• Il piacere di stare in una solitudine ideativa
  • di
  • Jakob Shalmaneser
  •  
  • (Su: “N-SNOB. Altre evocazioni
  • di Sandro Giovannini, OAKS editrice, 2021,
  • articolo uscito sul sito ALTERVISTA, litterae, il 12 agosto 2021;
  • Riferimento: Facebook: “Sulla scrittura di Jakob Shalmaneser”)
  • Nella lunga intervista che ho ascoltato l’altra notte, verso la conclusione, parlando dei libri in uscita, l’editore accenna all’autobiografia di Sandro Giovannini, ma tale termine non compare né in copertina né in quarta di copertina né nei risvolti né nell’introduzione dello stesso Giovannini.   Il tabù attorno a tale termine, nell’editoria italiana, è antico. Già la biografia è, sul nostro mercato, commercialmente un rischio, all’opposto di quanto avviene in Inghilterra, dove è uno dei generi più redditizî, tanto che là si fanno firmare allettanti contratti a camerieri, portinai e figure irrilevanti che però promettano uno scorcio appetitoso di come viveva una persona famosa: le autobiografie paiono addirittura offendere l’individualismo italiano, suscitare la stizzita reazione di un Chi si crede di essere, per raccontarci la sua vita e pretendere che noi si paghi per leggerla?    Ma dunque Gallesi è stato impreciso, nell’intervista di due mesi fa, a parlare di autobiografia? Non del tutto, se non trascuriamo tuttavia le due più potenti spinte che sfrenano e al contempo frenano il bel talento intellettuale di Giovannini: l’astrazione e la reticenza.
    Quello dell’astrazione è il più vistoso degli orgoglî dell’autore: il lettore si trova di fronte immediatamente una prosa sontuosamente complessa, aggiornata lessicalmente sulle correnti più interessanti del pensiero contemporaneo, asiatica nelle articolazioni innumerevoli delle subordinate e delle precisazioni. Le letture di Giovannini sono buone quando non ottime: basterebbe a renderlo scrittore attraente e benefico il non riscontrare nei suoi saggi alcun cascame evoliano, non un granello di quella polvere concettuale tra il senile, il ginnasiale e l’esoterismo da tre soldi che, più che il filosofo romano, solleva da decennî quel malinconico fenomeno che è l’evolismo.   Siamo dunque entro una scrittura che non concede mai discese a chi ne fruisce e che anzi ne esige un’ininterrotta fatica analitica, necessaria a seguire il complicarsi e il precisarsi dei concetti: ed è una scrittura il cui soggetto è più spesso ciò che non è, ciò che non è stato, piuttosto che ciò che è e ciò che fu. Penso anzi che valga la pena che io spenda qualche parola su questo non essere: non solo perché su di esso torna spessissimo Giovannini, ma perché lo voglio a mia volta lodare per non essere diventato due cose che spesso finiscono per diventare gli uomini che amano adoperare le parole.   Giovannini non è un giornalista. Non c’è il minimo sentore di giornalismo in queste pagine. Non vi è quel tremendo sapore dei discorsi preconfezionati e destinati a un pubblico intuìto se non addirittura predeterminato. Non vi è alcuna astuzia redazionale, alcun luccichio verbale per tirare a sé una mente distratta: basti a dimostrarlo un titolo senza chiave come N—Snob, non disciolto in spiegazione né in prefazione né nei risvolti di copertina. Un titolo che — in tempi culturalmente desertificati quali i nostri, in cui un libro senza via commerciale lubrificata può aspirare, se va bene, a 11 lettori — li farà presumibilmente diventare 7. Un titolo per il quale saremmo amichevolmente tentati di tirargli pietre (intendiamoci: di polistirolo dipinto, come nei film mitologici…)
  • Giovannini non è, grazie agli Dei, neppure un cattedratico. Sa servirsi del linguaggio come un accademico di alta levatura, ma non vi è nella sua sintassi quel desiderio di potere che così marcatamente contraddistingue la prosa dei docenti universitari desiderosi appunto di influire sull’opinione pubblica, di collaborazioni ben remunerate ad un giornale nazionale, di apparire utili e interessanti a venticinquenni dalle belle gambe spuntanti da vestiti un poco corti o largitori di assistentato a venticinquenni un poco timidi ma dai docili lineamenti.
