• Straw dogs

  • Apocalisse minore
  • di
  • Biagio Luparella
  • Accadde una di quelle notti da non poterne più.
  • In fuga dai deliri dell’imperante Demenza, già sfuggito alla ragnatela dei mille insulsi doveri, appena ero uscito dalla gora dei mille accadimenti ronzanti come grasse mosche sui cadaveri dei giorni, appena ero scampato alle lusinghe, agli agguati, alle piacevolezze della confortevole dilagata vuotaggine……..quella notte dunque, sotto casa, - in quella piazza, ignara, quando venne spianata alquanti secoli fa, di dover diventare un giorno ritrovo di tutti i dannati al divertimento obbligatorio, - orde di tatuati, persingati, drogati, invasati, torme di chiapputi vaginanti e mentulanti di tutti e cinque i sessi, con le loro urla di gioia strafatta, e gridolini e risate e musicaccia aggiunta allo strepito di moto, di risse e di variopinte sguaiataggini, (non bastava lo starnazzare dei televisori accesi dai condomini di tutti i piani di quell’enorme termitaio dove, necessità e insuccessi di varia natura, mi avevano costretto ad abitarvi,) quelle orde dunque si erano date convegno appena sotto le mie finestre in un tumulto di richiami di voci di alterchi cui da più tempo si dava il poetico nome di “notti bianche”.

 

  • Dai vetri vedevo l’arrapato affollarsi di ragazzotti e ragazzotte e di giovani non più giovani, che avrei destinato allo sterminio se all’estinzione d’una razza ormai troppo diffusa e radicata in tutti gli angoli del pianeta un qualche dio vi avesse collaborato.  Quella notte dunque, così sfacciatamente inumana, così ostile al mio bisogno di portare a dormire un altro mio giorno obbligatamente messo al mondo al mattino e trascinato per strada a fatica,… ma dunque, cosa fare?, uscire?, attraversare la bolgia urlante di quei dannati col rischio di essere apostrofato sfottuto provocato da qualche puttanella stracotta... e dove andare ad attendere il giorno per attraversare poi una piazza sporca di cocci, vomiti, preservativi, piscio…?  Invocavo una notte di folgori e tuoni, una tempesta di grandine, un attentato da un qualche islamico, furibondo come me contro quelli anche se per ragioni diverse, imprecavo rivolto non so a chi, esagitato a non saper cosa fare… se chiamare una polizia imbelle… oppure tapparsi le orecchie e... dunque, quella notte, rassegnatomi a cenare, le orecchie tappate con inutile ovatta, bevvi, bevvi, bevvi come non avevo mai bevuto, nemico al mondo ed a me stesso, bevvi la mezza bottiglia di lambrusco avanzata dal pranzo, bevvi una bottiglia di barbera del minimarket di sotto, seducentemente raccomandata da una popputa pollastrella della tv, vi aggiunsi alcuni bicchierozzi di non so che scadente brandy, imprecando fra l’uno e l’altro ed inseguendo fantasie da crimini contro l’umanità, almanaccando violenti modi di ricondurre la specie urbana a più sobrie esternazione della sua legittima libido vivendi; bevvi fino alla morchia uno spumante sopravvissuto ad un lontano natale, trascinandomi verso il letto sul quale agognavo di crollarvi… e così accadde.  Crollai.  E, mentre il cervello sfarfallava in fantasmagoriche carnevalate, mi sembrò d’essere rapito in sogno da una voce potente che mi disse, con parole chiaramente scandite e scolpite nella mia memoria da poterle ancora lucidamente riferire:
  • - La Quarta Era, esaurito il suo corso, volge alla fine. Io sono lo Spirito della Necessità sceso dentro di te attraverso il liquido che hai tracannato. Quel che ti detterò in sogno scrivilo in pagine che manderai a tutti quelli che hanno orecchie per intendere. Quel che accadrà te lo racconto come già accaduto, poiché nel futuro è già tutto il passato e nel passato è già tutto il futuro.
