Sovvertire il tempo.
Note su  "L'anticristiano"
di Friedrich Nietzsche
di
Giovanni Damiano


 

Berlino, gennaio 1919: la rivolta dello Spartakusbund viene infranta dall’intervento dei ‘Corpi franchi’. Interrogandosi su quest’evento, e sulla distanza che passa tra rivolta e rivoluzione, Furio Jesi nota: “la rivolta esclude la provvidenza […] così come essa non prepara il domani”[1]. Al contrario della rivoluzione, la rivolta fa saltare ogni ‘successione’ storico-temporale, affondando, al contempo, ogni pretesa ‘necessitante’. Mentre la rivoluzione ‘lavora’ nell’oggi per preparare un domani inevitabile, ed è quindi in fondo attuale, dunque moderna, la rivolta evoca un futuro differente, profondamente inattuale[2], sciolto dai lacci di Ananke. In breve, la rivolta è fuori dal moderno e da qualsivoglia visione necessitata della storia. L’adesso, il qui-e-ora della rivolta svelle la storia dai suoi cardini, sconvolgendone il continuum temporale[3], minandone la linearità unidirezionale. Felice paradosso: quel che sembra essere massimamente ‘attuale’ (la rivolta), mostra tutta la sua inattualità, mentre quel che pare proiettato verso il futuro (la rivoluzione), è già attuale.
 
 
  
E allora: a quale ‘futuro’ guarda la rivolta? La risposta: non al domani ma al ‘dopodomani’. Sulla scorta di Nietzsche, Jesi, infatti, si chiede: “che cos’è l’epifania del ‘dopodomani’ di Nietzsche se non la conferma della essenziale inattualità della rivolta?”
[4]. Il ‘luogo’ temporale della rivolta è il ‘dopodomani’, il che la sottrae all’attualità, a un ‘domani’ che seguirà infallibilmente l’oggi. Ma cos’è questo ‘dopodomani’, questa vertiginosa evocazione di un futuro imprevedibile? Qui occorre abbandonare Jesi, per rivolgersi direttamente a Nietzsche.
    
Dal prologo de L’anticristiano: “questo libro parla ai pochissimi. Forse non è ancora tempo che alcuno di essi sia al mondo. […] Conforme a me è solo il domani del domani: c’è chi nasce postumo”
[5]. L’avviso è chiarissimo e, in uno, enigmatico. Possibile che un testo ‘anticristiano’, scritto non in pieno Medioevo o nel cuore della Controriforma ma nel 1888, sia destinato ai pochissimi o forse addirittura a nessuno? Eppure, poco dopo segue un’ulteriore conferma: tra le condizioni necessarie per comprenderlo, Nietzsche annovera “una nuova consapevolezza per verità rimaste finora senza parole”[6]. Si tratta, con tutta evidenza, di qualcosa d’inaudito, di mai ascoltato prima. Ma, ripeto, può un testo ‘anticristiano’, per quanto feroce, essere davvero considerato tale, cioè inaudito? In ogni caso, Nietzsche non bara. L’ipotetico lettore è avvertito: un’altra condizione per comprendere il pensiero dell’Autore è possedere “la predestinazione al labirinto”[7]. La conclusione: non esistono facili chiavi di lettura. Il senso è cifrato. E nel labirinto ci si può perdere. Ovvero: non scambiate questo libro per quel che sembraessere.
    
Siamo al punto decisivo: L’anticristiano parla ai pochissimi, se non proprio a nessuno, perché la sola prospettiva che gli è conforme è quella dell’Übermorgen, del “domani del domani”. Così è reso il termine che Jesi traduceva con dopodomani. E tale prospettiva è ‘udibile’ solo da uomini nati postumi. Una prima osservazione: qui Nietzsche sembra portare l’inattualità a un punto tanto estremo da superarla radicalmente. Scrive Cacciari: “l’uomo postumo non è sinonimo di inattuale. Nel termine ‘inattuale’ suona ancora, per quanto inconsapevolmente, la possibilità del divenire-attuali. L’uomo inattuale può sempre anticipare il suo tempo. L’uomo postumo no: egli è assolutamente protetto dal rischio della anticipazione, non può essere raggiunto, non può essere ‘compreso’. […] La dimensione dell’uomo postumo inabissa così anche quella, che molte letture nietzscheane intendono invece come estrema, dell’inattuale”
[8]. Il quadro pare complicarsi non poco. Se ‘postumo’ e ‘inattuale’ non coincidono, se l’uomo postumo è sottratto persino a qualsivoglia ‘anticipazione’ del futuro, allora il discorso iniziale cade miseramente. Ma se tutto ciò fosse vero, perché mai Nietzsche avrebbe alluso al ‘domani del domani’? I conti non tornano. A volte nell’apparente radicalità del pensiero si nasconde il rischio concreto dell’inanità. È il caso del passo di Cacciari. Nell’uomo postumo nietzscheano, infatti, vi è sì un’eccedenza che lo preserva da qualsiasi tempo. E però esiste un ‘futuro’ a lui conforme, per quanto mai potrà in esso completamente annullarsi. Questo futuro ha un ‘nome’: è il ‘domani del domani’.
    
