• Linsonnia dello spirito Cioran

  • L’insonnia dello spirito
  • L’epistolario Cioran-Ţuţea
  • (1936-1941)
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La Romania, pur nella sua marginalità storica e geopolitica, nel corso del Novecento ha prodotto una delle culture più stimolanti del panorama europeo, in particolare tra gli anni Venti e Trenta. In quel decennio, giovani studiosi appartenenti alla «Generazione Criterion» o «Generazione del ‘27», operarono per indurre una «rinascita» balcanica o, per dirla con Cioran, una «trasfigurazione» spirituale del popolo romeno. Oltre Cioran, a tale milieu intellettuale, appartennero personaggi che segnarono la storia del pensiero del XX secolo: Eliade, Ionescu, Noica e Petre Ţuţea. Il valore dei primi è ormai acclarato e concordemente riconosciuto, di Ţuţea, personaggio appartato, alieno al confronto con il pubblico giudizio, anche per la drammaticità degli eventi che hanno condizionato la sua vita, finora si sapeva davvero poco. Una recente pubblicazione consente di fare chiarezza sulla straordinarietà della sua figura e permette di definire al meglio la filosofia e la personalità di Cioran. Ci riferiamo al libro di Emil Cioran, L’insonnia dello spirito. Lettere a Petre Ţuţea (1936-1941), uscito per i tipi di Mimesis e curato da Antonio Di Gennaro (pp. 83, euro 6,00).
  • Chi era Petre Ţuţea? Dopo la laurea in giurisprudenza e la specializzazione in diritto amministrativo a Berlino, una volta rientrato in patria fondò la rivista di ispirazione marxista Stânga, uscita tra il 1932 ed il 1933. In quello stesso anno Petre incontrò il maestro di un’intera schiera di giovani intelligenze transilvane, Nae Ionescu. Questi agì al fine di convertire in senso nazionalistico l’afflato rivoluzionario del giovane intellettuale che, ben presto, come altri suoi coetanei, sia avvicinò al guardismo e a Codreanu. In conseguenza di tale cambio di prospettiva, diverrà uno dei firmatari de Il manifesto della rivoluzione nazionale. In esso veniva proclamata la necessità di costruire una Romania unita, capace, finalmente, di porsi al fianco delle altre nazioni europee. Ottenuta una certa notorietà politica, divenne funzionario del Ministero dell’Economia tra il 1940 ed il 1947 ma, con l’avvento dei comunisti al potere, fu vittima dell’epurazione e venne sottoposto a diversi processi: scontò, fino al 1964, tredici anni di prigionia nei «Gulag» romeni. Dopo la scarcerazione fu, comunque, tenuto sotto stretta sorveglianza dalla polizia politica e non poté pubblicare nessuna delle sue opere. Esse videro la luce postume, a seguito dell’insurrezione avvenuta nel dicembre del 1989, che decretò la fine del comunismo in Romania.
  • Il volume di cui ci occupiamo raccoglie nove missive di Cioran e quattro di Ţuţea e, in Appendice, presenta un’intervista televisiva di quest’ultimo, nella quale questi espresse giudizi lusinghieri nei confronti dell’amico. Nelle pagine di questo epistolario il lettore incontra la «storia di un’amicizia» vera e profonda, che fu capace di superare le tragedie di due vite controvento. I due pensatori si conobbero nei caffè, frequentati da giovani intellettualmente irrequieti, di Bucarest: «E’ lì che ho conosciuto Ţuţea […] non era un uomo, era un universo» (p. 8). Successivamente il loro sodalizio si consolidò durante la permanenza a Berlino. Cioran considerava Ţuţea un essere geniale e, in quanto tale, questi non poteva che vivere nella dimensione dell’inespressività, come accade ai falliti: «Tutti i romeni che hanno contato nella mia vita […] erano dei falliti,[…] che si realizzavano nella vita senza elevarsi o abbassarsi a un’opera» (p. 11). L’incompiutezza, quale tratto esistenziale significante, vive, per Cioran, a mo’ di stigma indelebile, nell’animus popolare romeno. Per questo, la straordinarietà di Ţuţea si mostrava immediatamente a chi lo incontrava, nella sua capacità di affabulare l’ascoltatore attraverso la parola creatrice, con la quale, dal nulla, imbastiva un universo ricco di significati e rimandi.
  • L’affetto e la stima furono ricambiati da Ţuţea. Quando i carcerieri gli chiesero, negli anni della detenzione, di attaccare in uno scritto pubblico l’amico, questi rispose: «Preferisco morire in carcere, piuttosto che attaccare un amico sacro e illustre» (p. 65). Queste parole ci pongono di fronte all’idea di amicizia così come fu esperita nel mondo classico: la più nobile delle relazioni umane. Più in generale, il rapporto tra i due, sia sotto il profilo spirituale che intellettuale, è di tipo speculare: l’uno si specchiò nell’altro. Intendiamo dire che, pur avendo sviluppato una visione delle cose divergente, l’uno consentiva all’altro, con le proprie scelte, di comprendere meglio e fino in fondo se stesso. Cioran, infatti, dal 1937 fu in Francia: «dove tutto è già stato». L’atmosfera esistenziale dell’Occidente influenzò, non poco, il suo scetticismo radicale, addirittura mistico, in quanto si convinse che: «a parte la follia e le donne tutto fallisca, persino…l’ideale» (p. 56). Era dimentico, oramai, delle idealità meravigliose, e a volte contraddittorie, che in gioventù, assieme all’amico, lo avevano spinto a battersi con la Guardia per trasfigurare la Romania e, con essa, l’Europa. E’ nell’esilio, soprattutto nel volontario esilio dalla lingua madre, che Cioran scopre, non solo la propria assoluta solitudine, ma anche quella dell’amico: «In un pomeriggio di novembre, etereo e profondo, ho avuto la rivelazione del senso della tua esistenza […] della unicità della tua presenza […] della tua immensa solitudine» (p.40).
  •  Ţuţea, al contrario, durante la carcerazione, maturò una spiritualità mistica, sostanziata dai valori del cristianesimo ortodosso. Si convinse che la verità non può essere concessa dall’esercizio della mera ragione: «Senza Dio, l’uomo rimane un povero animale razionale e parlante, che proviene dal nulla e va verso il nulla» (p. 21). La fede cristiana, la fede nella rivelazione, divenne per Ţuţea il solve e coagula, con il quale riuscì ad accettare da persuaso, da «Socrate della Romania», il triste destino di recluso e di «esule in patria». Al contrario, Cioran individuò nella scepsi l’analgesico più potente nei confronti dell’infelicità: «Mi ci vuole ogni giorno la mia razione di dubbio. Me ne nutro, letteralmente» (p. 22). Per questo il tratto che connotò, più di ogni altro, al di là dell’affetto e della stima, questa amicizia, è la specularità. Furono specchi divergenti l’uno per l’altro. Nonostante la distanza fisica, imposta dalle circostanze, poterono continuare a vedersi e a pensarsi.
  • Entrambi, come ricorda Ţuţea, erano convinti che l’Occidente: «puzza di putrefazione» (p. 68). Il loro stato d’animo può bene essere espresso dai versi del poeta Alexandru Vlahuţă, citati in chiusura di una missiva da Ţuţea: «Questo è tutto ciò che mi rimane: /La nausea dell’oggi /La paura del domani». Una situazione emotiva che ben descrive la condizione esistenziale del presente.

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