  •  
  • Ed ecco, ora, appena sveglio, qui, a quest’ora del mattino inoltrato, ancorché stordito dai postumi della sbornia, questo è il racconto, parola veridica per parola veridica, di quanto quella voce dettò nel sonno alla mia mente ubriaca:
  • “Un bel giorno, un giorno qualunque, di un qualunque mese, qualcuno, in una qualunque strada, in un qualunque bar o alla fermata di un qualunque bus, qualcuno ne parlò, così, distrattamente, come una qualunque oziosa osservazione sul genere: “Eh!, oggi fa proprio caldo.”, “Piove che la manda giù….”, “Ma guarda che traffico stamattina!”, ecc. E difatti, convenivano gli astanti, a pensarci bene, lo si era notato ma senza porvi soverchia attenzione, era da molto tempo che durava, forse da un mese, no, da due, interloquiva un altro, ma da più tempo, da più, assicurava un terzo, insomma, fatto sta che quel vento, a memoria d’uomo non era mai durato tanto a lungo ed ininterrottamente.  In passato vi erano state giornate di vento durate, al più, qualche settimana, ma interrotte da cadute notturne, da rinforzi alternati a calme più o meno brevi, da improvvise raffiche seguite da prolungati silenzi, tali, alla fin fine, da non destare apprensioni che andassero oltre le banali lamentele per i fastidi arrecati dagli umori di capricciose stagioni. Ma un vento, che durava da mesi, così assicuravano chi vi aveva posto maggiore attenzione, e che, inoltre, da un lieve refolo iniziale pareva essersi andato intensificando di giorno in giorno, dapprima inavvertitamente e poi con quella maggior lena della quale ormai tutti si rendevano conto, era un fatto da prendere seriamente in considerazione.  Qualche giornale ne accennò, con cautela, in un parsimonioso corsivo. Qualche altro, nei giorni seguenti, si azzardò orgogliosamente a dedicarvi più di una colonna. Una rivista scientifica delle più autorevoli aveva segnalato, tramite analisi calcoli e confronti statistici, la singolarità del fenomeno.   Intanto, il vento, secondo le osservazioni dei meteorologi mai prima di allora venuti alla ribalta al pari dei cantanti e pubblici imbonitori, era passato, in una settimana da che era iniziato l’evento, dagli 80 ai 170km/ora.   Nessuno, dei tuttologi allora oracolanti, ebbe l’ardire di rischiare la propria notorietà almanaccando sicumere sulla causa d’un fenomeno affatto nuovo, sia per la storia della climatologia, sia per quella delle civiltà, atteso che gli storici non erano a conoscenza di alcun accenno, nemmanco mitologico, ad un evento di tale natura presente nei documenti pervenuti dalla più remota antichità.   L’unica cosa certa, nella generale incertezza sulle cause, era che il vento soffiava da occidente; in qualunque punto del pianeta fossero situate le stazioni di rilevamento, il vento soffiava da occidente, infischiandosi della presenza di aree cicloniche o anticicloniche che potessero convogliare correnti da quello o quell’altro quadrante. Il vento soffiava, in verità bisogna dire tirava, e tirava furiosamente, ovunque, da occidente. E si faceva di giorno in giorno più intenso.  Quel che all’inizio era stato preso da tutti come un fastidioso fenomeno meteorologico, cominciò a dare serie preoccupazioni quando le normali attività umane, e segnatamente quelle economiche, ebbero a subire intoppi i quali, col prosieguo dei giorni e dei mesi minacciarono di trasformarsi in veri e propri ostacoli al loro dispiegamento.  Se ne cominciò a parlare, con seria responsabilità, in sede scientifica allorché si diffuse la notizia che, nelle regioni contigue ai deserti, il vento, in forza della sua violenza, come una gigantesca ramazza stava spazzando il suolo dalla sabbia accumulandola via via in colossali dune che si spostavano incombendo sulle città, dopo aver già seppellito oasi e villaggi da dove gli abitanti fuggivano ad affollarle già affollatissime come erano. Decine di migliaia, destinate a diventare centinaia di migliaia e milioni, erano ormai le persone che migravano verso est, valicando frontiere e creando di conseguenza grossi problemi ai governi, non solo per i risvolti economici sociali e politici che lo spostamento di un così considerevole numero di esseri umani comportavano, ma soprattutto per il fatto che nessuno aveva idea di come porvi rimedio.  Per i capi di stato e di governo si rese necessario quindi convocare l’assemblea della Organizzazione planetaria degli Stati. Ma il nulla di fatto con cui si conclusero i lavori fu pari alla risibilità delle proposte avanzate dai membri iscrittisi a parlare.
