untori esecuzione

    • Lo straniero, colui che porta i mali...
    • di
    • Paolo Aldo Rossi
  • Ormai è il tempo di ripensare da un punto di vista storico il concetto di straniero   Il termine greco ξένος (xenos) può volere dire ospite, straniero, amico, forestiero, estraneo, strano, nemico, sconosciuto…, ma la grande sfumatura di significato sta come indizio di concetti contrastanti che vanno dal "nemico straniero" così come all’"amico ospite".
  • Tutto ciò che viene percepito come “altro” da me e con il quale tuttavia stabilisco un rapporto viene concentrato in un’unica parola: xenos, che funge in modo né equivoco né univoco, ma analogo (a seconda del senso e accezione di valore).   Il mondo greco distingueva fra lo straniero di stirpe greca e il meticcio, il barbaro e lo schiavo che non potevano partecipare ai Misteri di Eleusi e far parte della cittadinanza[1], ossia coloro che pur appartenendo a una comunità politica diversa dalla propria erano considerati essere cittadini greci, mentre il “meticcio” era straniero sia sul piano etnico-culturale, sia su quello politico e sociale.   Gli apolidi e gli esuli, cioè planomenoi (erranti), erano considerati diversi dagli xenoi e potevano essere o supplici (sotto la protezione di Zeus Xenios) o nemici dello Stato ospitante (inseguiti, arrestati e uccisi o rimandati nella propria patria) o chiedere ospitalità a una comunità politica diversa dalla propria (il che procurava la spaccatura dei rapporti familiari, di diritto o di fatto, e la confisca dei beni della famiglia).  Queste due categorie di persone non possono essere “stranieri” nel senso di ospite-amico anche se sono sotto la protezione di Zeus Xenios.   Erodoto afferma che “l’essere Greci” (tò Hellenikón), è la comunanza e l’unione di sangue e di lingua, i luoghi sacri e i sacrifici collettivi, gli usi e costumi affini: tradire tutto ciò sarebbe sconveniente” (Erodoto VIII, 144); più tardi sarà anche esercitare il potere sovrano e la magistrature (archein), esercitare l’attività giudiziaria (dikazein) e intervenire alle assemblee (ekklesiazein).  Lo xenos è usato per riferirsi a ospiti-amici il cui rapporto è costruito sotto il rituale della xenia (“ospitalità-amicizia”) per distinguerla dalla philia, affezione per un familiare, un amico o un concittadino, ma anche il legame che unisce i compagni in una impresa comune; o meglio: la philía è l’amore che si fonda sul principio di reciprocità e non è strettamente vincolata da Xenia che invece riassume il concetto dell’ospitalità.  Nella società omerica lo straniero-sconosciuto, essendo sprovvisto di norme giuridiche, viene accolto dalla collettività e con questa statuisce un vincolo di reciprocità testimoniato dal symbolon, una “tessera di accoglienza”, un coccio di pietra (un ostrakon, ὄστρακον) che, frantumato in due pezzi, documentava il patto tra due persone che portavano con sé il segno di una comunanza, di un accordo ospitale-amichevole che né la lontananza nello spazio né il tempo trascorso poteva fare sì che fosse dichiarato nullo. Quando i due si ricollegavano e si reincontravano allora si facevano combaciare le due metà del symbolon e l’unità così ottenuta attestava, dopo la lontananza, la distanza e la separazione, un’intimità ininterrotta, un legame che non era stato spezzato.  Nella Grecia arcaica, gli xenoi diventavano anche philoi, amici degni di riguardo, di considerazione e di benevolenza e protetti e rivestiti addirittura di una sacralità inviolabile, affermata e assicurata dalla protezione di Zeus e di Athena.  Cicerone, nel De officiis, afferma che l’hostis non indica propriamente il nemico, ma denota piuttosto l’estraneo, ossia lo straniero, non noto e non conosciuto (ignōtus, incognĭtus), che si dice hostis, contrapposto al cittadino, che è in-genuus, dove il termine indicava quegli uomini liberi che erano nati liberi e che facevano parte per nascita alla comunità.  La parola hospes deriva da aequere (eguagliare, comparare, pareggiare): “il compenso di un beneficio” e anche l’hostis è quello di uguaglianza per compenso, per cui l’ostile è colui che compensa l’omaggio con un contro omaggio, un prestigio con un privilegio. Il munus significa una donazione che impegna, impone e costringe a uno scambio; l’aggettivo communis si applica precisamente a colui che ha in comune dei munia, cioè dei doni da dare in cambio. Ora quando questo metodo o regola di compensazione è valido e agisce all’interno di una stessa cerchia individua, specifica, indica una “comunità”, un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità. Ciò nel mondo latino e medievale equivaleva alla sodalitas, cioè alla solidarietà fra gruppi di individui - detti sodales - accomunati da uno stesso scopo pratico da raggiungere. 