Certo, il ‘domani del domani’ rimanda a un futuro non saldamente ‘afferrabile’, sfuggente. Ossia, indica una filosofiaaperta dell’avvenire. L’Übermorgen è un di-là-da-venire, non un nostalgico volgersi indietro. È il nuovo inizio che puòmanifestarsi in un futuro imprevedibile. Ma in cosa consisterà il nuovo inizio? La risposta è nella chiusa de L’anticristiano: “si computa il tempo dal dies nefastus in cui ebbe inizio questa fatalità – dal primo giorno del cristianesimo! Perché non dal suo ultimo, inveceDa oggi? Trasvalutazione di tutti i valori!…”
[9]. L’oggi non prepara il ‘domani’ ma è evocazione di quel giorno lontano e impredittibile in cui la trasvalutazione di tutti i valori conoscerà la sua epifania. Il giorno (mai certo, mai saldamente fondato) della sovversione del tempo ‘attuale’, della frantumazione del ‘moderno’[10].
    
Forse è ora possibile comprendere perché L’anticristiano si rivolge ai pochissimi. Perché non è un mero libello anticristiano, né l’anticristianesimo è la sua ‘ragion d’essere’ più profonda. Non si tratta di un testo che bada ad accumulare macerie, ossia semplicemente distruttivo e negatore. Al contrario. Non l’anticristianesimo, ma la trasvalutazione di tutti i valori è la sua cifra distintiva. Ed è questo annuncio, e non la ‘polemica’ anticristiana, a non trovare eco alcuna, se addirittura nessuno che abbia ‘orecchie’ per ascoltarlo ancora esiste.
    
Ma perché la trasvalutazione di tutti i valori rappresenterebbe un nuovo inizio? Cioè non un inizio a partire da una tabula rasa ma una nuova ‘epifania’ di ‘qualcosa’ che per millenni è stato obliato? Perché la trasvalutazione s’accompagna al nome di Dioniso; dunque, è un nuovo irrompere del dionisiaco. Con le parole di Baeumler: “Dioniso è la formula originaria della volontà di potenza”
[11]. Il discorso sembra ‘tenere’. Ma lo stesso Baeumler provvede a ‘complicarlo’, attraverso il legame da lui posto fra Dioniso e l’eterno ritorno[12]. Legame non ‘indolore’, ché l’eterno ritorno (per Baeumler, fenomeno religioso e non filosofico) finisce, nell’interpretazione che ne dà lo studioso tedesco, per dissolvere proprio la volontà di potenza, irrigidendola in un essere immutabile. Pertanto “delle due l’una: o la dottrina dell’eterno ritorno oppure la dottrina della volontà di potenza”[13]. Qui si svela quell’ambiguo ‘doppio volto’ del dio che rende tanto difficile la valutazione del ‘dionisiaco’ nietzscheano[14].
    
La domanda: è possibile sfuggire al radicale aut- aut di Baeumler? Intanto, un nuovo problema è sorto: come conciliare l’imprevedibilità del nuovo inizio con l’eterno ritorno? Se tutto ritorna, allora il nuovo inizio sarà destinato necessariamente a manifestarsi. In questa visione ciclica il nuovo inizio è già pre-fissato, già predestinato alla sua immancabile venuta. Crolla ogni libertà del e nel divenire. Viene meno la filosofia apertadell’avvenire. Tutto s’inscrive in un’eterna, ineludibile ripetizione. Di conseguenza, non ci può essere in realtà alcun nuovo inizio, ma solo l’eterna reiterazione di ciò che è già stato. Seguendo Baeumler, il Nietzsche ‘eracliteo’ (e ‘dionisiaco-agonale’) della volontà di potenza sembra davvero essere in irriducibile contraddizione con il Nietzsche ‘parmenideo’ (e ‘dionisiaco-musicale’) dell’eterno ritorno. Heidegger indica, però, un’altra strada.
    
Anche Heidegger avverte per intero il pericolo dell’eterno ritorno inteso quale dissoluzione della libertà: “se tutto è necessario, il mondo, il caos della necessità, se tutto ritorna come era già, allora ogni pensare e programmare diventano superflui, anzi addirittura impossibili a priori; allora tutto avviene come avviene; allora tutto è indifferente e il pensiero, anziché essere un peso, ci toglie ogni carico e ogni gravità del decidere e dell’agire”
[15]. Di più: “ciò che ora e in futuro avverrà non è che un ritorno, immutabilmente predeterminato e necessario. Che senso hanno ancora, in questo anello, l’agire e il programmare e il decidere, cioè la ‘libertà’? In questo anello della necessità la libertà è tanto superflua quanto impossibile. Con ciò è però rinnegata altresì l’essenza dell’uomo, anzi, è negata la possibilità della sua essenza”[16].
Come sottrarsi a questa miserevole condizione? Innanzitutto, Heidegger confuta le parole del nano nel Così parlò Zarathustra: l’essenza dell’eterno ritorno non sta nella circolarità, ma piuttosto nell’attimo. Pensare rettamente l’eterno ritorno significa, infatti, comprendere “che l’eternità è nell’attimo” [17], non nel circolo. Ovvero: “ciò che in futuro sarà, è appunto questione di deciderlo”[18]. E tale decisione sta nell’attimo: “che cosa ritorni – se ritorna – lo decid[e] l’attimo”[19]. L’eternità, insomma, “viene decisa nei tuoi attimi e soltanto lì e in base a ciò che tu stesso ritieni dell’ente e a come tu ti tieni in esso – in base a ciò che tu vuoi e puoi volere da te stesso”[20]. Di qui la conclusione: “siamo liberi soltanto diventando liberi, e diventiamo liberi soltanto mediante la nostra volontà”[21]. In tal modo “mentre stando alle prime apparenze la dottrina dell’eterno ritorno introduce in tutto l’ente e nel comportamento umano una smisurata e totale indifferenza, in verità il pensiero dei pensieri porta nell’ente, per ogni attimo, il sommo rigore e vigore della decisione”[22].
    