  • Taluno aveva avanzato il progetto di innalzare barriere onde contrastare l’avanzata delle dune così come altrove e con successo si era fatto per le maree. Qualcun altro suggerì di scavare gallerie sotto le varie catene montuose in modo che, costringendola a disperdersi nei vari tunnel, la forza del vento ne verrebbe indebolita.  Ma il comprensibile nervosismo svolazzante per la sala era ormai così prossimo a toccare le vette della più incontrollata escandescenza che, dimenticato il rispetto dovuto alla autorevolezza di così alto consesso, i membri si lasciarono andare in modo deplorevole ad ilarità e sberleffi quando un qualcuno qualunque propose l’installazione di giganteschi ventilatori da opporre alla direzione del vento così da convogliare verso l’alto, nello scontro di due opposte forze, un unico flusso del cui effetto avrebbero risentito, al più, le nuvole ove presenti.  Calmatasi la gazzarra dopo i ripetuti richiami del Presidente, il rappresentante della 1^ Potenza dichiarò con sufficiente sicumera l’unica soluzione consistere nel suscitare, mediante lo scoppio di appositi ordigni una sorta di contro-vento così che, come assicuravano eminenti scienziati cui era stato affidato il progetto, opponendosi all’altro con pari forza e conseguentemente azzerandosi, si sarebbe ristabilito l’equilibrio.
  • Ma quando il rappresentate dell’ultima potenza domandò timidamente e sospettosamente in quale luogo del pianeta sarebbero dovuto scoppiare tali ordigni, fu tale il silenzio calato nella sala che il Presidente, percependolo foriero di alterchi suscettibili di passaggi a vie di fatto, la dichiarò preventivamente sciolta aggiornandola sine die, il quale, il sine die, rimase tale per sempre.  I meteorologi, ancorché intimati dalle autorità a non propalare il livello raggiunto dalla forza del vento pena l’imputazione del reato di procurato panico, considerata l’inutilità di tener nascosto quanto ormai era d’una evidenza innegabile, - tra l’altro, nessuna autorità aveva più autorità di intimare alcunché a chicchessia, - informavano quotidianamente le popolazioni sul progressivo aumento dell’intensità del vento.  Si venne così informati che si era passati dagli iniziali 80 km/ora ai 290 dell’ottavo mese; ma nessuno ormai dava più credito a tali informazioni per la semplice ragione, avvertita anche dai più sprovveduti, che non vi erano strumenti in grado di rilevare l’intensità di tale fenomeno poiché, non essendosi mai verificato prima, a nessuno era venuto in mente di costruire un anemometro adeguato. Si trattava dunque di congetture le quali in seguito, scaddero a passatempi praticati da sciocchi perdigiorno quando, che il vento soffiasse a 500, a 800 o a1000 km/ora, non interessava più nessuno, constatato che i disastri erano ormai compiuti.
  • Mai come allora sorsero e proliferarono dibattiti, riunioni, assemblee, concili, incontri al vertice ed alla base, da quelli condominiali e dopolavoristici a quelli indetti da sindacati, partiti, vescovi, intrattenitori, club, e sodalizi vari; mai un tale profluvio di idee ipotesi suggerimenti iniziative rimedi decreti circolari delibere volantini manifesti inondò il pianeta a tutte le latitudini e longitudini.  Ma a scuotere parossisticamente gli animi già di per sé istericizzati dalle crescenti difficoltà di vita, erano le accuse che gruppi di opinione e relativi adepti lanciavano a gruppi e relativi adepti di opinione diversa, quasi che gli scontri verbali, operati all’insegna dell’ira più sfrenata, potessero dare un po’ di sollievo alle comprensibili preoccupazioni di ognuno.  Se tutti, dunque, convenivano nel ritenere che il fenomeno fosse dovuto ad un clima impazzito, nell’individuarne le cause e risalire alle eventuali responsabilità, fu il terreno dove si impegnarono le risse più aspre.  Gli Ambientalisti accusavano i Suscitatori del fuoco atomico di aver alterato con i loro esperimenti l’equilibrio del clima. I suddetti Suscitatori puntavano l’indice contro i Politici che di quel fuoco avevano fatto uno strumento minacemente ricattatorio avverso i Politici dell’altra parte del globo.  