• Couchin copertina 1

  • La meccanica della rivoluzione
  • Uno studio di
  • Augustin Cochin
  • di
  • Giovanni Sessa

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  • La rivoluzione francese, comunque la si giudichi, è stata, senza dubbio, uno degli eventi che hanno determinato il definitivo affermarsi del moderno. Eppure, questo straordinario vulnus storico, questo spartiacque della storia europea e del mondo, non può essere pensato, nel suo sviluppo, come un continuum, segnato, dal 1789 al Termidoro, dai medesimi ideali, dalle medesime speranze di redenzione umana. Hannah Arendt richiamò l’attenzione degli studiosi sulla discontinuità politica che caratterizzò quegli anni drammatici e concitati, sia per la Francia che per l’Europa. In molti si sono interrogati attorno alle cause remote e prossime della rivoluzione, composito susseguirsi di crisi istituzionali, politiche ed economiche, fornendo risposte le più disparate.  Tra le esegesi più originali e produttive della Grande rivoluzione va segnalata quella di Augustin Cochin, la cui opera più nota è di recente stata pubblicata in nuova edizione da OAKS editrice, Meccanica della rivoluzione (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 351, euro 25,00). Il volume è impreziosito dalla prefazione di Giovanni Damiano che consente al lettore, non solo di entrare nelle problematiche della storiografia di Cochin e, più in generale, della storiografia inerente la Rivoluzione, ma di attualizzarne i contenuti con riferimento a temi di stringente attualità politica.

 

  • Augustin Cochin, figlio di un ministro d’oltralpe che fu, peraltro, membro insigne dell’Accademie française, si dedicò anima e corpo, per ben quattro anni, negli Archivi nazionali, allo studio della documentazione di prima mano riguardante la produzione teorica degli eterogenei movimenti sociali, che animarono in Francia gli anni successi al 1789. Era intenzionato a scrivere un’organica, Storia generale del Terrore, che non riuscì a completare in quanto nel 1916, durante la Grande Guerra, trovò la morte nella battaglia svoltasi lungo il fiume Somme. Scrisse, comunque, il Discorso preliminare, un’introduzione a questo volume incompiuto che, nel 1924, venne inserita nella prima edizione del testo che presentiamo, per benevola intercessione degli amici dello studioso. Il libro è composito ed articolato, è suddiviso in tre parti e concluso da una Riflessione. In esso l’autore si serve di un metodo d’indagine pluridisciplinare, strutturato certo sulle conoscenze storiografiche, ma attento al problema filosofico, almeno per come esso si manifestò nel movimento illuminista e, soprattutto, sensibile ed aperto alle dinamiche sociali, che si mostrarono nella Francia pre e post rivoluzionaria.
  • Damiano ricorda il particolare interesse nutrito da Carl Schmitt per Cochin: il filosofo tedesco da un’osservazione marginale: «sulla lingua francese […] sul suo ‘nitore’ cartesiano e sul suo essere al contempo ‘bastione’ e ‘prigione’» (p. III), la innalzò : «a simbolo di una condizione ‘destinale’ di una Francia oscillante tra la difesa ottusa della sua tradizione e il suo cedimento a ideologie universalistiche» (p. III). Per questo, come notò Furet, Cochin sarebbe rimasto: «probabilmente il più misconosciuto tra gli storici della rivoluzione» (p. VIII). Cochin ha il merito di aver posto l’accento, al fine di comprendere l’evento rivoluzionario, nonché il definitivo accesso al moderno dell’Europa, sulla sociabilité settecentesca. Come rilevato da Koselleck, a ricordarlo è il prefatore, nel Settecento le pratiche sociali acquisiscono un volto nuovo. In particolare, due formazioni sociali iniziano a svolgere nella Francia pre-rivoluzionaria un ruolo di primo piano: la République des lettres e le logge massoniche. Esse nascono e continuano ad agire nello ‘spazio interno’ in cui l’assolutismo statale aveva relegato i propri sudditi. All’inizio ostentarono: «un atteggiamento apparentemente apolitico» (p. VII), che mascherava una netta contrapposizione alla istituzione statuale assolutista. La morale cui si richiamavano metteva in discussione lo Stato esistente.
  • Peraltro, la fitta rete di rapporti e relazioni tessute dalle logge, nel periodo post rivoluzionario permisero ai giacobini di poter contare su un apparato politico-amministrativo già costituito. Insomma, di poter disporre di una nuova classe dirigente. Proprio affrontando il problema dello sviluppo del giacobinismo, Cochin comprende come in quel frangente storico si stesse realizzando la disgregazione della comunità olista. Gli individui, da allora, furono ridotti ad atomi sociali le cui relazioni potevano essere regolate da un contratto sociale. Lo spirito di imitazione, la passività dei comportamenti, indotti dalla machine socio-politica, avrebbero fatto il resto: «il risultato consisterà […] in una risocializzazione all’insegna di un “meccanismo impersonale […] in cui l’individualità scompare, assorbita dalla corrente”» (p. X). Cochin, la cosa va precisata onde evitare equivoci interpretativi, rifiuta tanto la storiografia sulla rivoluzione che ha concesso grande credito alle circostanze esterne, quanto quella propriamente complottista, tanto di parte reazionaria che rivoluzionaria. Tali esegesi del fatto rivoluzionario invalidano, infatti, il ruolo giocato dalle dinamiche sociali, che stanno a monte del 1789. Eppure, chiosa Damiano, in Cochin è ravvisabile un residuo determinista, in quanto, a suo dire: «la ‘volontà generale’ è libera come la locomotiva sui binari» (p. XVI). Egli attribuisce agli uomini una funzione storico-politica, ma secondaria, poiché la parte più rilevate è svolta dalla «società impersonale».
    La lettura del libro di Cochin consente di definire l’evento rivoluzionario come sospensione delle distinzioni giuridiche, sotto specie di «stato d’eccezione permanente», secondo l’esegesi del filosofo Giorgio Agamben, ricorda Damiano. Non è l’emergenza a determinare l’eccezione, ma la rivoluzione che, da allora, è divenuta il nuovo «sovrano» della modernità. Il 1789 mise in discussione lo jus publicum europaeum post-vestfaliano, e fece riemergere la figura, dal tratto teologico-religioso, del «nemico assoluto», ridotto allo stato di «non-uomo», di criminale da emendare dalla faccia della terra. Così ha avuto inizio l’età delle guerre «universaliste» che, a muovere dall’eccidio vandeano, giunge ai giorni nostri attraversando due guerre mondiali, i contemporanei conflitti balistici per l’esportazione della «libertà» e dei «diritti dell’uomo». L’ubi consistam, la quint’essenza di tale epoca, va colta nella reductio ad Hitlerum, espediente politico (in alcuni casi anche giuridico) con il quale si tende ad escludere, a marginalizzare e/o a recludere, chiunque si opponga alla dittatura del pensiero Unico. Un libro da meditare.