• Federico Ferrari L anarca

  • Federico Ferrari 
  • L'ANARCA
  • L'Anarca e l'eco della libertà,
  • note esplicite su un testo implicito,
  • di
  • Giovanni Sessa.

Durante la nostra adolescenza qualcuno ci disse che dei molti libri che ci sarebbero passati tra le mani, pochi sarebbero risultati, alla fine dei conti, essenziali per la nostra vita. Oggi sappiamo che i libri davvero importanti son quelli in cui abbiamo incontrato noi stessi, le ragioni più profonde che costituiscono il nostro mondo interiore.

Lo stupore conoscitivo che allora ci induceva a letture notturne lo proviamo ancora: la cosa è accaduta qualche giorno fa, nel leggere un libro del filosofo dell’arte Federico Ferrari, L’anarca. La libertà del singolo tra anarchia e nichilismo, da poco nelle librerie per i tipi di Mimesis editore (per ordini: 02/24861657, euro 6,00).

  • Il volume è sorprendente innanzitutto perché, nel metodo e nello stile, si distingue nettamente dalla saggistica filosofica. Lo si potrebbe sinteticamente definire esempio significativo di testo implicito, privo com’è di rimandi ad esperienze di pensiero pregresse e per l’assenza del consueto apparato erudito delle note. Ferrari precisa comunque che “Ogni scritto racchiude in sé una pluralità di voci. Solo le persone senza cultura possono credere di scrivere in prima persona” (p. 55) e soprattutto rileva che “il pensiero è l’esperienza anonima di una forza che ci attraversa più che appartenerci” (p. 55). Queste dichiarazioni muovono da un’idea di cultura intesa quale “biblioteca di Babele”, la cui eco si propaga da un testo all’altro, e si fondano su una concezione del pensiero radicalmente altra rispetto a quella dominante. Un’idea, almeno per certi tratti, nutrita di reminiscenze post-aristoteliche, in cui torna a mostrarsi il tema dell’intelletto “separato”. La cosa rende il volume inattuale.
  • Il merito maggiore che ascriviamo all’autore va individuato nella conclusione cui perviene. Le pagine di Ferrari sono mosse da un confronto esistenziale, non semplicemente teoretico, da un lato con il monstrum del nichilismo e dall’altro con la Libertà-Nulla, principio-infondato. L’originalità della soluzione è da individuarsi nella comprensione dell’insensatezza dell’idea di superamento della linea del nichilismo, sulla quale si sono arenate le posizioni di grandi del Novecento, Heidegger e Jünger: “Dovevo, semplicemente, scartare di lato. La linea ero io, l’anarca”. (p. 9).  L’anarca, infatti, è colui la cui vita è all’ascolto del ritmo sovrano dell’antiprincipio, dell’hasard, del nulla. Il suo fare è un cor-rispondere al ritmo dell’origine, in quanto egli “Sente il fremito che rende instabile anche le fondamenta più solide” (p. 13). Lo sguardo dell’anarca non recede di fronte al principio meduseo, si immerge senza terrore e senza speranza nel suo abisso, lo accetta, si abbandona heideggerianamente ai suoi metra eternamente ritornanti e, in forza di ciò, nella sua profondità spirituale, si immunizza dal virus nichilista. Il nichilismo è “lo shock che colpisce chi si è reso cieco a questa esperienza, chi ha creduto che qualcosa potesse essere immune dal nulla” (p. 14). L’anarca, in tal senso, è pharmakon per la patologia epocale.
  •  
    La malattia nichilista è il prodotto delle diverse filosofie dell’essere che si sono succedute in Occidente, è risultato della marcia trionfale delle evidenze solari dell’incontrovertibilità identitaria che nel Gestell, nella tecnoscienza, ha trovato il proprio luogo d’elezione. Dai suoi confini sono stati espunti la Notte, l’oscurità, il negativo che balugina nelle metamorfosi della physis, nell’eterno transito delle cose dal nulla (a ciò che pare) essere, e da qui di nuovo all’antiprincipio. L’anarca dice il suo nulla e per questo abita nell’incanto che lo costituisce, senza aspettarsi alcunché. Il suo perdere, il suo mostrarsi per certi tratti “inetto” schopehaueriano-sveviano, gli dà contezza “che in quel nulla può darsi la vera libertà” (p. 16). La sua vita assume le sembianze di un lieve passo di danza assecondante l’effimero volto delle cose, eteree per natura, o mostra la medesima malia del ciliegio in fiore, attraente e aurale nel suo fatuo biancore. Il suo agire è non-agire e non ha luogo consacrato in cui darsi: la wilderness o la megalopoli sono ugualmente permeate dal nulla-principio. Paradossalmente, proprio per questo, vi è “la possibilità di trovare in ogni luogo…un altrove rispetto al mondo in cui il nichilismo domina” (p. 20). L’anarca è ultranichilista, vive nel silenzio, diffida delle troppe parole, esse sono espressione retorica del “Si” sociale. A tale asserto Ferrari è fedele, imprime sulla carta solo ciò che è necessario, rifuggendo dagli orpelli, dall’inessenziale. Sobrietà di pensiero, di parole, di vita. Da ciò consegue l’apolitia del libero, diffidente dell’iperattività in nome della stasi e della solitudine, nella quale sperimentare l’inanità del tempo edipico-cronologico e la pienezza del tempo aionico, simultaneo. L’anarca è esposto ad un tempo che travalica la sua esistenza e la cosmizza, come nelle corde di tutte le filosofie dell’ombra che hanno avuto il loro antecedente in Eraclito.
     