I Religiosi rimproveravano i Miscredenti di aver provocato col loro ostinato ateismo l’ira di dio; ma quelli i Religiosi per aver turlupinato le coscienze con superstizioni, invece di inclinarle alla consapevolezza dell’inquinamento dilagante. I club ciclistici ritenevano gli Automobilisti responsabili col loro abuso nell’uso delle macchine dell’avvelenamento dell’aria; gli Automobilisti ce l’avevano coi Petrolieri che impedivano la produzione di macchine ad idrogeno; i Petrolieri con i Governi i quali non finanziavano abbastanza le ricerche di propellenti alternativi. I Vegetariani vedevano nei Consumatori di carne coloro che contribuivano a tenere in piedi gli sterminati allevamenti di bestie il cui sterco faceva aumentare considerevolmente la presenza di gas inquinanti.  Il Femminaio, più uterinamente adirato e linguacciutamente agguerrito, insultava la parte mascolineggiante per non aver saputo antivedere le conseguenze di una condotta di vita la quale doveva esser finalizzata, sì, all’acquisto di salotti pannolini cosmetici macchine pellicce lavatrici amanti gioielli giocattoli scarpe smart e tablet e quant’altro immesso sul mercato, senza però sfruttare tanto le risorse del pianeta da alterare l’equilibrio dell’ecosistema, come quegli irresponsabili avevano fatto. Incapaci insomma di programmare uno “shopping sostenibile”.  Dal canto loro i Mascolinisti imputavano alla loro impudica voglia di figliare a tutti i costi anche contro-natura, la sovrappopolazione del pianeta, causa dell’aumento della produzione e quindi dei consumi e quindi dello sfruttamento della natura e quindi dell’inquinamento e quindi ecc., ecc., ecc...
  • Tuttavia, col trascorrere dei mesi, più che l’ira poterono la stanchezza e l’impotenza, talché, alla fine, tutti tacquero ed ognuno, preoccupato per sé, si chiuse nella propria ipseità.  Intanto la forza del vento aveva raggiunto una intensità da raccapriccio.  Era trascorsa una buona metà di anno.  Se le città contigue ai deserti erano, per metà, state sepolte dalle dune, e l’altra metà si apprestava a subire la stessa sorte, (era affascinante e nel contempo orripilante vedere grazie ai filmati di coraggiosi corrispondenti, montagne di sabbia investire casupole ville palazzi e rovesciarvi sopra cascate di sabbia che lentamente, inesorabilmente li seppellivano mentre la gente, bambini vecchi malati, salvate poche cose, si incamminavano verso est piegati dalla sferza delle raffiche), sulle città dell’estremo nord incombevano montagne di neve sospinte dal vento a coprirle del tutto, che già i sobborghi occidentali erano scomparsi sotto l’immane mole che come un gigantesco fronte compatto di freddo e di sinibbio violentissimo avanzava inarrestabilmente.  Le altre città, gli agglomerati più o meno popolosi, non erano in situazioni migliori. Quelle rivierasche, assalite da ondate gigantesche che si abbattevano sulle strade e le case, soccombevano sotto i crolli e lo strascinamento di auto insegne pali lampioni alla deriva per piazze e viali in un rigurgito di rottami e sfasciume.  Gli abitanti ne erano fuggiti verso le colline a trovarvi illusorio rifugio in anfratti e grotte ove le frane e svellimenti di alberi e massi non ne ostruissero gli accessi imprigionandoli vivi.  Le città adagiate in pianure erano come bombardate da tronchi di alberi divelti e da consistenti sassi che sollevati dalla violenza del vento volavano a sventrare muri di palazzi mentre crollavano viadotti per pilastri spezzati, e frammenti di lamiere e vetrate e manufatti saettavano nell’aria un nugolo di proiettili letali. Gli abitanti di queste avevano trovato scampo nei sotterranei, nei garage, nelle cantine, i più avveduti portando con sé masserizie e provvisorie scorte di viveri.  Dei remoti villaggi, delle case di campagna, delle casupole e delle ville isolate non si avevano più notizie da tempo, e nessun cronista si era avventurato per farne un servizio meritevole di plauso.