  • Nella lingua ebraica vi sono tre termini: zar, lo straniero che ha la propria dimora all’esterno dei confini di Israele ma, per un gioco di parole, si usa anche sar, il nemico da cui ci si deve proteggere (come il latino hospes-hostis); nokri è usato per lo straniero di passaggio[2] a cui si dà l’ospitalità e questo comporta rispetto e buona accoglienza; gher o toshav viene impiegato per lo straniero domiciliato in Israele che non appartenendo al popolo ebraico per nascita è un forestiero[3].   L’essere straniero ha inizio quando sorge la consapevolezza della propria diversità riguardo gli altri e si conclude quando si comprende di non avere difformità e disuguaglianze e, quindi, ci si riconosce tutti come stranieri. 

  • Ma la nostra storia ci presenta lo straniero come il portatore di malattie.  La teoria della “grande congiura” rappresenta una spiegazione dell’epidemia decisamente più "accettabile" e "ragionevole" di quanto non lo siano il castigo divino, le perfide congiunzioni astrali, la malignità delle comete, le esalazioni putride del terreno ed altre consimili ragioni motivabili con la fisica o la teodicea.  Dare un nome ai colpevoli, scoprire le ragioni del loro agire, individuare le loro strategie, descrivere le armi che essi utilizzano significava perlomeno tentare una difesa, mutare la passività in attività, esorcizzare il terrore trasformandolo in odio. Ciò significava portare la guerra sul piano del sociale, territorio più consono alla lotta, piuttosto che scendere a impossibile contesa contro Dio e la Natura.   L’idea della “grande congiura” si presenta già nel mondo classico (greco e romano) con le stesse caratteristiche di liturgia del sospetto e della vendetta tipiche dei “temps du desespoir” del Medioevo. Ne valgano due autorevolissimi esempi[4]:  Su Atene - scrive Tucidide[5] a proposito del contagio - si abbattè fulmineo, attaccando per primo la gente del Pireo. Sicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, inquinando le cisterne d’acqua piovana con veleno: s’era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi irrefrenabile.  Vorrei - scrive Livio[6] - che fosse falsa la notizia (non tutti gli storici la riportano) che dice morti avvelenati coloro la cui morte attribuì all’annata la triste fama di una pestilenza.   Si tratta, fra gli undici casi di epidemie riportate dalle “storie” liviane, della terribile ”peste“ (probabilmente vaiolo) del 331-330 a.C.  A differenza delle altre “pesti” che si erano attribuite a punizioni divine, in questo caso vengono rigorosamente individuati i colpevoli. La delazione di una ancella convinse i magistrati a prendere in seria considerazione la denuncia contro alcune matrone accusate di voler avvelenare i mariti per impossessarsi delle loro ricchezze:  [i magistrati] seguirono l’informatrice, e trovarono alcune matrone che preparavano pozioni, e altri veleni nascosti. Li portarono nel foro, e fecero chiamare da un pubblico ufficiale circa venti matrone, in casa delle quali erano stati trovati i veleni. Cercando due di esse, Cornelia e Sergia, entrambe di stirpe patrizia, di sostenere che quelle erano pozioni salutari, la delatrice confutando le loro affermazioni le invitò a bere, se volevano dimostrare che essa aveva inventato una falsa accusa. Allora presero un po’ di tempo per consultarsi fra loro, e fatta allontanare la folla, riferirono la cosa alle altre; anche queste non rifiutarono di bere, e davanti agli occhi di tutti ingoiata la pozione perirono per il loro stesso inganno. Le loro cameriere, tosto arrestate, denunciarono un gran numero di matrone, delle quali circa centosettanta furono condannate. Prima di allora a Roma non c’erano mai stati processi per avvelenamento.  La cosa fu considerata come un prodigio, e parve opera di menti uscite di senno più che scellerate... 

