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Scultura:

"IL CAVALLO DEL FATO"


1 Cavallo del Fato fianco 1

"IL CAVALLO DEL FATO", Scultura di  Sandro Giovannini,   2017
(alt. 3 mt., lungh. 2,50, largh. 1, materiali vari)

 

  •  I 
  • Memoria

La scultura nasce come una sfida ideale al tempo attuale e riporta una passione ed una cura priva di orpelli, essenziale, significativa. Non è solo un rischioso tentativo di ripercorrere con un passo lento e progressivo un mito antico che è andato consumandosi nei secoli quanto una prova che un uomo costantemente può compiere per riprendere il discorso dell’origine, sempre possibile.  (1)

L’incudine ed il martello sono la stessa materia umana sottoposta alla legge entropica che prima dà e poi toglie e poi ridà ancora, senza alcuna pietà, nel primo senso e nel secondo. La pietas invece è tutta nella ricostruzione che un uomo compie, accanto al suo totem, reggendolo per le redini, alleato di spazi e conquiste da tempo immemorabile, come astro di riferimento tra alcuni altri, in una ferma costellazione teologica, sapendo che può perderlo e perdersi con esso. Il cavallo, “scuotitore della terra” (enosichthon), catafratto, dedicato, sacrificabile. Il racconto dice infatti del cavallo come inganno per conquistare Ilio, ma noi sappiamo bene, dagli scavi nel sito di Troia, non risultare affatto un insediamento acheo nella città. (2) Quindi l’inganno che fonda il mito potrebbe rivelarsi duplice; il cavallo simbolo del terremoto, innegabile travaglio di un sommovimento comunque avvenuto, sacro a Poseidone, ma gestito dalla potenza astuta ed atroce di Atena, prima come Palladion teucro,  poi come Vittoria romana, (3) valido a fondare forse una falsa sconfitta dalla quale promana una certa vittoria, anch’essa senza tempo. E’ l’antica storia dell’incudine e del martello, ove l’uomo, il fabbro, l’artefice, l’ingannatore, il distruttore, infine il fondatore e il pio, riesce, assieme al suo antenato, a caricarsi addosso la sua colpa, la sua paura ed il suo coraggio, tutti inevitabili al destino ed affrontabili nella vacuità.   (4)

 

 

  • II
  • Confronto

Confronto sui materiali. Il legno innanzitutto, scarto delle navi e dei tanti apprestamenti, ora scarto di produzione nell’immane mercato in cui siamo immersi tutti e dell’altro legno, invece, molto prezioso, a tasselli di mosaico radicali e profumati, lavorati uno per uno. E poi il piombo greve della condotta sotterranea e della lotta di fronte, usbergo di ogni scontro a viso aperto, richiamo al duplice materiale tossico dell’esistenza ma anche immune alla corrosione, dialettico come sconfitta e riscatto. La pesanteur come dimensione, inevitabile, di fondo. La commistione dei materiali e delle forme attira il già detto della “scrittura esterna”, (5)  con un’approssimazione al rispecchiamento dello spettatore nella torre merlata e nell’antico muro di truia, che avviene al punto più alto della rappresentazione umana e dell’utopia, con l’iscrizione della profezia di Enea, che instaura la nostra vera storia e che rimanda, nel suo rito lustrale e fondatore, al tanto giovane perdurante ed attestato lusus troiae, (6) labirintico parto della memoria ancestrale. (7) Ma su tutto dominano le dee, ambedue già consumate da secoli e sempre in complessa diatriba tra racconto letterario e mito, già copie di copie, la Minerva Tritonia del sacello di Enea a Lavinio e quella romana dell’Altare della Vittoria, sottostante, inquieta nei suoi ultimi anni di vittoria, quasi ad invertire (e ribadire) la partenza nemica e disastrosa. L’inganno, la divergenza e la rovina, incombono perennemente come le due dee, una sopra composta dall’autore in arte di terra sull’altra, trovata, in fusione di bronzo. Il rispecchiamento duplice quindi avviene anche nella materia più dura e significativa e non solo nell’immagine alta e transeunte che noi proiettiamo di noi stessi, sulle pareti cangianti del tempo. Il bronzo è l’altro che domina dal livello della sua epoca a ricordarci che non tutto, anche oggi, è necessariamente di plastica.