  • Le cose si erano messe in tale distretta che con faceva più notizia il fatto che dagli aeroporti nessun apparecchio aveva preso il volo da molti mesi; o che i porti, flagellati da onde impressionanti, si andavano sgretolando e di qualche nave sorpresa dal vento non si era saputo più nulla.  La gente aveva altro a cui pensare, tanto che nessuno dei soliti ciondoloni pubblici si arrischiò ad esternare una sua qualunque solita ideuzza, pena il diventare oggetto di dileggio o di mazzate da parte dei più esagitati.  I governi allora non ebbero più motivo di convocare parlamenti, gabinetti, commissioni o emanare decreti circolari e quant’altro di loro competenza.  Valendo a quel punto il passaparola, - non esplicitamente dichiarato, ma da tutti assunto con rassegnata convinzione, - del “si salvi chi può”, i politici, resisi inoperosi, scesero dai loro magniloquenti scanni nella più assoluta indifferenza dei loro elettori.  A quelli fecero seguito i gazzettieri ai quali, non sapendo più a chi vendere quel fumo chiacchierante di minuziose sciocchezze le quali avevano fatto la delizia dei lettori d’una volta, non restò che impiegare il loro inutile tempo a rileggersi gli articoli delle loro glorie passate mangiucchiandosi, tra l’uno e l’altro, le unghie.  A tutti gli imbecilli cui la politica e la cultura avevano assegnato un sicuro avvenire toccò rinunziare alle sinecure concessegli ed accontentarsi della sola propria imbecillità.  I cantanti non poterono far altro che cantarsi da sé.  Gli scienziati si arresero alla inesplicabilità di quell’inesplicabile che, per vocazione, avevano incalzato da secoli con l’intento di renderlo esplicabile.  I tuttologi dovettero trasformarsi in nientologi.  Gli intrattenitori di varie tv taglie e colori, votati alle folle la cui mente non era mai stata ottenebrata dall’audacia di possedere un qualunque straccio di pensiero, non riuscivano più a intrattenere neanche se stessi.
  • Un poderoso frastuono rotolante nell’aria come un tuono prolungato, un fragore incessante di boati e sconquassi rintronavano talmente il capo che turarsi le orecchie, mettere la testa sotto cataste di cuscini e coperte, rifugiarsi in cantine o locali da sbratto sotterranei, dava ben poco sollievo.
  • Intanto occorreva sostentarsi. Ma, crollati i ponti, ruinate le strade, franate le arterie, impossibilitato il trasporto delle merci con qualunque mezzo che, avventuratosi, era spazzato via come un fuscello, - tir rovesciati, furgoni schiantatisi, camion ribaltati con le ruote oscenamente all’aria, - i mercati si svuotarono.  Il commercio, attività umana che da qualche secolo era l’orgoglio della specie umana da quando oltre agli usuali beni di largo consumo, si era trovato il modo di incrementarlo con la vendita e l’acquisto anche di anime e relative fedi sogni e speranze, cessò del tutto, con la conseguenza che le borse non ebbero più di che borseggiare e le banche di che banchettare.  Mancava di tutto.  Si era alla fame.  E di quei pochi, arrischiatisi fuori per razzie, non si era saputo più nulla, né alcuno pensava ad una loro ricomparsa.  Del resto, non vi era nulla da razziare. I negozi chiusi, i frigoriferi dei privati vuoti, i cassonetti trascinati dal vento chissà dove, le provviste portate nei rifugi prossime all’esaurimento.  Si cominciò a dimagrire.  Un lamentìo si trascinava per le cantine, per i garage, per tutti i ripostigli e bugigattoli dove un umanaio desolato aveva trovato precario scampo da quel cataclisma.  Si lamentava quel pane buttato via perché vecchio di poche ore. Si rimpiangevano i formaggi scaduti, le scatolette dimenticate nei recessi degli scaffali, le mortadelle ammuffite negli anfratti dei frigo, le bevande lasciate sfrizzare, le polpette inrancidite dal tempo scaduto, le frittelle sconfezionate, le bistecche verdi di dimenticanza, i salsicciotti induriti fra l’indifferenza di altri appena acquistati e destinati alla stessa sorte…  Un qualche schermo portatile previdentemente provveduto da un qualche impenitente fedele, trasmetteva ancora accattivanti reliquie di vecchie immagini alle quali erano fisse, sbavanti e nostalgiche, le facce dei pochi fortunati cui il sopravvissuto di una qualche rete si rivolgeva perché da tanta rovina continuasse a brillare l’imperitura fede televisiva.
