• patanjali e lo yoga 166846

  • Eliade e lo Yoga
  • Un volume chiarificatore
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Nella vastissima produzione di ambito storico religioso di Mircea Eliade si distinguono significativi testi di contenuto indologico, tra essi ben quattro sono dedicati alla discussione e alla presentazione del darçana Yoga.  Il primo di questi volumi è la revisione della tesi di dottorato che l’intellettuale romeno discusse nel 1933 a Bucarest.  Il testo successivo, Tecniche dello Yoga, del 1948, animò, a seguito della sua pubblicazione in Italia, uno stimolante dibattito che vide coinvolti Eliade ed Ernesto De Martino.  Lo Yoga. Immortalità e libertà, uscì in Francia nel 1954: senza ombra di dubbio è il lavoro più organico e di maggior spessore prodotto in tema dallo storico transilvano.  Meno noto è il volume, Patañjali e lo Yoga, pubblicato per la prima volta nel 1962, il cui titolo rimanda al mitico estensore degli Yogasutra.  E’ da poco nelle librerie per le edizioni Mediterranee la seconda edizione italiana di quest’opera, con prefazione di Horia Corneliu Cicortaş (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net,  pp.158,  euro 22,50).   Il volume è impreziosito da un’ampia bibliografia.
  • Eliade ha distinto la trattazione in quattro parti: gli aspetti filosofici dello yoga psico-fisiologico, le tecniche yogiche, lo yoga nelle Upaniṣad e nell’originario induismo, lo yoga nel buddhismo e nel tantrismo.   Lo studioso romeno sviluppa l’esegesi di tale  darçana inquadrandolo nella dialettica del sacro, cui iniziò ad interessarsi nel secondo dopoguerra.  La sua esegesi, come opportunamente ricordato da Cicortaş, per certi tratti risente delle posizioni di Dasgupta, un’autorità mondiale nell’ambito della filosofia indiana, che orientò in modo determinate Eliade, durante il suo soggiorno a Calcutta.  Per circa nove mesi, lo studente romeno ebbe l’onore di essere ospitato, cosa inusuale in quel periodo per un occidentale, a casa dello stesso Dasgupta.  Tale debito intellettuale venne a suo tempo riconosciuto anche da Mario Piantelli.  Questi sostenne che l’influsso dello studioso asiatico, lo si evince, nelle pagine del volume che presentiamo, dalla minuziosa presentazione eliadiana della prassi psico-fisiologica delle diverse scuole yogiche.  La novità interpretativa del romeno è ravvisabile nel tentativo: «di allargare lo spettro della sua indagine alle forme “popolari” e “stravaganti” dello yoga, le quali [...] fornivano un materiale nuovo» (p. 11), utile alla comprensione della complessità storico-morfologica di tale sistema, alla luce del metodo storico-religioso, inteso quale ermeneutica ierofanica. Alcuni critici, viene notato dal prefatore, hanno storto il naso in merito all’analisi eliadiana del tantrismo, letto quale blocco unitario, cosa che lo avrebbe indotto a trascurare lo sívaismo del Kashmir (R. Torella). Altri non hanno condiviso l’attribuzione alla civiltà pre-aria delle pratiche yoga. Per la verità, in questo libro, lo studioso ha stemperato le idee relative al collegamento tra il sistema realizzativo e le civiltà di Harappa e Mohenjo Daro, tanto da escludere dal testo il capitolo sulle origini dello yoga, presente nel libro del 1954. Compare, invece, un capitolo dedicato alle relazioni con l’esicasmo, e ciò conferma l’ottica universalista sposata dallo storico.

  • L’autore, nell’introduzione del volume, riporta quanto raccontato alla metà del secolo XIX, dall’orientalista Honigberger, protagonista del racconto eliadiano, Il segreto del dott. Honigbergera proposito dello yogin Haridas. Questi, entrato in catalessi si fece seppellire in un giardino e dopo quaranta giorni, grazie alle tecniche yogiche, fu dissepolto ancora in vita. Eliade rileva come Haridas, avesse praticato una vita dissoluta e quindi mette in guardia gli occidentali dal rischio di confondere l’obiettivo spirituale che si persegue con la pratica dello yoga, il samādhi, l’enstasi, con l’acquisizione dei poteri, siddhi.   Dalla trattazione si evince che lo yoga ha costituito una dimensione pervasiva dell’intera storia spirituale dell’India, essendo stato: « integrato e valorizzato da tutti i movimenti religiosi, tanto induisti che “eretici” » (p. 123).  L’appellativo yogin può indicare sia il vero liberato in vita, che il mago, il fachiro e lo stregone.  La cultura indo-gangetica è da sempre attraversata da una tendenza al concreto: anche nell’ambito metafisico conoscere è fare esperienza,​ realizzare lo stato unitivo con il Principio e la non-dualità.  Il sacro va sempre sperimentato per la tradizione che, impropriamente, per vezzo coloniale, continuiamo a definire Induismo.   Essa nacque dall’incontro, sottolinea Eliade, tra la religione uranica, “del Padre”, propria degli invasori indoeuropei, e la visione ctonia, la “religione della Madre”, praticata dalle popolazioni pre-arie.

  • L’Induismo, così come si presentò dopo l’età medioevale, è sorto, stando allo studioso romeno, dal problematico incontro tra queste due diverse concezioni: «con una marcata prevalenza dei fattori aborigeni [...] L’Induismo significa la vittoria religiosa del paese d’origine» (p. 124).  In ogni caso, lo yoga non può, sic et simpliciter, essere relegato tra le diverse varietà della mistica primitiva asiatica, afferente all’immensa famiglia dello sciamanesimo.  Di ciò Eliade ebbe piena contezza. Nella prassi yogica si manifesta il simbolismo di morte e rinascita: morte, beninteso, alla vita profana, cui fa seguito la “seconda nascita” iniziatica.  Infatti: «Lo yoga si sforza di realizzare la concentrazione assoluta per pervenire all’enstasi» (p. 124).   Lo yogin, attraverso le posizioni, āsana, si impone un’immobilità che ha per modello il regno vegetale, con il prāṇāyāma  ritma e riduce il respiro, con la fissazione su un solo punto,  ekāgratā, pone fine al flusso mentale e di coscienza, mentre, con le opportune tecniche tantriche, determina l’arresto del seme. Se la prospettiva della vita profana è falsificante, bisogna uscirne. Essa è il condizionato, in cui svolgono un ruolo rilevante i “residui” e le “latenze” inconsce (saṃskāra e vāsanā), che è necessario “bruciare”.   L’ideale dello yoga è la realizzazione dello stato de-condizionato, che consente di vivere in un eterno presente, pertanto il liberato in vita gode: «di una coscienza-testimone, che è lucidità e spontaneità pure» (p. 126).  Egli ha, suggerisce Eliade, incorporato il sacro, e per questo conosce libertà ed immortalità.