  • Talvolta viene in mente, leggendolo, Severino e il suo perpetuo parafrasare l’unica pagina che basterebbe a esprimere il suo pensiero intorno alla terza persona singolare del verbo essere. Ma attenzione: Severino è spesso ridicolo alla guida del suo bulldozer ontologico, Giovannini mai, col suo inesausto ritornare alla dissoluzione del senso comunitario delle nazioni e al regno dei pessimi entro cui ci è toccato nascere ed entro cui verosimilmente dovremo pure morire.    Questo riallestire costantemente l’immagine del mondo, non con lo stupore eleatico che le cose siano, ma con lo sgomento di noi postmoderni che esse non siano mai decenti, mai belle, mai organizzate secondo un ordine che preveda la riconoscibilità del talento e della virtù del singolo, credo sia in misura non piccola motivata, in Giovannini, da quella reticenza di cui ho parlato, e che ora tenterò di mettere meglio a fuoco. Dei tanti miliardi di uomini passati o tuttora calcanti la Terra, Giovannini ha lasciato carnalità entro le proprie complesse strutture letterarie, a quanto mi risulta, soltanto al padre, il quale non a caso è il midollo e l’ossatura portante de La capitale del tempo, pubblicato nel 2014, originale ed efficace intersecazione di romanzo e saggistica. Alla moglie viene fatta talora allusione lasciandola però, come figura, dietro metri e metri di spessore di muraglie di piombo, quasi ella fosse una verità mostruosamente importante della quale nemmeno un isotopo debba assolutamente giungere alla mente del lettore, pena l’estinzione del lettore e della moglie stessa: al confronto il rispetto trobadorico dell’idolo femminile pare quasi misoginia da osteria.    Tale reticenza a dire le persone effimere e mortali per lasciare quasi sempre lo spazio letterario alle visioni immense o alle periodizzazioni storiche smisurate è, nel nostro scrittore, sia ciò che può irritare il lettore sia il giunto cardanico più fascinoso del suo procedere intellettuale. Un procedere mai arido, perché comunque Giovannini ha un’innata attitudine al rapportarsi umanamente, amichevolmente, calorosamente all’altro da sé, mai adoperando l’orribile trinciapolli del giudizio ideologico, mai spingendo a forza gli altrimenti pensanti entro la Corte d’Assise del moralismo. Se posso permettermi questa piccola esagerazione, leggerlo sembra davvero, a tratti, un piacere che arretri a un tempo pregutenberghiano, come se non si avesse in mano un oggetto tipografico, ma una lettera mandataci da Petrarca, o addirittura un’epistola a noi destinata da Rutilio Namaziano. Ed è anzi probabile che io non stia affatto esagerando, se si pensa all’edonismo tattile e noetico con il quale il Giovannini editore ed amanuense ha riportato in vita il rotolo, la pergamena e tutta una concezione dello scrivere, dell’illustrare, del passare agli altri bellezza e verità totalmente libera dall’ossessione moderna della quantità e della propaganda, e legata invece a quella poca materia amorevolmente lavorata che basta a contenere il pensiero e la fantasia umani.

  • Questa maniera antica e amichevole di pensare, di portare il pensiero in scrittura, di portare tale scrittura ai pochi lettori non sordi al discorso e non ciechi all’orrore sparso per ogni dove nelle nostre società, ha bisogno, per nascere e poi sussistere, di quella solitudine ideativa di cui parla lo stesso Giovannini e che è cosa altrissima dal frastuono delle rotative e dal perpetuo polemizzare per finta della televisione. Vi è però anche qualcosa di molto poco antico, di molto parigino, in questo pesarese lontano da tutti i campanili, in questo ex-carabiniere facondo come il più brillante e mai afono degli intellos : di felicemente attorto attorno alla potenza del linguaggio.   Pochi i vezzi della sua scrittura, e non infastidiscono. Troviamo contrata per corretta da moto oppostocerte protomi per certe pesantezze ornamentali [della retorica ufficiale fascista, n.d.r.];  pleromatica immagine anziché - più perspicuamente - totalmente veracrismato per contraddistintole sue [del populismo, n.d.r.] ragioni eidetiche anziché - più scorrentemente - fondate sulla traduzione intellettuale di quanto veduto; vortex tamasico per torpido, confuso (e tamasico torna altre due volte nel volume). Sono rimasto invece stupefatto di non trovare neppure una volta vincetossico, parola-feticcio dell’alchimia giovanniniana. Un’alchimia lieta della propria lontananza da qualunque oro, da qualunque bassa soddisfazione contrattuale e da qualunque illusione elitaristica.