Per finire: l’eterno ritorno consiste non in un circolo di momenti successivi in sé indifferenziati, ma nell’attimo di una decisione volontaristicamente presa. In ciò ‘dimora’ l’essenza della libertà. Tutto è ‘appeso’ a una libera decisione. Il nuovo inizio come evocazione del ‘dopodomani’ è adesso possibile. Ma solo grazie a una decisione rischiosamente libera. E anche il ‘dopodomani’ resta allora sovranamente libero. Perché, di nuovo e sempre, ‘rimesso in gioco’ soltanto da una possibile nuova libera decisione.

[1] F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 100.
[2] Lapidariamente: “la rivoluzione è attuale, la rivolta inattuale” (ibid.). Insomma, il rivoluzionario è attuale perché la sua ‘inattualità’ presente è già pensata come provvisoria, del tutto passeggera, in vista di un domani non a caso preparato sin dall’oggi.
[3] Qui si misura, a mio avviso, la lontananza di questa interpretazione da quella di Benjamin. Per quest’ultimo il ‘cuneo’ che ‘spacca’ la storia è la rivoluzione, non la rivolta. Eppure, si adatta molto meglio alla rivolta che non alla rivoluzione l’immagine degl’insorti che sparano contro gli orologi delle torri campanarie, impiegata da Benjamin nella sua quindicesima tesi sul concetto di storia. È invece indubbio che proprio nella rivolta delloSpartakusbund si ritrovino insieme, paradossalmente, l’evocazione di “un nuovo inizio e la tradizione” (M. Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 109). In altre parole, la tradizione è salvata nel momento in cui la s’infrange. Questo perché “l’idea del discontinuumè il fondamento della vera tradizione” (W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 79).
[4] F. Jesj, Spartakus, cit., p. 100.
[5] F. Nietzsche, L’anticristiano. Imprecazione sul cristianesimo, Edizioni di Ar, Padova 2004, p. 13.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] M. Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980, pp. 17-18.
[9] F. Nietzsche, L’anticristiano, cit.,  p. 145.
[10] D’altronde, il conio della parola modernus risale proprio a un cristiano (il papa Gelasio I) e da subito s’impose nel suo significato di ‘attuale’ (cfr. W. Freund, Modernus e altre idee di tempo nel Medioevo, Medusa, Milano 2001, pp. 15-16).
[11] A. Baeumler, L’innocenza del divenire. Scritti nietzscheani, Edizioni di Ar, Padova 2003, p. 21. Ancora: “il dionisiaco, come vien intesoveramente da Nietzsche, è intrinsecamente connesso con l’agonale. […] Il Nietzsche filosofo è quello dionisiaco-agonale” (ivi, p. 27).
[12] Si veda il capitolo dal titolo “Dioniso. L’eterno ritorno” in A. Baeumler, Nietzsche filosofo e politico, Edizioni di Ar, Padova 2003, pp. 63-68.
[13] Ivi, p. 64. Principalmente su questo punto s’incentrerà la critica heideggeriana a Baeumler (cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 36-37). Per Heidegger, infatti, “la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale è intimamente connessa con la dottrina della volontà di potenza” (ivi, p. 33; “l’intima unità” delle due dottrine è ribadita a p. 549).
[14] Cfr. A. Baeumler, Nietzsche filosofo e politico, cit., p. 69. Sull’ambivalenza del ‘dionisiaco’ cfr. anche A. Baeumler, L’innocenza del divenire, cit., pp. 26-32.
[15] M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 330.
[16] Ivi, p. 331.
[17] Ivi, p. 264.
[18] Ivi, p. 263.
[19] Ibid.
[20] Ivi, p. 332.
[21] Ivi, p. 334.
[22] Ivi, p. 341. A margine: anche Giorgio Locchi insisteva sul fraintendimento ‘ciclico’ della visione nietzscheana, che finiva con l’occultare la teoria aperta della storia ‘messa in campo’ dal filosofo di Röcken (per queste fondamentali osservazioni, cfr. G. Locchi, WagnerNietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982, specialmente le pp. 50-59).