  • L’Atene di Tucidide e la Roma di Livio rappresentavano i due massimi esempi storici di “città fortificate” con mura e con leggi. I loro sistemi difensivi erano in grado di respingere gli attacchi dall’esterno e il loro ordinamento giuridico garantiva, dall’interno, la sopravvivenza della polis. Allo straniero, vagabondo, esule, mercante o soldato, che le scorge da lontano, le mura della città incutono stupore e timore, ma è ancor più il “corpus giuridico” a impressionarlo. Ione accoglie Medea facendole presente che più della forza sono le leggi a garantire l’incolumità dei cittadini. A chi vive entro la cinta, le difese militari e legali offrono sicurezza e contribuiscono a dissipare la paura.  Le varie raffigurazioni delle strutture difensive presentano tutte un elemento costante: dato che il nemico è lo straniero, colui che viene dall’esterno, queste sono necessarie per respingere la paura fuori dalle proprie mura, per mitigare il naturale senso di insicurezza con il ricorso a un imponente spiegamento di protezioni, per attutire con opportune precauzioni il ricorrente senso del pericolo ed esorcizzare l’insopportabile ansia di una fine spaventosa tenendo sempre vivo il simbolo dell’infinito spavento. Sarebbe impossibile tracciare una storia delle città senza ricorrere costantemente al complesso delle relazioni che intercorrono fra il dentro e il fuori le mura, senza tener conto dei passi fortificati, dei ponti presidiati, dei porti protetti e muniti, delle porte difese da innumerevoli congegni di sicurezza, delle torri ben fornite di uomini armati, delle continue interruzioni precauzionali delle vie di comunicazione.  Quando, però, questo complesso sistema difensivo si stravolge e si rivolta contro chi lo ha messo in atto e a lui ha affidato tutte le sue speranze di sicurezza, allora Deimos (il Timore) e Fobos (la Paura) diventano gli dei implacabili del terrore, generano la disperazione, gli uomini smarriti e naufraghi comprendono che non vi è più alcuna offerta adatta a conciliare le due tremende personificazioni dello spavento, salvo accettare al passivo l’ineluttabile fine. 

  • Mai gli uomini avevano dovuto sperimentare questa infinita disperazione nei propri mezzi difensivi. A introdurre ciò nella storia dell’umanità si incaricò la peste: un nemico invisibile, invincibile, inafferrabile che s’era annidato entro le mura donde non fu mai più possibile stanarlo; fu allora che le porte, i bastioni, le torri, i fossati divennero inservibili e restarono a presidiare una città impotente, annichilita dallo stupore che nulla potesse servire ad allontanare la paura ed essere l’analogo di quelle mura che per millenni avevano attutito le ansie degli abitanti.  La città assediata dall’interno non è più difendibile ricorrendo a complesse opere militari, né le leggi “scolpite nel cuore dei cittadini” potevano ancora valere. Quando il nemico è fra noi non è possibile non sospettare che esso abbia l’appoggio di qualcuno dei nostri.   E’così che le leggi, perfettamente in grado di tenere a bada - in tempo di pace - i vari corpi estranei alla società (criminali, disadattati, diversi ...) divengono - in tempo di guerra - più rigide, inappellabili, prive di misericordia.  E’però solo nei tempi della disperazione che il sistema giuridico si stravolge e si frantuma, non è più in grado di fornire garanzie, non accetta ragioni, non costruisce e non spiega i dati, ma si limita ai soli fatti interpretati secondo la logica del “ogni evento ha un responsabile”. Si tratta di scovare i colpevoli (l‘antica scansione dialettica, tipica della Grecia arcaica, per cui la nozione di causa è uguale a quella di colpa) e punirli secondo l’ineluttabile legge naturale del contrappasso. Essi, i colpevoli, pur abitando la città, non ne fanno parte, sono l’archetipo stesso dello Straniero, colui del quale si ignorano lingua, usi e costumi, mentre si sa per certo che da questi si deve sempre attendere una cieca ferocia omicida ed una inconciliabile furia distruttiva. Costoro rappresentano quella marea fluttuante di emarginati, diversi, disintegrati, devianti che popolano gli spazi lasciati deserti dal mondo dei normali. Sono l’inesauribile serbatoio dal quale estrarre i “capri espiatori” nei tempi negati alla speranza.  Ebrei e “moriscos” di cui non si condividono le credenze religiose, non si comprende la cultura e a cui si invidiano eventuali ricchezze o riuscite sociali, i miserabili e i vagabondi la cui scandalosa esistenza rinnova costantemente nella memoria dei benestanti un tremendo senso di colpa, i lebbrosi colpiti da un male che troppo tarda a portarli alla tomba e la cui presenza costantemente accresce l’indice della paura e il senso dell’impotenza contro la malattia, gli eretici destabilizzatori dell’ordine politico e religioso ed infine le streghe.

