ghunter platone custode vita
 

Il paradigma biopolitico.
Note su 

"Platone custode della vita"
di
GIOVANNI DAMIANO
 
 
Biopolitica significa biopotere. Che, a sua volta, può essere tanto potere sulla vita quanto potere della vita. Ma solo un discorso edificante e del tutto astratto può scindere queste due forme di biopotere, mettendole una in netta alternativa all’altra. In realtà si dà solo un loro inestricabile, costitutivo, intreccio. L’una si accompagna all’altra. Questo è l’aspetto ‘inquietante’ (perché irresolubile) della biopolitica. Tuttavia, se è impossibile disgiungere le due forme di biopotere in una umana, troppo umana alternativa, è comunque possibile tentare di divaricarne gli esiti; ossia, giungere a ‘soffocare’ la vita in una compiuta tanatopolitica, oppure far trionfare la potenza della vita.
  
 
Opera biopolitica è sicuramente quella di 
H.F.K. Günther, Platone custode della vita (titolo originale Platon als Hüter des Lebens), pubblicata dalle Ar nel 1977 (e poi riedita nel 2007) sul testo della terza edizione tedesca (risalente al 1965). Sin dal titolo l’opera si pone nella direzione di un potere della vita, facendo perno sui grandi dialoghi politici di Platone. La premessa: per Platone “lo Stato era to koinón, ciò che è comune, ciò che riguarda tutti e ciascuno”. Ma, in virtù della ferrea legge dell’ineguaglianza, non ogni abitante del ‘vero Stato’ poteva essere ‘allevato nella paideia’ allo stesso modo, e lo Stato doveva porsi l’obiettivo di allevare e selezionare, anche attraverso scelte eugenetiche (qui appare il potere sulla vita), soprattutto un tipo d’uomo ‘integrale’. “Il pensiero platonico – scrive Günther – circa l’allevamento e l’educazione ci appare come una tensione verso l’ideale di uomo completo, come una lotta per individuare le possibilità di realizzare nello Stato questo ideale fisico e spirituale”, tanto che, conclude Günther, “dopo Platone potrà chiamarsi buono Stato soltanto quello Stato che non si limiti ad essere custode dei confini, delle leggi, dell’istruzione e della prosperità, ma che sia inoltre custode e fautore della vita valorosa”.
 
In breve, Günther auspicava un rafforzamento/incremento della vita, una pienezza della vita, intesa, dunque, integralmente (da qui deriva pure la congiunzione di corpo e anima), ma in senso verticale, ossia anti-egualitario, il cui climax era costituito dai filosofi-re guide dell’ottima polis, esempio supremo di vita ‘valorosa’. L’importanza dell’aspetto somatico, al di là di ogni scissione dualistica, nei dialoghi politici di Platone è confermata anche da Eric Voegelin: “[Platone] progetta una concreta sostanza somatica come base per la comunità spirituale. […] Il perdurante interesse per la base somatica rivela quanto la nozione platonica di personalità spiritualmente formata fosse ancora rinchiusa nel compatto mito della natura. Corpo e psiche […] sono ancora fondamentalmente inseparabili. Un vero ordine dello spirito non può quindi essere realizzato in una comunità a meno che non sia sostenuto da una selezione eugenetica dei corpi adatti”[1].
    
Ora, un inaspettato riconoscimento all’interpretazione proposta da Günther viene da Roberto Esposito che, in relazione “al fortunatissimo Platon als Hüter des Lebens di Hans F.K. Günther”
[2], così commenta: “quando Günther interpreta l’ekloghé platonica in termini di Auslese o di Zucht (da züchten), cioè di ‘selezione’, in realtà non si può parlare di un vero e proprio tradimento del testo, ma piuttosto di una sua forzatura in senso biologistico in qualche modo autorizzata, o almeno consentita, dallo stesso Platone”[3], visto che effettivamente “Platone si dimostra sensibile all’esigenza di conservare puro il ghénos dei guardiani e in genere dei governanti della polis secondo i rigidi costumi spartiati tramandatici da Crizia e Senofonte”[4]. Ancora: accanto all’osservazione cruciale sulla valenza “aristocratica e attitudinale”[5] della ‘selezione’ platonica (fondamentale perché indica il ‘filo rosso’ che collega Platone a Nietzsche), un altro punto dell’analisi di Esposito è degno di nota (e ‘assonante’ con le tesi di Günther): la riflessione platonica “anziché andare in direzione immunitaria – rivolta, cioè, alla conservazione dell’individuo – è chiaramente indirizzata in senso comunitario, e cioè tesa al bene del koinón[6]. Qui siamo allo snodo decisivo: con l’individualismo moderno  è adesso la conservatio vitae dell’individuo in quanto tale a rappresentare il nuovo paradigma biopolitico.
    