 

  •  
  • III
  • Atteggiamento

L’autore non cerca nulla che non sia nell’opera, quindi il lavoro più volte rifatto, non solo il progetto presuntuoso, l’affidamento costante, la protezione ormai benevola, quotidiana, persino il possibile gioco infantile per un ideale destinatario, ragioni semplici di un asseverarsi nei sempre perseguiti sogni della giovinezza, il tutto nella compagnia di una bestia, possiamo dire, non tanto immaginaria quanto storica. Che, nel suo alternato passaggio da sconfitta a vittoria, perenni, non inganna e non tradisce più. E’ un segno continuo, forse pesante ma caldo. L’animale viene ancora offerto in sacrificio allo sguardo di favorevoli e contrari, non sappiamo più quanto capaci realmente di vedere questo, fuori dagli ammiccamenti di mercato; determinato invece, nella proiezione fantastica, ad un sacrificio ben più ampio, ad una storia che non si arresta neanche con la caduta, apparentemente irreversibile, del racconto iniziale... Quindi più che il cavallo troiano qui vi è il cavallo del fato, ovvero un processo che mai trova requie e spiegazione piena se non in una auto rappresentazione che forse sa meno ordinatamente della storia, sperimentando più sapientemente il mito...

 

 

Note:

  • 1)   Soprattutto nell'interpretazione filosofica che ne hanno dato, con la loro ricerca nel tempo, Gian Franco Lami, Giovanni Sessa e Giovanni Damiano...
  • 2) “...Il racconto tradizionale della fine di Troia è, in realtà, talmente debole che secondo il solito Dione di Prusa (Orazione, XI,118) la guerra si sarebbe conclusa con un accordo che lasciava la città in mano ai Troiani, e dunque con un sostanziale fallimento della spedizione (da notare che, dagli scavi condotti nel sito di Troia, non risulta che vi sia mai stato un insediamento acheo nella città). Interessante l’ipotesi, già avanzata da F. Schachermeyr (Poseidon, Bern 1950, 194), e recentemente riproposta da E. Cline (Poseidon’s Horses: Plate Tectonics and Earthquake Storms in the ‘Late Bronze Age Aegean and Eastern Mediterranean’, “Journal of Archaeological Science” 27 [2002] 43-63, nonché, con specifico riferimento a Troia, Troy as a ‘Contested Periphery’: Archaeological Perspectives on Cross-Cultural and Cross-Disciplinary Interactions Concerning Bronze Age Anatolia, in “Hittites, Greeks and Their Neighbors in Ancient Anatolia: An International Conference on Cross-Cultural Interaction”, Atlanta, 17-19 September 2004), secondo cui il cavallo di Troia sarebbe da considerarsi come metafora di un terremoto, essendo il cavallo animale sacro a Poseidone, «scuotitore della terra» (Enosichthon)...” (Eleonora Cavallini, a Proposito di Troy, Quaderni di Scienza della Conservazione, pag. 301-333, nota 50, pag. 328.)
  •                    
  • 3) La riproduzione dell’autore in creta bronzata della statua superiore, s’accosta plausibilmente all’immagine della Minerva Tritonia che proviene dal santuario orientale di Lavinio, databile al V secolo a.C., come ad una delle possibili identificazioni (comunque in successione) del Palladio. La Minerva Tritonia, ora al Museo di Pratica di Mare (Lavinio, Pomezia), si presenta chiusa in un’egida dalle pieghe schematiche, divisa in due metà, lunga fino ai piedi. I particolari anatomici della figura sono del tutto innaturali. La corazza ornata dal Gorgoneion centrale, doveva essere allacciata in vita da due serpenti, privi della testa, le cui code si intrecciano sul retro. La testa con gli occhi grandi e la bocca alquanto stretta, è chiusa da un elmo con paraguance. Il