  • Ah!, quei tempi di onnipresenti musichette e sorrisi, quando folle di entusiasti cretini rincorrevano, garruli e festanti, lo srotolarsi lungo verdi prati dei rotoli di carta nettafeci; quando frugoletti sani e rosei come maialini divoravano merendine e marmellati panini; quando candide vulvette lingevano in estasi gelati glandiformi, e nonni dalle igieniche dentiere addentanti lucidissimi pomi e mammine e papini beati di pomodoreggianti spaghetti mentre i tesorucci si abbeveravano a coloratissime bottiglie fra una filante sottiletta e una fetta vitaminica di una qualunque cosa…  Ah!, quei tempi a colori che conobbero felicità confezionate a scadenza, coiti promessi da profumi e saponi, successi ed invidie esibiti da sorrisi al volante, quando ti liberavano dalla fatica di decidere cosa mangiare, cosa bere, con che digerire, di che cosa far uso per una soddisfacente defecatio…  Ah!, che tempi, quei tempi di brodini sempre pronti, di zuppe variopinte, e formaggi di profilo e di spalla mentre un vassoio di prosciuttesche fette faceva la beatitudine di concordi famiglie, e biscotti e dolciumi fra un pasto e l’altro, occupavano lo stomaco a che mai avesse lamentarsi del vuoto, rigurgitando i carrelli di che nutrire anche i gatti per non dire dei cani.  Eh!, come si mangiava… e quanto, quanto si mangiava…  A  himè!, e quanta fatica, ricordavano i lettori più aggiornati ed i critici seguaci dei dibattiti tv, quanta fatica, quanti studi per invenire gli intrugli più adatti alla moltiplicazione di pani pesci e bestie onde riempire le tante fameliche pance; e quanto sforzo per impacchettare e surgelare e sottovuotare e sigillare e stampigliare usi e scadenze e modi di cottura; e quante menti associate per convertire la razza umana in quella di consumatori democraticamente e responsabilmente educati all’ingordigia.  Si cominciò a dimagrire. Le diete divennero involontariamente obbligatorie.  Ah!, quei tempi di fragrante ottimismo quando, seduti a tavole simpaticamente imbandite si guardavano, bastevolmente imbarazzati ma non tanto da sentirsi privi di appetito, le immagini di bambini divorati da fameliche mosche d’un subito alternate dal frizzar d’una consolante bottiglietta accompagnata da un speranzoso messaggio di pace e di solidarietà affidato alla calda e suadente voce della fichetta di turno.  Ma indimenticabili restavano le lezioni di tanti cuochi provetti, ingegnati a proporre ricette antiche nuove e nuovissime di quanti mai intingoli era capace di dettare all’inventiva umana la mai sazia bramosia della gola.  Si cominciò a dimagrire; a guardarsi l’un l’altro con affamata apprensione. Dimenticati i consigli dei dietologi e dei nutrizionisti, moltissimi di quei derelitti avrebbero venduto l’anima per un topo bollito o una frittura di scarafaggi.  Le ore più terribili erano quelle della notte. Al buio, senza tv, privi di quegli aggeggi palmari che intrigavano le dita e la concentrazione beota degli utenti e che, esaurite le batterie, non entusiasmavano più nessuno, come non rimpiangere l’allegro o irato o allarmato starnazzare delle mille voci le quali, abolito il significato delle parole per universale consenso, ad ogni ora del giorno e della notte dicevano dicevano dicevano, informavano informavano informavano, parlavano parlavano parlavano tutti, tutti infoiati dalla libido loquendi di chi non ha che il nulla da dire?
  • Ed ora? solo quel nulla da non poter condividere con nessuno e col quale trascorrere le lunghissime ore frastornate dall’insoffribile fragore del vento.  Schianti, stridori di lamiere trascinate, sbatacchiamenti, scricchiolii, crolli, scossoni, rovinosi scuotimenti, ed il rodio della fame, i volti macilenti, la certezza del niente, dell’identico uguale niente spalancato l’indomani al sorgere d’un sole soffocato da tempeste di polvere e sconquassi, presero a discentrare la mente di chi si ostinava a sopravvivere in mezzo alla scomparsa di molti. Poiché, difatti, quello accadeva: quella certezza del niente, fattasi disperata, spinse alcuni, i più consapevoli, poi altri sul loro esempio via via più numerosi, ad uscire dai malcerti rifugi, ad esporsi alla vorticosa furia del vento e, ghermiti dal turbinare di frammenti cose polvere, ad esserne involati e scomparire.