  • Jules Michelet, l’Autore della monumentale Histoire de France, apre quel suo piccolo capolavoro che è La Sorçiere chiedendosi: “Donde proviene la strega?”[7]  Io rispondo senza esitazioni. Essa proviene dai tempi negati alla speranza.  Ma cosa è esattamente questa “disperazione”, o in altre parole quali sono i segni che configurano tale negazione della speranza?   Per Michelet tale disperazione è quella della miseria spirituale e materiale che stigmatizza l’Europa del XIV secolo: l’epoca della Grande Peste, dei lutti e delle carestie, della Guerra dei Cento Anni, delle Crociate contro gli eretici e gli infedeli, delle insopportabili gabelle (ecclesiastiche e civili) che trasformano la fame in inedia, del clero rapace e litigioso e dei signori disumanamente prepotenti. Certo, la campana che scandisce la vita di questa epoca suona costantemente i tre lugubri rintocchi dell’usata litania: “A malo, a fame, a bello libera nos Domine”, ma se tutto questo ha sicuramente contribuito alla nascita della caccia alle streghe e ai “diversi”, non ha da solo la forza per spiegare il fenomeno in tutta la sua complessità.  Michelet, che legge il fenomeno dalla parte dei perseguitati, insiste nel dire che la miseria chiama vendetta e che, quando all’oppresso non resta neppure l’ardire di provarci di persona, allora egli deve evocare lo ”spirito“ che può accollarsi il compito di far giustizia per lui contro i potenti. E’così che i tempi della disperazione si trasformano nei tempi della ribellione. Una splendida immagine romantica, destituita però di qualsiasi fondamento storico.   Se il volto della miseria e la maschera della disperazione sono proprie dei perseguitati, il problema autentico è quello di disegnare il ritratto dei persecutori. Abituati come siamo a scorrere sui libri di storia le lunghe teorie dei “potenti” che hanno fatto abuso della loro autorità contro il popolo, ci dimentichiamo spesso che quella stessa gente costretta, suo malgrado, ad ammettere fra sé i diversi, fu appunto quel popolo che chiese a gran voce che s’accendessero i roghi vendicatori. Fu lo stesso popolo a volersi vendicare, non dei potenti, ma di quella parte di sé stesso che non poteva accettare.  La vendetta del popolo non è mai indirizzata verso i veri responsabili dell’oppressione, della fame e delle miserie, ma colpisce, a boomerang, la parte dei disperati, dei diseredati, degli affamati e dei miseri.  Chi abbia letto con attenzione anche solo alcuni verbali dei processi per stregoneria [e gli analoghi contro gli appestatori, untori, lebbrosi, congiurati di Satana o al soldo di potenze straniere] non può non essersi accorto, con meraviglia, che è quasi sempre la mucca di un povero a rifiutare il latte o la moglie di un bifolco a diventare sterile, che la tempesta cade sempre sui campi di chi non ha di che sfamarsi, che il sortilegio dell’impotenza colpisce molto di frequente il villano, che è il figlio del contadino a morire di maleficio e la sua intera famiglia di peste, che, infine, al Sabba, a cui partecipano gli abitanti di uno stesso paese, danzano in girotondo (come sarà poi al processo) gli accusatori, lesi nella salute e nella proprietà dagli accusati, i quali a loro volta scambiate le parti, avranno gli stessi identici motivi per ritorcere contro di quelli le stesse imputazioni e i medesimi sospetti.   