  • Interessantissimo per me il passaggio in cui l’autore ricorda di avere una volta pubblicato su Letteratura-Tradizione sette versioni diverse di un medesimo brano della Bhagavadgītā a rendere smaccatamente conto di quanto la verità interna a una mente e da quella mente estrinsecata poi in scrittura diventi, nel corso del tempo e nel passaggio ad altre genti, materiale verbale soggetto alle più vistose rotazioni, ai più inverosimili stravolgimenti di senso. È un tema non lontano dalle passioni intellettuali di un Borges, e che riguarda il tradurre, il tradire, il disperdersi dei dati originarî, l’impossibilità di addivenire a un’origine, la buona e la mala fede ermeneutica e tante altre cose: ridiventando per celia un ragazzo entusiasta, oso perfino suggerire a Giovannini di estendere quella breve sfida su rivista in un libretto vero e proprio che racconti la Bhagavadgītā tritata, ricomposta, semiinventata e moltiplicata dai suoi più o meno dotti fruitori occidentali.

  • Su Borges mi soffermo ora brevemente, perché può essermi utile nell’andar concludendo la mia recensione. Lo amiamo entrambi: citandolo, non rischio di far sorridere sdegnato Giovannini mettendogli davanti una testa da poco. Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti in cui vivere, scrive Borges. Lo scrive per qualunquismo? Per cinismo? Paiono poco plausibili, le due interpretazioni: Borges era in senso lato, e per nulla pugnacemente, un conservatore, annoiato tanto dalla banalità di un Neruda come dal populismo di un Perón.   Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti in cui vivere: la frase è di una semplicità che forse ad alcuni acculturati parrà offensiva. La potrebbero formulare, senza alcuna fatica aggetivale, un giocatore di briscola di settant’anni, una puttana senza libreria in casa e un infermiere che in pizzeria risponda alla domanda di un amico, sdrammatizzando. Paragoniamola adesso a un concetto metapolitico di Giovannini: uno sfatto umanismo areligioso se non del tutto sostanzialmente asacrale. La frase è complessa, i due alfa privativi metterebbero in soggezione il lettore abituale della Gazzetta dello Sport (e non crediate snobisticamente che tale lettore non possa amare a sua volta, e molto, la metapolitica e i suoi sfoghi). Giovannini vuole darci, con sofisticato utilizzo delle parole, un panorama di come egli vede l’Occidente presente. Il panorama non è affatto dissimile da quello che i miei occhi discernono, e l’amarezza che ne deriva non avvelena né il pensiero di Giovannini né il mio, limitandosi semmai a dargli uno dei suoi colori principali. Ma perché in Borges non sentiamo questa amarezza, e perché lui non spendeva le sue ore nella produzione di testi di metapolitica?   Borges, d’accordo, giganteggia nella letteratura del Novecento: Giovannini non giganteggia in quella del Terzo Millennio nato da poco, e io vi vivo come una sorta di protozoo a fatica scorgibile, ma la questione esula, io credo, da tale evidentissima scala gerarchica. Giovannini sa che non si possono dare canoni, in tanto sconquasso, e senza battere i pugni contro la parete, senza piegare in giù gli angoli della bocca in una smorfia di perpetua indignazione, con la sua bella sobrietà patisce tuttavia tale non esservi canone, non avendo l’infantilismo evoliano di credersene segretamente, aristocraticamente in possesso: Borges cammina con lo strumento silenzioso dell’erudizione in molti dei canoni nei quali gli uomini hanno trovato temporanea soddisfazione ma non dà credito a nessuna epoca e a nessuna sapienza incarnata, sapendo che epoche e destini carnali sono clamorosamente sconfitti dall’Eternità.   Parlando di sconfitta, oltre che di Borges, ho l’opportunità di non lasciare fuori del mio discorso due delle doti maggiori di Giovannini: l’eleganza e l’onestà intellettuali. Chiunque altro, avendo tutto per sé Borges per qualche giorno, avrebbe acquistato almeno 20 rullini per farsi fotografare da tutte le angolature assieme al Maestro e utilizzare poi per decennî tali immagini sperando di prendere luce nell’opinione altrui da tale vicinanza: Giovannini no, e se ne furono fatte, non ne ho mai vista una (e allora non direi più eleganza, ma grande eleganza).

