• Cop. Anticapitalismo di destra

  • L’anticapitalismo di destra
  • Giorgio Galli e Luca Gallesi a colloquio
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Politologi e sociologi convengono nel constatare che stiamo attraversando un’epoca di transizione, caratterizzata, per di più, dalla mancanza di significativi slanci ideali. Un’età di «acque basse» nella quale, comunque, cominciano a manifestarsi segni di risveglio politico dei popoli nei confronti del nuovo regime della governance, espropriatore, al medesimo tempo, della sovranità popolare e delle identità culturali. Si tratta, per lo più, di reazioni di pancia, che muovono dal basso e dalle quali si evincono i bisogni di fondo delle maggioranze, finora tacitate dal politicamente e dall’intellettualmente corretto. Niente di meglio, in un clima caratterizzato da tale tendenza, che ricorrere a letture chiarificatrici. Ci sentiamo di consigliare, in questo senso, un libro scritto a due mani dal noto politologo Giorgio Galli e dall’anglista Luca Gallesi, da poco edito da OAKS editrice, L’anticapitalismo di destra (per ordini: info@oakseditrice.it, euro 12,00, pp. 88).

 

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  • Il volume è mosso dall’intenzione di descrivere gli aspetti essenziali che connotano di sé l’anticapitalismo di destra, tenendo conto delle sue manifestazioni storico-culturali, che muovono dalla fine dell’Ottocento ed arrivano ai giorni nostri. Tratti condivisi dagli autori afferenti a tale corrente di pensiero, tornata a mostrarsi nei populismi contemporanei, vanno individuati nel pensare la storia come luogo di complotto e la società moderna quale prodotto del dominio del denaro e della finanza. Per Galli, Brooks Adams, esponente di una influente famiglia statunitense che aveva espresso ben due Presidenti, è rappresentante teorico di vaglia dell’anticapitalismo di destra. La sua opera è pervasa dall’idea di decadenza che sarebbe innescata, a suo dire, nelle nazioni, dal loro ingresso nella competizione economica. Adams riteneva, inoltre, che dallo stato di assopimento spirituale i popoli sarebbero stati svegliati solo da: «energia fresca, proveniente dall’infusione di nuovo sangue barbarico» (p. 9).
  • Il capitalismo moderno sarebbe sorto da due fattori fondamentali: la definitiva sottomissione, con la battaglia di Plassey, dell’India da parte degli inglesi, e la rivoluzione tecnologica. L’accumulo di enormi ricchezze fece sorgere sullo scenario europeo un nuovo protagonista: il banchiere che, con la sua azione, mira a condizionare l’economia e, soprattutto, la vita delle moltitudini. L’era dei banchieri ha determinato il controllo monopolistico delle imprese e della società, tendenza che attualmente ha indotto, nel senso comune, l’inscalfibile certezza dell’intransitabilità del presente, il tema della «fine della storia», smentito dai successi degli «impresentabili» di ogni latitudine. Insomma, Adams e Marx descrivono le medesime situazioni storiche ma giungono a conclusioni diverse: «L’accumulazione di energie di parte di razze specifiche (Adams) e non l’estorsione di plusvalore dal lavoro (Marx) sono la radice del capitalismo moderno» (p. 17). Questa mancanza di energia vitale ha creato nella società l’incapacità generativa, sia sotto il profilo biologico, crollo delle nascite, che sotto il profilo artistico, con il venir meno dello slancio poietico (tesi sostenuta anche da Spengler).
  • Sotto la spinta di tali idee negli USA, sul finire del secolo XIX, si formò il People’s Party, che si batté contro il potere invasivo delle Corporation costituendo i comitati di America First. Qualche tempo dopo, in Europa, Spengler descrivendo morfologicamente la storia e i suoi processi di decadenza, rinveniva nelle città e nelle loro plebi un pericolo per la Kultur, da cui tutelarsi attraverso il ritorno dei Cesari. Del resto, nella sua ottica, i magnati della finanza, sotto il profilo spirituale, trovavano perfetta corrispondenza nei capi dei partiti operai. L’anticapitalismo spengleriano auspicava che i nuovi Cesari potessero sconfiggere entrambi, fermando la rivoluzione interna e la rivolta internazionale contro i bianchi, ergendosi, negli anni decisivi, a paldini del valore e della virtù. Galli discute anche di diciannovismo. Di tale fenomeno storico post-bellico sono emblema tanto il sansepolcrismo in Italia, quanto il fermento anticapitalista, ma non marxista, che animò l’opera di Silvio Gesell, ministro, per qualche giorno, della Repubblica Sovietica di Baviera. Questi fu vicino all’antroposofia di Steiner e criticò Marx in quanto: «La pretesa che la proprietà privata dei mezzi di produzione causi il capitalismo è storicamente falsa» (p. 35). Portandosi oltre Proudhon, egli teorizzò il Denaro Libero, vale a dire una moneta non prescrittibile: «a scadenza, che non produce interessi» (p. 35), tenuta sotto controllo dall’Ufficio Valutario Nazionale, che avrebbe dovuto emettere danaro quando il paese ne aveva bisogno e avrebbe dovuto diminuirne la circolazione quando fosse risultato in eccesso.
  • Esponenti dell’anticapitalismo non marxista furono anche R. Alfred Orage, sostenitore di un socialismo aristocratico e spiritualista, che collaborò anche con Gurdjieff, e Clifford Hugh Douglas, il cui milieu era frequentato da teosofi. Egli fu teorico del Credito Sociale, mirato a scardinare il primato del Credito Finanziario in nome di una battaglia antiliberale ed antimarxista. Tesi queste, non dissimili da quelle maturate in Germania negli ambienti della Rivoluzione Conservatrice, anch’essi aperti ad influenze esoteriche. Non si mirava al solo cambiamento socio-politico, in quanto questo presupponeva un cambio di cuore radicale degli uomini. Esito essenziale dell’anticapitalismo rivoluzionario-conservatore, va individuato nella dottrina «universalista» di Spann. Lo studioso riteneva che: «il concetto di ricchezza marxistico è puramente meccanico, atomistico cioè individualistico. Anche la teoria del valore è puramente materiale» (p. 53). Ad essa e al liberalismo va contrapposta l’idea di una partecipazione umana alla vita politica ed economica fondata sulla corporazione, atta a sublimare gli interessi della parti in nome del bene comune.
  • Gallesi, nell’ultima parte del libro, attraversa, con persuasività di accenti, altri autori dell’anticapitalismo di destra. A muovere da Dickens, che stigmatizza sempre negativamente la ricerca dell’utile e spera: «in una fattiva collaborazione delle persone di buona volontà» (p. 74) e da Morris, promotore del Movimento per le Arti e i Mestieri, caratterizzato da tesi antimoderniste e anticonsumiste. Per non parlare, tra gli altri, di Belloc che sulle pagine di The New Age di Orage, pubblicò Lo Stato servile: «una severa condanna […] dello sfruttamento del lavoro popolare» (p. 80). Dalla lettura del libro si evince che la riemersione delle istanze dell’anticapitalismo non marxista è dovuta oggi a due fattori: la crisi del 2007 e la crisi della Ue. Per uscire dall’impasse nella quale viviamo, riflettere sui temi presentati in queste pagine risulta essenziale. Il problema dei prossimi anni sarà quello di capire se i due volti dell’anticapitalismo sapranno produrre una risposta comune alla crisi. Per quanto ci riguarda, riteniamo che la Tradizione non vada mai disgiunta dalla giustizia, anche sociale.

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