L’onnipresente Satana non vendica i torti subiti dai deboli, risparmia i potenti ed evita di colpire gli oppressori, ma in compenso soffia sul fuoco di una rissa colossale fra miserabili in cui tutti s’azzuffano accanitamente contro tutti. Lungimirante è la miopia del “povero“, il quale ha maggior soddisfazione nella disgrazia di un invidiato vicino che nella morte del tiranno. E anche per questo che è difficile credere in uno spirito della vendetta evocato in difesa dei diritti dell’oppresso, mentre è più facile accettare che la “disperazione” possa richiamare dai recessi dell’istinto le Erinni cieche dell’odio. Ma è un odio individuale, la sorda rabbia del vinto, l’astio che non sa dove sia il suo “telos” e non può placarsi nello sfogo.  L’odio collettivo scoppierà quando l’ortodossia, il conformismo sociale e il lealismo politico non lasceranno più alcuno spazio al “diverso“ (il quale nel frattempo ha imparato a sentirsi tale). Sono questi i “tempi negati alla speranza“, ossia quando gli ebrei e i moriscos verranno forzatamente battezzati per trasformarli da infedeli in eretici (e di conseguenza per poterli sottoporre alla giurisdizione inquisitoriale), quando gli “eretici” saranno inseguiti dovunque troveranno rifugio, quando senza più misericordia verso l’errore verrà coniata una nuova definizione di eresia tanto ampia da poter servire anche (e fondamentalmente) per colpire sia la superstizione delle streghe che il dissenso degli eterodossi.  Con un’arma tanto ben confezionata la controffensiva al venefico contagio (anche l’eresia e la stregoneria sono spesso definite malefica peste) diveniva automatica. Le paure che avevano popolato le menti di un popolo abituato a individuare i colpevoli delle proprie sofferenze fra gli emarginati dal corpo sociale, non potevano che ritornare ancor più massicce in tempo di pestilenza.  L’idea che la morte provenisse da una infezione dell’aria e delle acque fece imputare agli Ebrei la contaminazione dei pozzi, delle acque e dell’aria. La gente si rivoltò ferocemente contro di loro, al punto che in Germania ed in altri luoghi dove risiedevano degli Ebrei, ne furono uccise, massacrate e bruciate dai cristiani parecchie migliaia. [...] Furono trovati, si dice, molti cattivi cristiani che, essi pure, avvelenavano i pozzi ...[8]   Ma anche fuori dai tempi del contagio si fa spazio l’idea della grande congiura.  Nel 1321 scoppiò e si propagò in tutta la Francia, dal Sud all’Ovest, una terribile persecuzione contro i lebbrosi e gli Ebrei, accusati di aver avvelenato i pozzi. Dopo la sanguinosa vendetta, voluta ed eseguita o direttamente dal popolo o con il suo attivo consenso, i lebbrosi vennero legalmente segregati a vita e separati dal resto del corpo sociale.   Si diceva - scriveva un anonimo cronista del XIV secolo - che gli ebrei fossero complici dei lebbrosi in questo crimine: e per questo molti di loro furono bruciati insieme ai lebbrosi. Il popolino si faceva giustizia da sé, senza chiamare né il prevosto né il balivo: chiudeva la gente nelle case, insieme col bestiame e le masserizie, e appiccava il fuoco.[9]   La cosa si ripete in modo ancor più feroce in tempo di peste. Quando nel 1347 le galee genovesi, provenienti da Costantinopoli, portarono a Messina il contagio e la peste si propagò rapidamente in tutta Europa, allora ci si ricordò nuovamente della grande congiura. Mutarono i mandanti (al posto del re di Granada si sostituiscono via via varie potenze straniere nemiche), restarono costanti i finanziatori-mediatori (gli Ebrei), mentre si arricchì di nuove categorie sociali la massa degli esecutori (lebbrosi, mendicanti, poveri, folli, eretici e streghe). Un intero mondo di emarginati è assunto al ruolo di capro espiatorio. Nessuno, fra gli appartenenti al ceto popolare, può essere certo di salvarsi dalla persecuzione, proprio perché le guerre, le carestie e le epidemie possono da un momento all’altro far sì che chiunque possa precipitare nel baratro delle classi emarginate.   