• uomo in vetta

  • Heroes and Villains
  • Un film di Guido Mina di Sospiro
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Ci è capitato più volte di parlare dei libri di Guido Mina di Sospiro, milanese trapiantato dai primi anni Ottanta negli Stati Uniti, paese nel quale ha pubblicato diversi volumi in inglese, tradotti nella nostra lingua ed in altre, perfino in coreano e tailandese. I suoi scritti testimoniano la sua adesione ad una visione tradizionale della vita, alla quale si sentì spinto per impulso naturale, fin dall’adolescenza.  Il rifiuto della contemporaneità materialista e utilitarista emerge, con particolare evidenza, anche da un suo lavoro cinematografico, prodotto tra il 1978 e il 1979, assieme ad un gruppo di amici e coetanei che si autodefinirono «Scuola di Milano».  Ci riferiamo al film, Heroes and Villains, oggi visionabile integralmente a seguente link: https://vimeo.com/366528847.   Si tratta di un Super 8 che, pur non potendo avere tecnicamente le qualità dei 35 mm., presenta, nel sagace uso delle immagini e nella concitazione dell’intreccio, una profonda suggestività. Nel maggio del 1979 il film di Mina di Sospiro fu presentato alla Cineteca Nazionale di Milano ed ottenne un notevole successo di pubblico. Gli spettatori furono coinvolti dalla  proiezione, partecipando attivamente ad essa ed accogliendo con un lungo applauso la scena finale. Il conservatore della Cineteca, Walter Alberti, rimase particolarmente colpito da quella serata, in particolare,  dall’inusuale entusiasmo  del pubblico. 
  • L’Italia e Milano in quel frangente storico, vivevano sulla propria pelle la drammaticità degli «anni di piombo». Chi non si adeguava ai diktat intellettuali e politici della sinistra «katanghese», rischiava grosso. Molti furono feriti, altri persero la vita. Il regista, avendo anzitempo conseguito il diploma di maturità,   dedicò   altre   un   anno   alla realizzazione di Heroes and Villains. Perché  tornare a parlare di questo film  ad oltre quarant’anni dalla sua prima apparizione?
    Innanzitutto perché, ancora oggi, è di stringente attualità. In secondo luogo, perché il film, come molte altre produzioni culturali del periodo, non in linea con le scelte ideologiche dell’industria culturale monopolizzata dal marxismo, subì una vera e propria censura. Il tema che attraversa la pellicola, della durata di poco più di un’ora, è una sorta di rivolta contro il mondo moderno: Mina di Sospiro, non aveva ancora letto Evola, eppure il rifiuto radicale dei «miti» moderni, quali l’esaltazione acritica del progresso, il macchinismo, la ricerca insensata dell’utile e della ricchezza, il dominio della dismisura in ogni ambito, rappresentano le ragioni del contendere, l’humus culturale da cui sorse la pellicola. Chiunque dovesse guardare il film, non pensi di poter rintracciare in esso una trama di tipo convenzionale. Nei titoli di testa, infatti, compare una citazione tratta da Marck Twain: «Coloro che cercheranno di trovare uno scopo in questa narrazione saranno processati; coloro che cercheranno di trovarvi una morale saranno banditi; coloro che cercheranno di trovarvi una trama saranno fucilati».  Forse, una definizione acconcia di questa produzione cinematografica potrebbe essere quella di «registrazione, di trascrizione in immagini» di un impulso, l’impulso antimoderno.  Nella pellicola non compaiono mai i segni tipici della modernità: automobili, telefoni, televisori e apparecchi di qualsiasi tipologia. Probabilmente, l’antimodernismo dell’adolescente Mina di Sospiro era sostenuto dalle letture che, in modo particolare, lo avevano attratto e segnato nel profondo in quegli anni concitati. Tra esse vanno ricordate quelle inerenti i testi di Hölderlin, Novalis e Rilke, accompagnati dai lirici greci e dai mistici persiani.  Ciò rende l’idea di come fosse vasta e controcorrente la «biblioteca» di questo giovane degli anni Settanta: mentre i suoi coetanei leggevano Marx, Mao e Marcuse e di lì a poco, proprio per questo, la loro contestazione sarebbe stata riassorbita dal sistema, Mina di Sospiro dai classici e dagli autori della Romantik, sarebbe transitato, in età matura, al pensiero di Tradizione, che lo avrebbe reso immune al germe moderno. Altro tratto che connota i vari momenti in cui la pellicola si snoda, è l’irriverenza di fondo nei confronti del senso comune, testimoniante quanto fosse viva nel regista l’eredità delle avanguardie​ di inizio secolo e, tra esse, del dadaismo. Lo sberleffo giovanile è il tratto di fondo che accompagna soprattutto le prime scene del  film che, uno spettatore superficiale, potrebbe giungere ad interpretare quale mero esercizio goliardico.  In realtà, come per i dadaisti, l’immagine-sberleffo è denudante, ha lo scopo di liberare lo sguardo, oltre che la mente, dalle sovrastrutture imposte dalla cultura dominante.  Tutto ciò indusse lo stesso Alberti e il vice-direttore della Cineteca Italiana, Gianni Comencini, fratello del regista Luigi, ad essere diffidenti nei confronti di Heroes e Villains, delle cui scene non comprendevano il senso riposto. Ma all’improvviso, l’aggressività iniziale, pare diminuire progressivamente, a partire dal momento in cui, nel giardino di un’antica magione aristocratica, tre giovani attori, vestiti in smoking, sostengono di essersi lasciati alle spalle l’irriverenza dada, a causa della loro conclamata normalità.  Altra scena capitale è certamente quella che ha al proprio centro il tricolore sabaudo, issato su un poggiolo della dimora  nobiliare, sotto una pioggia incalzante: simbolo di valori antitetici a quelli testimoniati dal presente. Di notevole rilevanza sono, inoltre, le descrizioni delle difficoltà nei rapporti con l’altro sesso da parte dei protagonisti, scene centrate, quindi, sull’iniziazione erotica, durante le quali viene smitizzata la Pioggia nel pineto di D’Annunzio, recitata in falsetto da uno dei giovani.  Va registrata, tra le altre cose, la poeticità di  un momento del film, girato sotto un’intensa nevicata, durante la quale uno degli attori abbraccia un albero, citando una frase di Guido Morselli, altro straordinario interprete dell’antimodernismo letterario di quegli anni, tratta da Dissipatio H. G..
    L’epilogo è preparato da altre immagini, che trovano sviluppo sul balcone: qui un attore getta pane alle presunte folle di sotto riunite ed urla: «non ci lasciano morire». Si passa, subito dopo, alla presentazione di un ambiente del tutto particolare, una «fagianaia», capriccio architettonico neo-gotico. L’inquadratura si sofferma su mobili per bambini e sulle reti che sostituiscono le normali finestre. La scena conclusiva vede il primo attore in smoking, in piedi sulle montagne,  al crepuscolo, barcollante.  Lo spettatore intuisce la sua possibile fine, il primo attore è sempre più instabile.  Non è così, si tratta della rappresentazione simbolica del risveglio della forza vitale, del solve et coagula che albeggia al di sotto della scorza rigida che il nichilismo ha tessuto attorno alla personalità nell’epoca presente. Dopo il successo milanese, il film non riuscì ad essere distribuito, ad entrare nel circuito delle sale cinematografiche.  Preso atto della censura, Mina di Sospiro decise di lasciare l’Italia e si trasferì a Washington, dove tuttora vive.  Ci auguriamo che la presenza nel web della pellicola gli renda finalmente ragione del torto subito.​

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