• Volto Giacomo Leopardi
  • Verità e disincanto nel vivere in società.
  • Su
  • Leopardi e Machiavelli
  • di
  • GIOVANNI DAMIANO
  • Postfazione a “Pensieri” di Giacomo Leopardi
  • Edizioni AR
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  • Machiavelli SGROI
  • Scritte tenendo bene a mente un aforisma di Canetti (“Mi domando se tra coloro che costruiscono la loro comoda, sicura, rettilinea carriera accademica su quella di uno scrittore che è vissuto nella miseria e nella disperazione ce n’è anche solo uno che si vergogna”), queste poche righe si limitano a suggerire una traccia di lettura dei Pensieri leopardiani, senza pose da critico letterario, notoria genìa solitamente votata a vampirizzare il talento altrui.
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  • Comincio da ciò che è risaputo: i centoundici Pensieri vennero dati alle stampe postumi, grazie ad Antonio Ranieri che li inserì nell’edizione delle Opere pubblicata nel 1845 presso Le Monnier di Firenze. Il titolo, appunto Pensieri, l’organizzazione e l’ordine sequenziale dell’opera si devono sempre a Ranieri, che però si servì di materiali approntati dallo stesso Leopardi per un volume di “Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in società” (come annunciato dal recanatese a Luigi De Sinner nella lettera del 2 marzo 1837). La cosa da rimarcare, per entrare direttamente in argomento, è che quando Leopardi, a partire dal 1826, comincia a rielaborare e ordinare lo Zibaldone secondo una serie di rubriche, ne organizza una intitolandola “Machiavellismo di società”. L’anno seguente, compilando l’“Indice del mio Zibaldone di pensieri”, Leopardi elenca, sempre sotto il titolo di “Machiavellismo di società”, settantasei pensieri dei quali ben cinquantasei entreranno a far parte dei centoundici Pensieri. Per di più, a ulteriore prova del legame molto stretto esistente tra i due autori, sono state già da anni individuate precise concordanze tematiche tra alcuni passi del Principe e una decina di Pensieri[1].   Un legame decisamente risalente nel tempo, le cui prime tracce vanno cercate nello Zibaldone, dove, alla data del 5-6 ottobre 1821, accanto a una serie di nomi di pensatori che “hanno veramente mutato faccia alla filosofia” (Cartesio, Galilei, Newton, Locke), si trova il nome di Machiavelli come di colui che “fu il fondatore della politica moderna e profonda”. Si tratta di un giudizio assai lusinghiero e privo di riserve, ben diverso dai rilievi critici mossi al Machiavelli letterato, definito, sempre nello Zibaldone (annotazione del 5 gennaio 1824), uno “scrittore molto poco diligente nella lingua”.

  • Proprio alla luce di questa duratura attenzione che attraversa tutta l’opera leopardiana, si può senz’altro condividere il giudizio di Luigi Blasucci sul fatto che Machiavelli costituisse per il recanatese “un termine globale ed esemplare di riferimento, un vero e proprio idolo mentale, presente in quanto tale alla sua meditazione sull’uomo lungo tutto l’arco del suo svolgimento”[2]   Anzi, scavando nella produzione leopardiana ci si accorge che l’interesse per Machiavelli è in realtà precedente le stesse pagine dello Zibaldone prima citate, in quanto risale a una prosa giovanile d’invenzione, ovvero a quell’abbozzo di racconto intitolato Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello. Compresa tra le “prosette satiriche” di cui Leopardi dava notizia a Pietro Giordani nella lettera del 4 settembre 1820, della novella, rimasta incompiuta e quindi mai data alle stampe, ci restano due versioni, la prima del 1820, la seconda espressamente datata 13 giugno 1822. Il biennio intercorso tra i due abbozzi fa registrare una novità fondamentale, visto che adesso il personaggio impersonificato da Machiavelli, assumendo una rilevanza che prima non aveva, “estende al vivere generale in società il suo discorso sull’arte del governare”[3].   È in nuce il tema dei Pensieri: la ricerca delle leggi sulle quali si regge la società, di un “Codice del saper vivere, una regola vera della condotta da tenersi in società[4]. Dove l’accento e l’attenzione cadono su quel vera, parola topica del disincanto leopardiano, di quella strage delle illusioni su cui ha scritto pagine assai importanti Mario Andrea Rigoni[5]. Non desterà pertanto stupore l’interesse di Leopardi per il teorico della “verità effettuale della cosa” (Principe, XV), né sorprenderà “l’idea leopardiana di un Machiavelli eroe del ‘nudo vero’”[6], al quale guardare per meglio orientarsi nella selva intricata del vivere in società, senza però nulla concedere a uno scontato e banale cinismo o al mediocre ‘realismo’ di chi si dà arie di navigato conoscitore del mondo e degli uomini.    Eppure il machiavellismo di Leopardi, andando oltre la politica per allargarsi alla società, guadagna una nuova prospettiva, più ampia e acuminata. Con buoni argomenti, l’ha sostenuto Blasucci: “la malvagità e l’impostura non sono più riguardate nei Pensieri come i frutti di una degenerazione ‘storica’, ma come dati permanenti della vita sociale, considerati a loro volta come manifestazioni di un male insito nella natura stessa delle cose”[7]. Ciò spiega perché Cesare Galimberti abbia parlato, sempre a proposito dei Pensieri, di machiavellismo “metafisico”[8]. Alle spalle c’è la scoperta, poetica nelle Operette morali, discorsiva in pagine famosissime dello Zibaldone, “del male come costitutivo dell’esistenza, e della natura come responsabile vera delle colpe degli uomini”[9]. Scoperta destinata fatalmente a vanificare ogni tentativo ‘politico’ d’intervenire nella società al fine di mutarla e che dimostra a sufficienza la ‘torsione’, in senso appunto ‘metafisico’, del machiavellismo leopardiano.   Dando adesso una scorsa ai Pensieri, nonostante il loro carattere frammentario e asistematico, è comunque possibile individuare, secondo Ernesto Caserta[10], tre gruppi argomentativi grazie ai quali suddividere l’intera materia del libro. Un primo gruppo comprende i princìpi teorici sui quali si è andata costituendo la società, princìpi che rappresentano quelle premesse generali, quei fondamenti universali destinati ad essere ritrovati in ogni vivere in società. Un secondo gruppo riguarda la denuncia di specifici aspetti culturali, morali e sociali del suo tempo, mentre nel terzo gruppo domina la nota autobiografica, per cui le accuse rivolte al modus vivendi ‘machiavellico’ della società si trasformano in una lotta personale di Leopardi a difesa, contro una maggioranza composta da “ribaldi” e “briganti”, di tutte le vittime di siffatta organizzazione sociale, cioè i “diversi dalla generalità”, i “buoni e i magnanimi” (Pensieri, I).   