Ogni rapporto sociale sarà, allora, avvelenato dal sospetto, ogni momento della vita segnato dal timore di una probabile denuncia; si ingenera, quindi, un diffuso senso di insicurezza e sulle macerie di una società frantumata dall’intolleranza sorgerà lo spazio storico della disperazione.  Il Satana che è dentro di noi, il demone che abita in ogni uomo, si risveglia ogniqualvolta ci si sente braccati, impossibilitati a chiamare in causa il diritto, incapaci di tollerare il sopruso e l’arbitrio.  Non è facile evocare un tale demone dalla coscienza collettiva di un’intera società, bisogna aver sostituito i valori con la confusione, aver proliferato le norme fino al vuoto formalismo, aver fatto del politico lo spazio dell’abuso e della sopraffazione, svuotato la fede dell’emozione d’amore, mortificata e derisa l’intelligenza. Se questo riuscì al potere fu anche perché l’inquisizione religiosa e i tribunali civili, da questo tragicamente emanati, seppero trasformare in disperazione l’inquietudine sociale e in cieco odio la coartazione dei desideri.

  • 1]  “Non si è cittadini perché si abita un certo luogo - dice Aristotele - né perché si abbia accesso alle istituzioni giudiziarie” (Aristotele, Politica 1275 a 5 ss) “Abitiamo questo paese non avendone scacciato altri né avendolo trovato deserto né essendoci riuniti qui come un miscuglio di razze, ma così nobile e pura è la nostra origine che occupiamo senza interruzione la terra da cui fummo generati, in quanto siamo autoctoni e possiamo chiamare la nostra città con gli stessi nomi che diamo ai più stretti congiunti”. Isocrate, Panegirico, 24
  • 2] “Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio” (14,21).
  • 3]  “Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto” (Es., 22,20).
  • 4]  Cfr. A. Francia, La criminalizzazione del marginale nel fenomeno della caccia agli untori, in ”Nuova Secondaria“, La peste nella storia (a cura di P. A. Rossi.
  • 5]  Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 47-49, Guanda, Milano, Vol. I, pp. 239.
  • 6]  Tito Livio, Ab Urbe Condita, (ed. critica R.S.Conway e C.F.Walters ), Oxford, 1955. Per quanto attiene le pestilenze a Roma cfr. G. Sticker, Abbandlungen aus der Seuchengeschichte und Seuchenlehre, Giessen, 1908.
  • 7]  J. Michelet, La Strega, Milano, Rizzoli, 1977, p. 31.
  • 8]  Benaerts e Samaran, Choix de textes historiques de la France de 1228 à 1610, Parigi, 1926, pp. 34-35.
  • 9]  Dom M. Bouquet, Recoeuil des historien de la Gaule ... Parigi, 1877-1904.
  • Specie i libri XX, XXI e XXIII contengono le diverse cronache della presunta congiura Ebrei-lebbrosi per avvelenare i pozzi. In breve, Jean l’Archêveque fa pervenire a Filippo V la confessione di uno dei capi dei lebbrosi il quale ammette di aver ricevuto da un ebreo, dietro una somma di denaro e promesse di importanti cariche a vittoria ottenuta, il veleno per inquinare le fonti idriche. Manco a dirlo gli ingredienti del veleno sono dal più al meno gli stessi che ritornano nelle confessioni delle streghe. L’organigramma della grande congiura era così strutturato: il re di Granada, non potendo vincere i Cristiani con la forza, ricorre all’astuzia assoldando degli Ebrei i quali a loro volta assoldano i lebbrosi, dopo aver fatto loro abiurare la religione e averli legati a Satana. A compenso dell’intero affare gli Ebrei si sarebbero prese le ricchezze dei nobili e dei facoltosi cristiani e i lebbrosi ne avrebbero ereditato le cariche nobiliari o religiose.