Alcuni esempi: Hobbes: “il diritto di natura […] è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita”
[7].  Locke: “ciascuno è tenuto a conservare se stesso”[8]. Mandeville: “nulla è così universale e sincero sulla terra come l’amore che tutte le creature che ne sono capaci portano a se stesse; e poiché non c’è amore che non implichi la cura di conservare la cosa amata, in nessuna creatura nulla è più sincero della volontà, del desiderio e dello sforzo di conservarsi”[9]. Infine Spinoza, che parla dei “principi della razionalità umana i quali mirano alla conservazione e all’effettivo interesse degli uomini”[10].
    
Ma in Hobbes l’autoconservazione, nella condizione di ‘guerra di tutti contro tutti’ che caratterizza lo stato di natura, si rovescia in una ossessiva paura della morte, in una tanatopolitica che solo rigidi meccanismi di controllo e protezione potranno rimuovere. Il potere della vita conduce, per Hobbes, paradossalmente, ad esiti funesti ed autodistruttivi. Da qui la nascita del Leviatano, straordinario esempio di potere sulla vita. In Locke e Mandeville la tendenza all’autoconservazione sfocia nella ‘passione’ acquisitiva/appropriativa 
[11], segnando, così, la nascita dell’individualismo proprietario ed espansivo. Ma l’espansione, una volta lasciata libera, finisce col creare una intensa conflittualità che richiede un controllo sovrano permanente fatto di limitazioni, obblighi, costrizioni. Insomma, la libertà smette di essere ciò che Benveniste descrive con le seguenti parole: “la nozione di ‘libertà’ si costruisce a partire dalla nozione socializzata di ‘crescita’, crescita di una categoria sociale, sviluppo di una comunità”[12]. E ancora: “possiamo capire le origini sociali del pensiero di ‘libero’. Il senso primitivo non è, come si sarebbe tentati di pensare, ‘liberato da qualche cosa’; è quello dell’appartenenza a una razza etnica designata con una metafora di crescita vegetale”[13]. La libertà in origine era, dunque, la crescita vitale dell’intera comunità, della stirpe. Invece, con l’affermarsi dell’individuo proprietario, la libertà finisce per condurre a un impressionante controllo sulla vita[14]. Lo stesso in Spinoza. L’individuo espansivo[15] dà origine ad una strutturale conflittualità, cadendo così in una situazione pesantemente tanatopolitica[16]. L’unica possibile uscita da tale contesto è, ancora una volta, un patto che istituisca un potere sovrano[17] in grado di controllare e disciplinare le libertà degli individui, assicurando, al contempo, sicurezza e protezione.
    
Il punto di svolta è in Nietzsche. Il filosofo tedesco, infatti scardina radicalmente la logica della sovranità, in quanto la lotta tra le volontà di potenza viene lasciata libera di fluire. Il potere della vita è visto senza alcun timore. L’eccesso di salute, la sovrabbondanza di forza, l’aumento della vita, invece di trovare nella figura sovrana un limite insormontabile, si dispiegano in tutta la loro potenza.  Ciò non toglie che anche nel pensiero nietzscheano esista la teorizzazione di un potere sulla vita inteso, eugeneticamente, come drastica eliminazione dei ‘malriusciti’, al fine dello sviluppo imperioso della volontà di potenza (di cui proprio i ‘malriusciti’ risultano essere l’ostacolo maggiore). Questa compresenza di potere sulla/della vita rimanda direttamente a Platone.
    
Di più, si può tranquillamente affermare che al ghénos dei filosofi-re corrisponda la ‘specie’ (Art) degli ‘uomini supremi’
[18]. E all’interno del rovesciamento nietzscheano trova spazio pure una rinnovata filosofia della corporeità, di contro a una tradizione filosofica razionalistica e spiritualistica sino ad allora egemone e anche al di là dell’analogia organicistica tra corpo e Stato[19]. Per cui, scrive Esposito, in Nietzsche “non c’è politica che dei corpi, sui corpi, attraverso i corpi”[20]. Inoltre: “il corpo è in se stesso costituito secondo il principio del politico – la lotta come dimensione ultima, e prima, dell’esistenza”[21], laddove, come si è visto, la sovranità biopolitica moderna cercherebbe di “conservare la vita attraverso l’abolizione del conflitto”[22].
    
Eppure nella ricostruzione di Esposito c’è una ‘zona d’ombra’ evidentissima. Esposito ritiene che il primo filosofo ad aver ‘scoperto’ l’intrinseca valenza biopolitica del pensiero nietzscheano sia stato Foucault
[23], rimuovendo, in tal modo, il ‘nome’ davvero decisivo, quello di Alfred Baeumler. A sostegno della ‘decisività’ di Baeumler, mi limito a riportare alcuni passi tratti dalla sua opera del 1931, Nietzsche filosofo e politico: “Nietzsche ha superato la filosofia della coscienza, reintegrando la filosofia dell’unità del corpo, che, fondamentalmente, è greca”[24], “unità del corpo [che] è la volontà di potenza”[25]. Ragion per cui “la filosofia di Nietzsche non è altro che un unico campo di lode alla realtà del corpo. E’ la filosofia di un istinto autenticamente ellenico”[26]. Infine: “ma che cos’è il corpo? E’ una struttura politica, un’aristocrazia. La volontà di potenza si manifesta non in fantasie e stati d’animo soggettivi, non in brame e piaceri contingenti, ma in quella ‘struttura di sovranità’ che noi chiamiamo corpo”[27]. Baeumler, insomma, aveva già perfettamente compreso il paradigma biopolitico nietzscheano, inserendolo, altra conferma essenziale, in un “mondo come eterno conflitto di forze”[28]. Qui si fa pure esemplare il radicalismo antimoderno di Nietzsche. Dove ‘antimoderno’ non sta per astratto ‘ritorno al passato’ ma è apertura di una prospettiva riguardante il ‘domani del domani’ (quella nietzscheana è infatti filosofia dell’Übermorgen, del giorno ancora a venire in cui far iniziare nuovamente l’origine greca, il dionisiaco).
    