  • Quanto alla sconfitta, pur confinando culturalmente e per svariate esperienze con la galassia dei messi in ombra, degli osteggiati e dei figli e nipoti dei proscritti, Giovannini non trova disonestamente rifugio nel mito della sconfitta. Ascoltatelo bene, cari i miei irosi sacerdoti del perdere: mai disprezzare la vittoria, ch’è una Dea, che ti certifica del tuo salire. Mai. Non è un’arditissima ascesa filosofica a chissà quale indicibile Verità: è il fisico, umano, istintivo, salubre vettore del desiderio dell’individuo verso l’emersione anziché l’annegamento, verso la potestà di decidere anziché la servitù, verso il sorriso altrui anziché il suo sputo.   Figlio di un uomo che con tersa virilità visse drammaticamente sulla propria pelle il trauma e l’enigma della fedeltà politica, dell’ambiguità del contenuto etico e umano delle autorità e del crollo dei simboli attorno ai quali una società provvisoriamente si costituisce, Giovannini ha vissuto in gioventù, entro momenti storici di minore sterminio ma ben più molli e ignobili, analoghe prove sul crinale sdrucciolevolissimo tra individuo e istituzioni. Le pagine dedicate proprio a questo crinale sono tra le più potenti di N—Snob e basterebbero da sole a renderne feconda la lettura. Mi limito ad una sola estrapolazione: la dimensione militare deve necessariamente fare ricorso fortemente al mondo simbolico, ma il mondo simbolico non è mai del tutto riducibile alla legittimità istituzionale, legale, storica.   Come ben sapeva Gerard de Champeaux, i simboli consentono l’accesso ad àmbiti preclusi al pensiero discorsivo: nella lunghissima catalessi delle democrazie occidentali nella quale viviamo le istituzioni hanno il terrore dei simboli della penultima Europa perché sanno che essi possono, se guardati senza esorcisti nel mezzo, dare l’accesso a idealità e concetti che rivelerebbero, rimessi in luce, la realtà scatologica e verminosa del nostro presente e di quell’ininterrotto discorso pubblico il cui ronzio occupa il mondo accademico e quello della comunicazione di massa affiliata o asservita a tali istituzioni.    Uomo la cui pacatezza argomentativa non è lordata da alcuna hybris, Giovannini persiste nell’accedere ad àmbiti concettuali sgraditi al potere contemporaneo, per fare le opportune comparazioni, per non adeguarsi alla disperazione media dell’odierno cittadino di Cosmopoli. Nella citazione che ho appena fatto, relativa al mondo simbolico, ho eliminato ben tre incisi (due tra parentesi tonde e uno tra trattini). Lo dico per toccare al volo l’unico vero difetto che l’assenza di hybris in lui produce: un pullulare di precisazioni, alternative lessicali, prudenze, tolto il quale il dettato sarebbe assolutamente autosufficiente e nitido. Perché Giovannini non è mai scrittore pugilatorio e apodittico, e dunque non vi sarebbe in verità alcun bisogno di incisi ammiccanti a farsi perdonare uno stile taurino.

  • Se nella bolgia intellettuale della Russia ottocentesca ci si domandava, enfatici, Che fare?, oggi resta all’individuo il proprio singolo fare, senza più porre domande, non essendoci orecchio attaccato ad alcuna testa venerabile dalla quale possa venire risposta. Il gioco della dissoluzione, iniziato qualche secolo fa dai tagliatori di teste imparruccate, ci ha lasciati senza un’architettura sociale nella quale convivere con un minimo di senso con gli altri. Come diceva Panzini, quando si può togliere un mattone, niente vieta di togliere il resto. Tolti i fondamenti mitici di una civiltà, non si è ottenuta però la tanto agognata razionalità, non si è avuta liberazione da quanto di selvatico e furente vi era nei miti sorgivi: sono venuti giù tutti gli altri mattoni della costruzione sociale, e dunque ci tocca vivere in città senza mura, in nazioni senza consistenza, vulnerabili a qualunque abuso perché abitanti un tempo nel quale il Diritto non può poggiare su alcuna pietra - fosse anche una soltanto, e minima, e rotta agli angoli - che abbia il mitico valore della permanenza.

  • Scrittori silenziosi e tenaci come Giovannini non possono condurci fuori di questo tempo o fingere di dirci dove si trovi la fornace con la quale si edificherà, pezzo per pezzo, la Civiltà di non so quale domani: possono però generosamente costringere la nostra mente a tenere viva in se stessa altrettanta capacità d’indagare, di rapportare, di perscrutare, senza abbandonarsi all’inane teatro del contestare gridando.