    In questo senso, Ferrari è sintonico con quanto asserito da Jünger, ma ci pare travalicare i confini “umanisti” propri della visione del mondo del tedesco. Egli si fa latore dell’essenziale esigenza di ripensare il nulla senza cadere nella mistica d’Oriente. Tale tematizzazione è stata, infatti, l’aurora dimenticata della filo-sofia europea. Ciò non significa però ridurre, come pur è accaduto, tale tentativo speculativo ed esistenziale (lo ribadiamo) ad un’ontologia del nulla, semmai sarebbe quanto mai necessario tracciare un’iconografia della metamorfosi, ponendosi lungo il sentiero inaugurato da Klages e pochi altri. Rispetto all’hasard, all’antiprincipio, al notturno navalisiano, non vale alcuna dimostrazione: ciò che occorre è l’eccedenza della comprensione immediata. Essa svela che: “La sola cosa che conti è la consapevolezza di essere…la traccia, sulla battigia del tempo, di una fragile ed irripetibile forma destinata a dissolversi” (p. 47), che si ripeterà eternamente quale in-uno delle potestatesdi Dioniso e Apollo.
     
    Il lettore avrà intuito la radicalità e la potenza speculativa delle posizioni di Ferrari. Alla fine del testo egli cita molti autori con i quali ha intrattenuto un rapporto dialogico. Ci ha stupito non trovare tra essi Andrea Emo, maestro del nulla-principio nella filosofia del Novecento, con il quale il dire dell’autore è assonante. Così come stupisce l’assenza di Julius Evola che, nel suo periodo speculativo, sviluppò una radicale filosofia della libertà, e che tra le sue ultime opere annovera Cavalcare la tigre, un’originale confronto con il nichilismo. Probabilmente ad Evola e non solo, l’autore si riferisce quando scrive: “Non v’è nessuna Tradizione, nessun sapere sovrastorico, nessun sapere iniziatico. La sola cosa che c’è è il ritmo sovrano del nulla” (p. 21). Ma, ci permettiamo di obiettare, non è tale ritmo sovrano del ni-ente, nulla di ente, la visione ultima di ogni percorso iniziatico? Come scrive Ferrari: “Lo sguardo dell’animale vede solo l’essere. Solo l’uomo vede il nulla” (p. 52).