle onde, lo strepito d’una battaglia, il fluttuare della nebbia nella foresta. Dicendo “gioia”, “disperazione” o “paura”, ne consentivano la comprensione profonda. Li ispirava e proteggeva la dea Brigit. In che lingua parlavano? Si presume che avessero contezza della “Lingua degli Uccelli”, circa la quale il mondo moderno non sa pressoché più nulla.    «Il fatto è che noi non possediamo più quella poetica sapienza, vastità e profondità interpretativa delle evidenze naturali che avevano gli antichi».8    Ci sono state sottratte dall’acefala identificazione nel divenire, detta pateticamente “progresso”, dal rumore delle macchine, dalla mentalità utilitaristica. Soltanto qualche raro individuo riesce a sottrarsi al gorgo fatale e a preservare comprensione e sensibilità radicate nella metafisica.   Il Petrarca conosceva, da poeta eccelso qual era, il potere della parola.   Nel sonetto Mentre che ‘l cor dagli amorosi vermi si legge: «di rime armato, ond’oggi mi disarmo, / con stil canuto avrei fatto parlando / romper le pietre, e pianger di dolcezza».  Ciononostante la sua mancanza di sapere teurgico – osteggiato, tra l’altro, dalla religione cui apparteneva – non gli permise di sottrarre Laura all’irrevocabilità della morte, ma soltanto di darle fama duratura.

  • In Orfeo – il cui canto, in virtù di sapienza iniziatica, animava rocce, immobilizzava belve, muoveva alberi e incantava gli Dei – non fu l’impotenza della parola-canto a ricacciare Euridice nel regno dei morti, bensì l’errore di volerla vedere come una parvenza esterna a sé, cedendo alle lusinghe della dualità.   Quel che, nella versione virgiliana, Orfeo non riuscì a compiere, lo realizzò Aristeo ottemperando con scrupolo ai sacrifici prescrittigli da Proteo e ottenendo che le sue amate api, care alle Muse, tornassero a vivere.   In India si tramandano casi di siddha o natha che hanno ridato vita ai morti.  Paradigmatico è quello relativo al grande yogin Gorakshanatha che resuscitò una regina auto-immolatasi sulla pira funebre con la cerimonia del sati, poiché il raja Bhartrihari, con l’intento di metterne alla prova la dedizione, le aveva fatto credere di essere morto.  Il sacrificio della regina era andato ben oltre le intenzioni del re e perciò questi convocò Goraksha, il quale, dopo averne verificato la mancanza di egoismo e la compassione, resuscitò la donna dal re amata.    In realtà la Teurgia, sia d’Occidente che d’Oriente, non arretra nemmeno davanti alla morte.  Essa insegna ad immergere l’inerzia e la sudditanza alle passioni nel fuoco dell’ascesi (tapas) – espressione della lucida passione suprema – in modo che l’identificazione nel cadavere si estingua e il Daimon (Atman) che in verità siamo si innalzi per unirsi, attraverso il Sole, all’Ineffabile Parmatman.

  • 1 - Cit. in E. Garin, Ermetismo del Rinascimento, Pi 2012.
  • 2 - Tabula Smaragdina
  • 3 - Musaeum Hermeticum
  • 4 - «Chi congiunse la sera alla mattina? / Io lo ignoro, ma so / che nel tramonto estivo si congiunsero / i crepuscoli, poi… tutto sfumò». Trad. di Virgilio Serafini.
  • 5 - Meister Eckhart, L’Anima e Dio sono una cosa sola, a c. di Marco Vannini, Le Lettere, Fi 2020, p. 32.
  • 6 - La Magia, a c. di C. Moreschini, Mi 1982, p. 66.
  • 7 - Cit. in E. Garin, op. cit.
  • 8 - Maria Luciana Buseghin, L’ultima Sibilla, Pe 2012, p. 207.