Nell’oggi, la logica sovrana ha ripreso il sopravvento, di contro all’auspicio nietzscheano. La vita è imbrigliata in una fittissima rete di controlli e limitazioni, è minutamente giuridificata e ‘normata’. Accanto a ciò, sussistono vere e proprie pratiche tanatopolitiche (in primis l’aborto). In più, concorrono al depotenziamento della vita le amenità ‘postmoderne’ presentate more solito come ‘ineluttabili’, vagheggianti una sorta di tecnocorpo. Ma esiste, tuttavia, la possibilità di un nuovo potere della vita. Il riferimento è, innanzitutto, alle tecniche di fecondazione artificiale e all’ingegneria genetica che vanno considerate, di là da schieramenti laici o ‘confessionali’, come un’opportunità di ‘crescita della stirpe’ (per riprendere la lettura di Benveniste), come un’occasione per ‘riaccendere’ il libero fluire della biopotenza delle stirpi europee. Da questo punto di vista mi sembra condivisibile lo scritto di Stefano Vaj, La rivoluzione biopolitica, che segna un importante passo in avanti sul tema in questione
[29], sulla scia delle teorie ‘sovraumaniste’ di Giorgio Locchi e delle tesi ‘archeofuturiste’ di Guillaume Faye. Laddove per ‘sovraumanismo’, è bene ribadirlo, non bisogna intendere una filosofia della trascendenza[30] ma una riattualizzazione proprio del messaggio nietzscheano (ovvero, l’umano senza umanesimo).
    
Occorre, insomma, mantenersi nella prospettiva aperta dalla filosofia dell’Übermorgen, del ‘domani del domani’, che è altra cosa dal mero ‘domani’, quest’ultimo essendo solo o il tempo del ‘progressista’, in cui realizzare le promesse ‘emancipative’ dell’oggi, o il tempo dell’individuo post-moderno, ovvero del ‘progressista’ scetticamente disilluso. Ma il ‘domani del domani’ è ben altro. E’ un futuro in cui poter far schiudere un possibile nuovo inizio dell’origine.

Note: 
 

[1] E. Voegelin, Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, il Mulino, Bologna 1986, pp. 180-181.
[2] R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 50.
[3] Ivi, pp. 50-51.
[4] Ivi, p. 51.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] T. Hobbes, Leviatano, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 105.
[8] J. Locke, Trattato sul governo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 7.
[9] B. Mandeville, La favola delle api, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 133.
[10] B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Utet, Torino 1988, p. 645.
[11] Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 61-75.
[12] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, Economia, parentela, società, Einaudi, Torino 1976, p. 249.
[13] Ibid.
[14] Cfr., su questo passaggio decisivo, ancora R. Esposito, Bíos, cit., pp. 71-77.
[15] “Poiché la potenza globale della natura non è altro che la somma delle potenze di tutti gli individui congiunti, ne segue che ogni individuo ha un diritto sovrano su tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza” (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 644).
[16] “In mezzo a inimicizie, odii, collere e frodi non c’è nessuno che non viva in preda all’ansietà” (ivi, p. 646).
[17] Cfr. ivi, pp. 646-647.
[18] Riprendo la resa del termine Übermensch con ‘uomo supremo’ da F. Nietzsche, L’anticristiano. Imprecazione sul cristianesimo, Ar, Padova 2004, p. 17.
[19] Cfr. R. Esposito, Bíos, cit., p. 85.
[20] Ivi, pp. 85-86.
[21] Ivi, p. 86.
[22] Ivi, p. 87.
[23] Cfr. ivi, pp. 79-82.
[24] A. Baeumler, Nietzsche filosofo e politico, Ar, Padova 2003, p. 28.
[25] Ibid.
[26] Ivi, p. 50.
[27] Ivi, p. 51.
[28] Ivi, p. 53.
[29] S. Vaj, La rivoluzione biopolitica. Sfide e opportunità per il terzo millennio, in l’Uomo libero, n° 58, 2004, pp. 37-142. Anche Vaj concorda su un punto decisivo: “qualsiasi misura abbia per effetto un sostegno anche minimo alla demografia europea autoctona è da considerarsi bene accetto” (ivi, p. 42).
[30] O una filosofia dell’immanenza che però si risolve nella pura e semplice dissoluzione dell’umano, come auspicato ad esempio dal duo Hardt-Negri in Impero.