  • Il fulminante esordio dell’opera (Pensieri, I) enuncia la prima, fondamentale, legge sociale (“il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene”) e allo stesso tempo mostra tutta la portata dell’insegnamento di Machiavelli, cioè il passaggio dall’aver “lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto” alla consapevolezza che “l’esperienza quasi violentemente me le ha persuase”. Una verità terribile e brutale ma indispensabile per comprendere a fondo i meccanismi sociali e smascherare l’egoismo, la tendenza alla sopraffazione e la “lotta di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno, nella quale, se vogliamo chiamare le cose col loro nome, consiste la vita sociale” (Pensieri, C). Un chiamare le cose col loro nome: in ciò sta appunto la grande lezione di Machiavelli fatta propria da Leopardi.   Rispetto al secondo gruppo di motivi indicato da Caserta, basteranno anche qui pochi cenni. Va a merito di Leopardi l’aver colto, “con acutezza divinatoria”, i “mali propri dell’età contemporanea”[11]: il dominio della “sapienza economica” (Pensieri, III); il potere dei giornali (Pensieri, XLIV, LIX, LXIX); l’utile e il denaro come onnipotenti criteri di giudizio degli uomini (Pensieri, XLIV); l’organizzazione su scala industriale della cultura (Pensieri, XX), e altro ancora.   Di fronte a questo spettacolo opprimente, Leopardi non si rifugia però in una facile misantropia o in un ostentato distacco dall’agitazione degli uomini in società. Piuttosto, partecipe della loro sorte, si china su quelle “creature d’altra specie” (Pensieri, I), su quei pochi - sparuta minoranza deputata immancabilmente alla sconfitta - rimasti “bambini fino alla morte nell’uso del mondo, che non possono apprendere” (Pensieri, LXXIX). Purché non si dimentichi l’avvertimento di Nietzsche: “rimanere tutta la vita un fanciullo – dà un’impressione molto toccante, ma è solo un giudizio da lontano; visto e vissuto da vicino, vuol dire unicamente fare i bambini tutta la vita” (Umano, troppo umano II, af. 244 “L’azzurra lontananza”).
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  • [1] Le riporta, definendole “tutt’altro che scarse o periferiche”, L. Blasucci nel suo “Leopardi e il personaggio ‘Machiavello’”, in Id., I titoli dei “Canti” e altri scritti, Marsilio, Venezia, 2011, pp. 184-186.
  • [2] Ivi, p. 187.
  • [3] Ivi, p. 189. Sul rapporto Senofonte-Machiavelli in Leopardi, si veda il bel capitolo dal titolo “Senofonte, Machiavelli e Leopardi” del recentissimo volume di L. Biasiori, Nello scrittoio di Machiavelli. Il Principe e la Ciropedia di Senofonte, Carocci, Roma, 2017, pp. 111-121.
  • [4] G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze, 1969, vol. I, p. 191.
  • [5] Si veda il suo Il pensiero di Leopardi, Bompiani, Milano, 1997, un testo che fa definitivamente giustizia della fola del Leopardi ‘progressivo’, i cui echi sono arrivati sino a Bruno Biral, pur con dei distinguo, ma più formali che sostanziali (“presento anch’io un Leopardi progressivo”, si legge infatti in B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino, 1987, p. VIII).
  • [6] L. Blasucci, op. cit., p. 194.
  • [7] Ivi, p. 196.
  • [8] C. Galimberti, “Fanciulli e più che uomini”, postfazione a G. Leopardi, Pensieri, Adelphi, Milano, 1982, p. 180.
  • [9] Ivi, p. 179.
  • [10] Si veda E.G. Caserta, “La teoria leopardiana del machiavellismo sociale nei Pensieri”, in Rivista di Studi Italiani, 5, 1988, pp. 33-34.
  • [11] C. Galimberti, op. cit., p. 181.