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  • I Sabei di Harrān e la Scuola di Atene 
  • di 
  • Nuccio D'Anna
  • rec. di
  • Sandro Consolato
  • Nuccio D’Anna, le cui esplorazioni nel mondo della sapienza antica ci hanno offerto già numerosi e interessanti saggi che vanno dalla Grecia arcaica al pitagorismo romano (ma non va dimenticato il suo altro filone di studi, relativo agli aspetti esoterici del Medioevo), sul finire del 2020 ci ha regalato un libro che tratta un argomento molto poco noto anche alla maggioranza del pubblico colto, ma nello stesso tempo di grande fascino: I Sabei di Harrān e la Scuola di Atene (Jouvence, Roma 2020, pp. 212, Euro 20,00). Nel corso della lettura del testo, chiaro e coinvolgente malgrado il suo carattere erudito, alla memoria di chi scrive è ritornato un vecchio servizio giornalistico sulla famiglia libanese dei Jumblatt e sulla misteriosa minoranza etnico-religiosa cui essa appartiene, i Drusi, sparsi tra Israele, Libano e Siria (A. Van Buren, Casa Jumblatt, ne Il Venerdì di Repubblica, a. 1987, n. 29). Qui si diceva come nella religione di questa etnia, avente al suo vertice una élite esoterica, i “libri sacri, inaccessibili ai non iniziati, si concentrano sui grandi maestri del loro esoterismo: Aristotele, Platone, Socrate, Pitagora. I capi religiosi, gli sheikh, si riuniscono in sale spoglie, le khalwat, a riflettere sui testi. In breve, come piace dire ai drusi, è una ‘Grecia umanista’ in piccolo, un’agorà riservata a pochi”.
  • Ora, se si vuole capire da dove sia sorta una realtà simile, che apparirà ai più come una “stranezza” entro il mondo islamico, nel nuovo libro di D’Anna si troveranno proprio le origini remote di questo insospettabile, prolungato “ellenismo” in area medio-orientale, area d’origine di molti illustri neoplatonici e di cui peraltro non andrebbe mai dimenticata tutta la storia ellenistica e romana e quella precedente le conquiste di Alessandro Magno, nonché gli influssi iranici.
  • I due elementi del titolo del saggio, Sabei di Harrān e Scuola di Atene, sono invertiti nell’ordine espositivo. Tutto infatti comincia con l’Editto di Giustiniano del 529, con cui viene vietata la continuazione della Scuola di Atene, baluardo sapienziale del paganesimo ellenico neoplatonico. L’Editto imperiale, peraltro, spiega D’Anna, “era stato preceduto da vessazioni di ampia portata che avevano privato gli ultimi pagani dei propri averi, vietato l’assunzione di cariche pubbliche, impedito la trasmissione dei beni ai loro eredi rimasti fedeli alla tradizione classica e proibito ogni pur minima perpetuazione, anche privata, dei culti pagani” (p. 14). Tali provvedimenti non potevano non confermare in un Damascio e in un Simplicio, ultime guide della Scuola ateniese, il giudizio assai negativo che verso l’ormai dominante religione cristiana si era già manifestato nei loro predecessori Proclo e Marino con “parole e vocaboli costruiti su una struttura espressiva che esalta il ruolo sovvertitore dei cristiani (e dell’intera tradizione cristiana), spesso identificati con entità della mitologia tradizionale personificanti il caos e l’empietà: ‘estranei al nostro mondo’, ‘confusione terribile’, ‘atei’, ‘disordine’, ‘empietà’, ‘ignoranza’, ‘coloro che ribaltano i comandamenti divini’, ‘coloro che [nei rituali] toccano con mano quello che non si deve toccare’, ecc.” (p. 38).
  • Ecco dunque che matura nei neoplatonici di Atene la decisione di abbandonare la città di Platone e di recarsi a Ctesifonte (oggi Iraq), presso la corte del re sassanide Khusraw I Anushirwān (Cosroe I), che gode fama di sovrano giusto e protettore della sapienza. È lo storico bizantino Agathias a dirci che, quasi subito dopo l’Editto giustinianeo, gli ultimi sette neoplatonici (Damascio, Simplicio di Cilicia, Prisciano di Lidia, Eulamio di Frigia, i fenici Ermia e Diogene, Isidoro di Gaza) lasciano Atene alla volta dell’impero persiano, “poiché a tutti loro non piaceva la concezione del divino [c.d. il cristianesimo] trionfante fra i Romani” (Hist. II, 30, 3, cit. a p. 63). D’Anna fa peraltro acutamente notare che il sette va letto anche come un numero simbolico che rimanda ai mitici “Sette Sapienti che all’alba della civiltà olimpica assolsero una importante funzione fondativa e creativa, in se stessa principiale, derivata direttamente dalla tradizione apollinea”, un numero che ritorna entro “una vera e propria ‘metafisica della storia’ intesa a sottolineare la porta epocale della chiusura della Scuola di Atene e la conclusione del ciclo che aveva visto lo splendore del mondo ellenico” (p. 66).