  • Nessuno, dopo, fu in grado di calcolare per quanto tempo fosse durata quella furia.  Dopo una notte, che il vento tirò con tale violenza da sembrare poter spingere lo stesso pianeta fuori dalla sua orbita e involarlo negli abissi del cosmo, il vento crollò di colpo. Cessò. Cadde come cade un pesante macigno.  Il silenzio improvviso fu come la fine di un crollo, lo spegnersi fulmineo d’un frastuono prolungato da far vacillare la mente e barcollar le gambe.  Come bestiole affacciatesi dalle tane, guardinghe se agguato incombe, ad uno ad uno sbucarono dai rifugi i pochi, scrutando l’aria e guardandosi attorno.  Smagriti, coperti di stracci, si aggiravano straniti, attenti a dove mettevano i piedi, in un mondo irriconoscibile.  Attorno a loro, che nulla sapevano né mai avrebbero saputo di montagne spostate e accozzate una addosso all’altra in un coacervo di spuntoni e vette e fianchi dirupati, né dei mari in gran parte prosciugati e diventati abissi sui cigli dei quali pendevano a strapiombo le rive d’una volta, attorno a loro si stendeva a perdita d’occhio l’immensa strage degli alberi spezzati, dalla quale spuntava qua e là nella ramaglia il groviglio di strade divelte e attorcigliate, scheletri di ponti, travature di palazzi sbriciolati, ammassi di ferraglia contorta, viscere di opifici sventrati come di carogne in putrefazione.  Vagavano, i sopravvissuti, in mezzo alle rovine, stupefatti di tanto sfacelo, malfermi ed increduli come fantasmi svegliatisi in terre incongrue, e così presi da quanto vedevano che non apparivano per nulla propensi a richiamarsi, a solidarizzare, a condividere la sorte comune e, in un pur remoto sogno, sperare di ricominciare, come che fosse, a vivere insieme.  Al contrario, invece. Cercavano di evitarsi, si scansavano l’uno dall’altro, e se nell’andare in quel labirinto di disastri succedeva di trovarvisi di faccia, uno sguardo fulminante d’ira attraversava lo sguardo di entrambi e di colpo retrocedevano o cambiavano direzione, soprattutto se ad incontrarsi per caso erano di sesso opposto.  I maschi evitavano le femmine, queste si allontanavano di fretta appena ne avvertivano la vicinanza. Misurandosi da lontano si guardavano in cagnesco.  Una sorta di fastidio reciproco li spingeva ad ignorarsi, ad evitarsi. Forse neanche loro sapevano da cosa nascesse quella ripulsa che confinava con l’odio, col rifiuto, così irosamente palesato, di una qualsiasi relazione con esseri accomunati dalla stessa sorte.  Era come se si rinfacciassero una colpa, o leggessero, nell’altrui presenza, il desiderio di intraprendere una avventura simile a quella i cui sviluppi avevano avuto l’esito disastroso che avevano vissuto e che era sotto gli occhi dei pochi superstiti. Avventura della quale nessuno aveva nostalgia, come ognuno di loro ebbe modo di rendersene conto quando si avvidero che nessuno cercava la compagnia di nessuno, e che nessun era animato dalla voglia di reiterare con l’altro sesso il tentativo di quei due che ebbero nome di Deucalione e Pirra.  Continuarono in tal modo ad aggirarsi come lemuri di un ade sconvolto, ciascuno preso dal desiderio di disperdersi fino ad uno sfinimento mortale, in quel deserto di desolazione.”
  • I vapori della sbornia si sono dissolti. Ho la mente lucida. Lucidissima. Davvero invierò queste pagine a… chi ha orecchie per intendere, in questi tempi di scherno e miscredenza vietati a profeti e a sconfortati ubriachi? Conservarle a futura memoria affidandole a….chi?  Suvvia! Alla prossima sbornia! E un bel falò, di queste pagine dettatemi da uno spirito burlone?