• Filosofia della caccia

  • Filosofia della caccia
  • Un cammeo teorico di
  • Ortega y Gasset
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La “religione” trionfante nella società post-moderna è quella dei “diritti dell’uomo”.  Le grandi narrazioni, si suol dire, hanno fatto il loro tempo e prodotto disastri inenarrabili.  L’uomo è invitato, dalla cultura dominante “politicamente corretta”, a crogiolarsi nel bagnasciuga del moralismo buonista imperante.  Tra i suoi comandamenti vigono la pratica vegana integrale, cui si danno, toto corde, i rampolli dei ceti dominanti.  Essi sono, inoltre, i tedofori dell’ecologismo addomesticato dagli interessi economici, nuovo vangelo “gretino” della post-modernità.  Inutile ricordare come, in conseguenza di ciò, sulla pratica della caccia gravi una scomunica assoluta.  Chi scrive ritiene che la caccia moderna sia un inutile massacro, ma crede altresì che, in altri tempi, la pratica venatoria abbia avuto carattere assai diverso.
  • A confortarci in tal senso è la recente pubblicazione di uno scritto del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, Filosofia della caccia, nelle librerie per i tipi di Oaks, con prefazione di Marco Cimmino (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 100, euro 12,00).  Il pensatore realizzò questo testo come prefazione di un volume del conte Eduardo de Yebes dedicato alla caccia, che uscì a Madrid nel 1943. Tenuto conto che lo scritto aveva acquisito una certa ampiezza ed evidenziava, a tutto tondo, l’originalità della posizione di Ortega, venne editato come pubblicazione a sé, in forma di pamphlet.  Sappia il lettore che il filosofo, in queste pagine, mette in atto, da un lato, un esercizio di divertissment intellettuale, lo si evince dalla leggerezza e fluidità della prosa di alcuni passaggi, mentre dall’altro ha impegnato il proprio ingegno erudito, accademico, nella discussione di un tema che, poco alla volta, lo coinvolse.  La cosa è davvero paradossale, in quanto il pensatore non aveva mai partecipato ad una battuta di caccia.  Cimmino, opportunamente, ricorda che l’esegesi del fenomeno venatorio in Ortega si fonda su una distinzione essenziale: caccia moderna vs caccia tradizionale, praticata in altri secoli. Infatti, per l’autore: «i cacciatori di Altamira e di Lascaux (Paleolitico) sono meno primitivi dell’assassino moderno: anzi, spesso costui non è neppure un cacciatore, sibbene un persecutore» (p. II).
  • La modernità ha fornito gli uomini predatori di armi raffinate, fucili di precisione, carabine leggere e maneggevoli anche in condizioni poco agevoli: abbiamo assistito ad un’evoluzione degli strumenti venatori parallelamente all’involuzione degli istinti e della forza degli uomini. La tecnologia, in questo ambito, ha fatto irruzione per far fronte ai deficit acquisiti dagli uomini moderni, conseguenza dalla vita sedentaria, cui ci ha costretti la società industriale e dei consumi. Tra essi basti ricordare la nostra riduzione della capacità olfattiva, l’aumento dei problemi della vista e la perdita di rapidità del cacciatore. La pratica venatoria, quindi, rappresenta per il filosofo un ritorno alla natura, anzi, egli sembra provare: «un’autentica nostalgia della foresta […] e del misurarsi con la bestia» (p. III), in un confronto, di certo non paritetico, ma comunque leale, ad armi pari, non supportato dagli espedienti tecnici.
    In tale contesto, l’uomo appare all’autore quale re indiscusso del regno animale, suggerisce il prefatore, in una natura in cui: «tutti sono cacciatori e tutti sono cacciati» (p. III).  Un mondo, quello della foresta di Ortega, niente affatto piegato al paradigma democratico, in quanto in esso il superiore, anche per astuzia ed intelligenza, si impone sull’inferiore.  La caccia, quindi, dischiude, per chi la pratichi “all’antica”, un mondo gerarchico fondato su valori aristocratici.  Ben lo sapeva, nel Medioevo, Federico II, mentre si dava alla pratica della cacciagione con il falcone, di cui ci ha lasciato mirabile testimonianza in un trattato esemplare. Più in generale, il filosofo è convinto, e la stessa perspicace visione l’ebbe anche lo storico olandese Huizinga, che l’uomo intrattiene un rapporto fondamentalmente ludico con la realtà e con la vita. Mentre gli altri esseri viventi si limitano a vivere, l’uomo deve: «consegnare deliberatamente e sotto la propria irrinunciabile responsabilità la propria vita […] a determinate occupazioni» (p. 5). La caccia è gioco, tra altri giochi di rilevanza essenziale. Ciò che la contraddistingue, tra altre “pratiche” ludiche, è di essere un’attività impegnativa, nient’affatto passiva, e non solo sotto il profilo fisico.
  • La brevità del vivere impone che l’uomo si attivi in azioni che lo coinvolgano emotivamente, l’arte venatoria è una tra queste: ci pone in contatto con le potenze disparate che costituiscono il cosmo, sia pure in modalità paradossale, in quanto il fine di tale agire è la negazione di una vita palpitante nel quadro complessivo della natura. Lo seppero, con evidenza, nel mondo romano, Scipione Emiliano e Polibio, due figure emblematiche sulle quali Ortega si intrattiene. Il primo pregno di cultura ellenica, ebbe come stratega, durante l’assedio di Numanzia in Spagna, il secondo. L’amicizia tra i due si fece sempre più stretta, passava dalle discussione sui libri che Scipione faceva leggere a Polibio, ma anche dalla comune pratica della caccia. L’Emiliano aveva appreso i rudimenti dell’arte venatoria durante la permanenza in Macedonia. Tornato a Roma, chiosa Polibio: «trovò in me la stessa passione per la caccia, il che fece aumentare la sua» (pp. 21-22).
  • La Filosofia della caccia fu scritto mentre l’Europa era devastata dal Secondo conflitto mondiale e la Spagna aveva mantenuto una posizione di neutralità. La contrapposizione posta in queste pagine dall’autore tra la pratica venatoria “antica” e quella moderna, la prima signorile, rispettosa degli animali, la seconda crudele e da stermino, divine simbolo della diversità radicale che distingueva il mondo della Tradizione, articolato attorno al concetto di limite, e il mondo contemporaneo che non conosce confini e, in ogni ambito, realizza il loro abbattimento, avendo per obiettivo consustanziale la dismisura.  Traslando i contenuti specifici di questo testo alla dimensione etica, le sue pagine hanno il tratto di un appello, quanto mai attuale, alla sobrietà. Tanto più meritoria di attenzione risulta la chiusa della prefazione di Cimmino: «Il lettore si goda, pertanto, questo microscopico diamante: questo eloquente saggio sulla caccia» (p. IV).