  • I filosofi-teurghi pare abbiano raggiunto Ctesifonte nel 531, ma l’idea di una rinnovata fioritura dell’Accademia sotto la protezione del sovrano sassanide “si rivelò un vano sogno” (p. 69), anche se di questo incontro rimane come testimonianza il libro filosofico, richiesto da Khusraw stesso a Prisciano, Solutiones eorum de quibus dubitavit Chosroe Persarum rex (Risposte ai dubbi di Khusraw, re dei Persiani), ma forse, ancora più significativamente, l’ampia traccia pitagorico-platonica presente nel IV libro del Dēnkard zoroastriano, quasi sicuramente dovuta “allo stesso Damascio” (p. 98). Quando nel 532 fu stilato un trattato di pace fra Persiani e Bizantini, in esso fu compreso il ritorno in territorio “romano” dei neoplatonici emigrati, cui veniva concesso di esercitare almeno privatamente i loro culti. E pare che la clausola del trattato sia stata scritta da Damascio stesso. Si formarono dunque nella Siria bizantina delle comunità sapienziali che, localizzandosi “alla periferia dell’impero”, si sperava “potessero essere adeguatamente tutelate proprio per la loro stessa marginalità geografica” (p. 76). È in questo quadro che si situa la località di Harrān (oggi in Turchia), che non è altro che la Carre dell’infausta disfatta di Crasso nel 53 a.C., e dove si esercitò l’influsso soprattutto di Simplicio.
  • Harrān era una città carovaniera all’estremo confine del deserto siriano e “vantava una solida tradizione culturale radicata in un antichissimo culto astrale, forse precedente la costituzione degli imperi mesopotamici” (p. 104); famoso era il suo tempio del dio Sin-Luna che, “venerato sino alla conquista islamica, era stato edificato dal re babilonese Nabonide nel 554 a.C.” ((p. 104). Sul substrato della tradizione astrale mesopotamica si innestò dunque una forte influenza neoplatonico-teurgica nonché ermetico-alessandrina, venendosi a formare ad Harrān una duratura e “celebre élite sacerdotale sabea, presso cui venivano custodite intatte tradizioni ereditate dal mondo ‘classico’ e risalenti all’epoca pre-islamica” (p. 103). Quello di Sabei è un nome, presente nel Corano, che copre una realtà variegata e complessa, ma che sicuramente va riferita prevalentemente agli Harrāniani, se ci si deve basare sulle testimonianze dello storico arabo al-Masʻūdī (m. 956) e del medico Abī Uṣaybiʿa (XIII secolo). Sul primo dei due D’Anna scrive: “Nella sua testimonianza sulla cultura harrāniana introduce un riferimento importante a quelli che chiama gli hašwiyya, i ‘Sabei volgari’ di basso ceto, discendenti degli antichi caldei, che compivano le loro cerimonie sacre dedicate alle divinità astrali negli edifici eretti in città e, in particolare, in un tempio chiamato Maglitiyā. Ma secondo al-Masʻūdī esisteva pure una élite di ‘saggi’ chiamati Hukamā e considerati dagli harrāniani gli autentici eredi dei Greci, una élite illuminata e sapiente che può essersi formata solamente nell’ambito della tradizione neoplatonica” (p. 105). Non di poco conto è che il dotto arabo indicasse “esplicitamente Porfirio fra i pensatori di cultura ellenica che occupavano un posto d’onore nel sofisticato sistema religioso dei Sabei” (p. 108).
  • Il saggio di D’Anna non è però concentrato sugli aspetti strettamente storici della vicenda che dal paganesimo morente di Atene giunge fino alla fioritura della gnosi sabea harrāniana, che durò qualche secolo (cinquecento anni dopo l’arrivo dei neoplatonici, tra il 1031e il 1032, i musulmani distrussero il tempio sabeo). Il nostro studioso si preoccupa largamente di illustrare ed interpretare le dottrine e le pratiche del tardo neoplatonismo, sottolineando utilmente che si ha a che fare con una tradizione non meramente speculativa, ma di effettiva realizzazione spirituale, iniziatica, in cui affiorano, oltre a operazioni teurgiche, elementi che rimandano ad es. a tecniche respiratorie che possono far istituire parallelismi con gli esercizi yogici indiani. Ma un notevole interesse lo ha anche il quadro che viene disegnato del complesso mondo spirituale dell’area geografica mediorientale nell’età tardo antica e nel primo periodo dell’Islam, ove correnti come quella dei Sabei e quella degli stessi cristiani nestoriani giocarono un ruolo (che D’Anna giustamente ricorda essere stato sottolineato pure da René Guénon) tanto importante quanto enigmatico in dinamiche religiose che interessarono, come è il caso dei Nestoriani, perfino l’Oriente più lontano, mentre lasciarono, e questo è il caso dei Sabei, una eredità segreta tra Ismaeliti, Ishrāqīyūn (i “Platonici di Persia” di cui ha largamente scritto H. Corbin) e Ihwān al-Safā (i Fratelli della Purezza). E tutto ciò ci riporta agli stessi Drusi evocati all’inizio di questa recensione, che chiudo con il non meno interessante riferimento del libro ai Nosayriti, che sono poi gli Alawiti di Siria, oggi noti alle cronache perché a questa corrente sciita appartiene la famiglia Assad.