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  • "IL QUADRO INVISIBILE"
    di Romano Gasparotti
    CRONOPIO
  • ‘La filosofia dell’arte di Romano Gasparotti’.
     di
  • Giovanni Sessa
2016: centenario della nascita del dadaismo. In Italia questo anniversario non sta suscitando grandi entusiasmi tra i critici e gli organizzatori di eventi culturali. Per quanto ci riguarda segnaliamo il numero speciale dedicato al Dada dalla “Biblioteca di Via Senato” di Milano, diretta da Gianluca Montinaro, numero coordinato dallo storico dell’arte e performer Vitaldo Conte, e un significativo saggio di Romano Gasparotti, docente a Brera e autore del manifesto artistico per il XXI secolo Diastema. Ci riferiamo al volume, Il quadro invisibile, da poco nelle librerie per i tipi di Cronopio editore (per ordini: 081/5518778, cronopio@blu.it, euro 9,00).

Fin dall’incipit del libro si comprende che non bisogna sorprendersi per il fatto che il centenario dada venga celebrato in tono minore dalla cultura ufficiale e dai suoi chierici. Gasparotti, infatti, attribuisce un merito essenziale alle avanguardie, soprattutto a quella dadaista, in grado di spiegare la volontà di sottacere questo anniversario: aver tentato di de-oggettivizzare l’arte, di voler svincolare la dimensione creativa dall’oggetto prodotto, il quale “è solo, alla lettera, l’escremento dell’arte all’opera…essendosi distaccato e separato dal processo vivente dell’opera” (p. 9). Al contrario, ancora oggi la filosofia e la critica d’arte più accreditata anche in ambito accademico, prendono avvio, nel loro approcciarsi alla dimensione poietica, dal feticismo dell’oggetto, dell’ente presuntivamente pensato come “artistico”, ragione prima della  mercificazione dell’arte.
  
In tale errore valutativo cadde, ricorda Gasparotti, perfino Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte. Nelle pagine di questo notissimo saggio, il filosofo presentò l’esegesi di un olio di Van Gogh, muovendo dal punto di vista del referente (le scarpe del contadino), pensando l’oggetto d’arte quale “messa in opera della verità”. Implicato nella stessa distinzione soggetto-oggetto, prodotta dal logocentrismo sul quale è costruita l’intera Kultur occidentale moderna, è anche l’indagine estetica di Arthur C. Danto, cui l’autore dedica pagine stimolanti. Questi si accorse di dover ridefinire la semplicistica concezione di opera d’arte quale oggetto fisico, dopo aver visto esposti alla Stable Gallery di New York i lavori sulle Brillo Boxes (confezioni di spugnette abrasive da cucina) di Warhol. Il suo percorso speculativo lo indusse a pensare l’opera come oggetto fisico dotato di un significato, attribuitogli dallo stile dell’artista e, in quanto tale, capace di dire al fruitore il “che cos’è “ dell’arte stessa. Anche Danto si muove nell’orizzonte cosale della produzione estetica, in quanto rende il creatore, pur non volendolo, un demiurgo platonico che attribuisce significati ad oggetti storicamente condizionati. Quella dantiana è concezione dell’arte in cui il senso comune estetico contemporaneo e, ci si perdoni l’ossimoro, anche quello filosofico, si riconoscono pienamente.  

 Al contrario, le avanguardie artistiche urlarono al mondo, come riconobbe Foucault, che “le immagini sensibili, pur continuando ad apparire come figure, non intendono assomigliare ad alcuna cosa e quindi nemmeno indicare alcun oggetto- presentandosi…come figurazioni di un possibile” (p. 19). Ponendosi lungo la stessa linea, Magritte sostenne che: “Il quadro deve essere invisibile…I quadri che amiamo non mostrano oggetti” (p. 16). Il pittore, chiosa il filosofo veneziano, comprende che la potenza del fare artistico è riposta nell’invisibile, ri-velato dalle figure, dagli oggetti, dalla rappresentazione. E’ sempre più urgente sottrarre l’arte e l’estetica (ma è ancora corretto usare questa definizione?)  al dominio della rappresentazione segnica, sospendendo nelle arti figurative il vincolo della somiglianza legata all’icona visiva, quanto il“…vincolo della significazione legata alla parola” (p.17). Il nostro approccio al mondo deve svincolarsi dal primato dell’Idea che, non casualmente, nell’antica lingua greca, rinviava al “vedere”.
   
Lungo tale percorso Gasporotti rintraccia segnavia utili nelle tesi di Emilio Garroni, il quale osservava che “ciò che è decisivo nell’opera d’arte è il campo del non-osservabile da essa custodito, indotto da ciò che in essa e di essa è osservabile” (p. 43). La siepe nell’Infinito di Leopardi, soglia che apre al dolce naufragio. L’esperienza d’arte pertanto si costituisce come atto unitario nel quale senziente e sentito sono in uno e non sintesi di due distinti, ab initioseparati. E’ solo il “rappresentare” logicamente costruito sull’identità che, nell’esegesi dell’atto, di-vide il soggetto dall’oggetto. In ciò il tratto essenziale dell’esperienza artistica per Gasparotti: essere simbolo, ciò che unisce, “l’azione che accade è un unico attuale processo. L’azione all’opera” (p. 49). In tale esperienza dell’unico atto si danno e l’azione dell’esser visto dell’oggetto, quanto il vedere del soggetto. L’autore ammette di recuperare una Via che il mondo antico ben conobbe. Presente, per certi aspetti, in Aristotele, il cui pensiero in tema tornerà a mostrarsi compiutamente in Averroè, nella dottrina dell’unicità intellettuale. Ma che sarà evidente anche in Hegel e riproposta successivamente, con straordinario vigore speculativo, da Nietzsche.
    
Questi vedrà nell’arte tragica il simbolo di apollineo e dionisiaco in uno, quindi pensiero realizzato in azione da agenti, perfino quando il suo produrre sembra acquietarsi in forme compiute “Ragion per cui l’arte è da ricercarsi prima, attraverso, dopo e oltre i determinati oggetti in cui l’opera è venuta a ricadere” (p. 38). L’opera d’arte, come nel Novecento hanno mostrato i “Buchi” di Shozo Shimamoto o i “Tagli” di Lucio Fontana o la Body Art della Orlan, induce negli uomini il guardare-attraverso, alludendo ad un’indeterminabile ulteriorità che travalica le determinatezze spazio- temporali, rinvia al Fuori e all’Altro, crea le condizioni “per l’epifania del vuoto nel pieno e per l’irruzione dell’infinito nel finito” (p. 654). E’ latrice, in quanto esperienza ninfale e fluida, di un sapere nesciente, per cui Gasparotti giustamente evoca la dotta ignoranza di Cusano e la sua coincidentia oppositorum. Essa è imitazione immaginale, ri-crea, agisce attraverso il potere influente delle immagini e così dissolve, come Klages tra i pochi intuì, “la forma dell’essere persona, in una condizione, nella quale il mondo dei dati di fatto si eclissa, nel riemergere…del mondo delle immagini” (p. 88), la cui effimera vita è eterna metamorfosi, paradigmaticamente messa in scena dalla danza.
  
L’autore, non casualmente fine esegeta della filosofia di Emo e di Evola (quest’ultimo esponente di primo piano del dadaismo italiano), ha contezza che la potenza dell’arte de-oggettivizzata e de-soggettivizzata, è sintonica al sapere ermetico: essa è figurazione della possibilità dell’impossibile. Chi si attardasse a ritenere arte la mera oggettualità mercificata, potrà continuare a consolarsi con le Merde d’artista di Piero Manzoni.