• de unamuno

  • La passione di verità di Miguel de Unamuno
  • Un pensatore della singolarità
  • di 
  • Giacomo Rossi
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  • Al di là dei cliché interpretativi da troppo tempo consolidati, la filosofia del Novecento è stata caratterizzata da una significativa contrapposizione, che vide schierati, su fronti opposti, pensatori dell’impotenza e filosofi della potenza.  I primi, perfettamente inseriti nella linea logocentrica inaugurata, in illo tempore, da Parmenide e tesi ad affermare il primato del concetto, dell’essenza e dell’universale, nei confronti della vita e dell’esistenza che, al contrario, hanno il volto dell’individuale, della nudità e della singolarità.  I secondi, decisamente meno numerosi, si fecero latori di un pensare atto a mostrarsi in una prassi. Gli scritti e il dire di questi ultimi hanno carattere comune, manifestano una lotta a mani nude con la verità. Testimoniano quella passione di verità di cui disse, con pregnanza argomentativa, il filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel. La loro è «comunicazione d’esistenza», che sospinge il lettore ad una reale trasformazione interiore, al cambio di cuore e di sguardo sul mondo.  Tra essi, un ruolo di primo piano, ebbe il basco Miguel de Unamuno. Di questo filosofo è da poco nelle librerie, per i tipi della OAKS editrice, in una nuova edizione italiana, il volume, La tragedia del vivere umano. Il libro è arricchito dalla introduzione di Adriano Tilgher che accompagnava la precedente edizione e dalla nuova prefazione di Giovanni Sessa (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 175, euro 18,00).
  • In realtà, non esiste un’opera del filosofo spagnolo che abbia questo titolo. Esso fu scelto dal traduttore del volume P. Pillepich. Si tratta di una silloge di operette: «filosofiche, la più parte, tra le più vivaci e battagliere […] inedite finora nella traduzione italiana, e tratte dalle opere del pensatore basco» (p. XVII). Una testimonianza di come l’autore cercò nel corso della vita di dare sintesi a ciò che il pensiero moderno aveva diviso: soggetto e oggetto, essenza ed esistenza, vita e pensiero. Da molto tempo di questo autentico filosofo, in Italia si erano perse le tracce: egli è estraneo al clima culturale prevalso nel nostro paese negli ultimi decenni. Usando un’espressione coniata da Cristina Campo, Sessa lo inserisce nella variegata compagnia degli imperdonabili, di coloro che nel nostro tempo vennero ai ferri corti con il senso comune utilitarista e anestetico.
  • De Unamuno condusse una vita avventurosa: fu docente di letteratura greca e Rettore dell’Università di Salamanca, viaggiatore dall’occhio finissimo, atto a cogliere l’ubi consistam esistenziale dei popoli e dei paesi che ebbe la ventura di visitare. Esiliato dal regime di Manuel de Rivera, fuggì in Francia. Rientrato in Spagna, criticò il «Fronte popolare» ma, nell’anno mirabile 1936, nella prolusione inaugurale che dette avvio all’anno accademico a Salamanca, stigmatizzò: «negativamente ogni forma di fanatismo, di ideologizzazione della vita, manifestando la distanza dal regime (franchista) che, presto, si sarebbe insediato in Spagna con il beneplacito della gerarchia ecclesiastica» (p. VII). Fu, naturalmente, rimosso dall’incarico e chiuse i suoi giorni poco dopo, isolato e sconfortato . La sua patria si avviava verso la devastante guerra civile. Esponente di spicco degli intellettuali iberici della «generazione del ‘98», la sua creatività si riversò in una poliedrica produzione, che spazia dalla filosofia alla narrativa, dal teatro alla poesia, per giungere alla critica letteraria.
  • Chiosa Sessa: «Il (suo) pensiero è articolato con lucido rigore ma è, altresì, sostenuto dalla forza della passione del vero, sublimata in un distacco esistenziale che ricorda i trattatisti inglesi o la “dipintura dell’io” di Montaigne» (p. IX). La visione del mondo che sostiene le pagine del volume che stiamo presentando è «religiosa», centrata sull’annuncio di una ri-nascita, un incipit vita nova, ben simbolizzato da Don Chisciotte, con il quale de Unamuno andò viepiù identificandosi. Suggerisce Sessa: «Di contro alla “scienza dell’intelletto” che distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la “scienza del cuore”, che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la viva carne, con l’anima» (p. XIII). Don Chisciotte attraversa il mondo da «puro folle», va all’attacco dei mulini a vento, per mostrare la possibilità di un’altra vita agli uomini che muoiono, al contrario, per eccesso di sensatezza, di intelletto. Don Chisciotte-de Unamuno si assume il compito di chiarire che si vive realmente solo quando si nasce in spirito. Quegli ideali appresi dalla letteratura cavalleresca, che i suoi contemporanei di «buon senso» ritenevano morti da tempo, trovano nelle avventure chisciottesche vita nova, mostrano la loro eterna possibilità. A de Unamuno, come al Cavaliere Errante, il mondo appare bisognoso di liberazione dal fenomenico, dalla staticità: i due tendono a dinamicizzare la realtà che loro appare, come rilevato da Massimo Donà, il luogo della «perfetta confusione» degli opposti.
  • Nell’Introduzione Tilgher rilevò che il pensiero del basco affonda le proprie radici nell’antinomia di ragione e vita: «la prima aspira all’identità, mentre la seconda non è mai uguale a se stessa» (p. XVII). Da tale antinomia non sortisce un vincitore, ma il sentimento tragico del vivere che ogni uomo, come ricordava Pascal, sperimenta nella solitudine angosciosa delle notti agitate. Un filosofare eroico, quello unameano, sostenuto dal tentativo di unire ciò che appare diviso: essere e non essere, io e dio. Egli non propone una soluzione definitiva, la sua religiosità è aporetica, è un porsi in cammino. Il suo cristianesimo è tragico e negativo, perfettamente incarnato, come si evince dal più significativo dei saggi della silloge, da Ibsen e da Kierkegaard: «Brand, protagonista di un dramma ibseniano, non fa che posporre sulla scienza la passione di verità che animò Kierkegaard, quella per “una verità ‘sentita’ e non concepita logicamente […] una verità che è vita”, testimoniata dagli eroi» (p. XXI). I solitari e i forti, banditi dalla società moderna in cui trionfa l’utile, occupano il centro della filosofia del pensatore basco: «L’uomo di passione (è) l’unico vero ribelle» (p. XXI). Sessa rileva che, nonostante tali rilevanti intuizioni, l’opzione cristiana ha, in qualche modo, vincolato de Unamuno alla dimensione del tempo, consustanziale alle visioni escatologiche e alle filosofie della storia.  Ciò, precisa il prefatore, è avvenuto solo in parte, in quanto l’atto unameano non si conclude, è aperto: testimonia un’adesione del filosofo alla spinta anagogica dell’utopia classica, non omologabile al perfettismo proprio dell’utopismo moderno. Infatti, nel saggio, A un giovane letterato, compreso in questa raccolta leggiamo: «Le ho sempre augurato speranze che non si realizzino né si dipartano da lei, speranze senza frutto sempre, speranze in eterna fioritura» (p. XXVIII). De Unamuno, nonostante l’opzione di fede, si pose in cammino verso l’eterna primavera della vita. In essa tutto è in fieri, sotto il segno di Dioniso.