• associazioni dolenti
  • Il capitalismo struttura la psiche individuale...
  • di
  • Adriano Segatori
  • (da: lefondamenta.it)
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  • C’è una pervasiva frustrazione che insegue l’uomo nella sua esistenza e che lo condanna ad una ricerca tanto pressante quanto invalidante: è la felicità, il miraggio di una beatitudine terrena che va dalla pretesa di salute alla soddisfazione di qualsivoglia indotto bisogno. In tutti i casi la responsabilità è politica, politica intesa come arte di educazione dell’uomo e del cittadino, e come tale fallita. Oggi, i due paradigmi che pretendono il massimo dalla felicità è la visione edenica della salute e la pretesa soddisfazione di qualsiasi bisogno.  
  • Per quanto riguarda la questione salute, è la stessa Costituzione della Repubblica che con l’articolo 32 compie un passo decisivo verso una distorsione collettiva. Questa proclama come fondamentale il «diritto [al]la salute». Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja sottolinea che: «In tal modo chi è malato è invitato a sentirsi vittima di un’ingiustizia, non quando manchino le cure, ma quando manchi la salute. La paranoia completa così il suo ciclo».   Per il problema inerente l’appagamento dei bisogni, l’apripista è stata la Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, nella quale si stabilisce per tutti gli uomini il diritto al perseguimento della felicità, come se uno stato d’animo, una condizione interiore potesse e possa essere definita per legge.   In questa velleitaria pretesa è andato a nozze il sistema dei consumi che, come aveva esposto alla Statale di Milano il 12 maggio del 1972 Jacques Lacan ne Il discorso del capitalismo, crea artatamente un vuoto di infelicità, che lo stesso invoca il suo riempimento attraverso una costante rincorsa ad oggetti di sostituzione psichica.

  • Ora, gli antichi, molto più profondi e saggi dei moderni, avevano distinto due stati d’animo per certi versi antinomici: il beatus, l’eudaimon, l’essere in armonia con la propria vocazione, in buona coscienza, e il felix, l’olbios, colui che persegue la tranquillità materiale.   È evidente che nel primo dispositivo ciò che interessa è lo stato interiore, quella serenità endogena che non è acquistabile, ma si raggiunge con un percorso di consapevolezza e di integrazione del sé, quell’allenamento il cui obiettivo è sintetizzato nella famosa allocuzione di Julius Evola: «Fa in modo che ciò su cui nulla puoi nulla possa su di te».  

  • Il resto, tutto ciò che è esogeno, che deriva dalla precaria prosperità materiale, dall’instabile benessere fisico, dall’interessato giudizio dell’altro, è un surrogato superficiale e di scarsa tenuta, se non causa più o meno accidentale della diffusa infelicità. Lacan imposta un concetto molto importante che può essere acquisito nella rappresentazione della diversità tra il mondo classico e quello moderno di intendere la questione della felicità. È il problema del Desiderio in opposizione al perseguimento delle voglie.   Il capitalismo è intervenuto nella stessa strutturazione della psiche individuale e collettiva introducendo, in maniera subdola e subliminale, il tarlo inesauribile delle voglie e, con esso, il meccanismo perverso ed altrettanto inestinguibile del loro soddisfacimento. Per dirla con Massimo Fini: il sistema liberal-capitalista ha bisogno del bisogno, quindi lo crea. E questo si è verificato. Un uomo ed una società condannata ad una perpetua insoddisfazione e ad un sentimento di angosciosa mancanza sempre di qualcosa.   

  • La visione organica della persona e della comunità, invece, era un invito ad individuare il proprio specifico Desiderio, simbolicamente traducibile con il daimon, con la chiamata, con la vocazione, con il destino, e concretizzabile nella funzione. Un mondo, un cosmo - nel senso di pulito, mundus, e di bello, kosmos, da cui cosmesi, in cui forma, bellezza, armonia, ordine si compenetrano e si rinforzano per un accordo interno ed esterno.   In questa modernità in cui tutto è drogato - il lavoro, l’economia, il tempo, la comunicazione - anche la felicità è drogata, e si passa dai picchi dell’euforia all’estraneamento della rassegnazione, senza un centro interiore a cui fare riferimento. La virtù come cura di sé è stata scomunicata e l’unica strada concessa è quella dell’eccesso di godimento.   Nella post- o ipermodernità, la ricerca della felicità è diventata agitata, confusa e spasmodica, e mentre gli individui atomizzati - come annota Byung-Chul Han - fanno «zapping tra le “possibilità di vita”», questa passa inesorabilmente da un vuoto all’altro, senza riuscire ad assaporare neppure un attimo di autentica serenità.