braccio sinistro regge un grande scudo ovale profilato da serpenti, quadrupedi e uccelli; esternamente sono incisi dei crescenti lunari. Accanto alla dea ed in basso è un Tritone che sorregge lo scudo: si tratta di una delle poche rappresentazioni della dea accompagnata dal Tritone che ci riporta a una leggenda poco nota, originata in Beozia, in base alla quale Minerva sarebbe nata e sarebbe stata allevata vicino a un fiume chiamato Tritone. Da ciò ha origine l’appellativo della probabile statua di culto del santuario di Lavinium, noto già dall’Eneide. Al momento del rinvenimento la statua conservava ancora tracce dell’originaria policromia: giallo per i capelli e lo scudo, rosso per il Tritone e l’egida, azzurro per il serpente e bianco per le vesti. Questa statua è stata maggiormente avvicinata alle raffigurazioni del Palladio, la statua originariamente di legno di Pallade/Atena (xòanon), inviata da Zeus a Dardano, il fondatore di Troia, a protezione della città. Ulisse e Diomede la sottrassero al tempio di Atena determinando la caduta di Troia. Secondo la leggenda romana, Enea avrebbe salvato il Palladio dalle fiamme di Ilio portandolo con sé verso l’Italia. Alcune fonti collocano poi storicamente la statua nel tempio di Vesta a Roma, altre a Lavinium.
  • Invece la Minerva romana in forma di Vittoria (statua inferiore) è una copia bronzea (anni Trenta del Novecento) della Vittoria di Fossombrone (o di Kassel). L’originale Vittoria di Fossombrone, è stata scoperta nel 1660 nell’area di un edificio di età romana (identificato dagli archeologi della Soprintendenza archeologica delle Marche come Augusteo) a Forum Sempronii. La statua bronzea giunta poi a Roma nel corso del XVIII secolo, veniva  acquistata per 200 zecchini nel 1777 dal langravio d’Assia-Kassel Federico II; da allora è conservata presso il Museumslandschaft Hessen Kassel. Da Marzo a Giugno 2014 il bronzo è rimasto esposto nel Museo Civico Vernarecci a Fossombrone assieme con vari materiali dell’età augustea provenienti dai musei delle Marche, in occasione del bimillenario di Augusto nella mostra «La Vittoria di Kassel a Forum Sempronii: un ritorno».  Alta 67 cm, tutta di bronzo con inserti in argento, la Vittoria è già una quasi sicura replica di età imperiale della statua in bronzo dorato dedicata a Taranto per celebrare la vittoria di Pirro ad Eraclea sui romani, poi appunto presa dai romani a Taranto dopo la ritirata di Pirro dall’Italia meridionale e infine trasferita da Augusto a Roma nella Curia Iulia il 28 agosto del 29 a.C. per celebrare la vittoria, ottenuta nel 31 a.C. ad Azio  su Marco Antonio e Cleopatra.  L’Altare della Vittoria, insieme alla statua dedicata alla Vittoria, furono quindi poste al centro della nuova Curia, nel foro. Nel 218, quando il giovane Eliogabalo, gran sacerdote del dio siriano  divenne imperatore, un suo ritratto, in vesti sacerdotali e in atto di sacrificare al Bolide-Sole di Emesa, fu appeso sopra l’altare, in modo che i senatori si trovassero nella situazione di sacrificare anche all’imperatore ogni volta che offrissero incenso e vino all’Altare della Vittoria. Con l’avvento del Cristianesimo e il suo contrasto con la tradizionale religione romana, l’ara e la statua furono al centro di una lunga disputa. L’imperatore Costanzo II (337-361), fervente ariano, le fece rimuovere in occasione di una sua visita a Roma, nel 357 ; l’altare e la statua furono però rimesse al loro posto dal successore di Costanzo, Giuliano (361-363) e mantenute da Valentiniano I. Nel 382 il figlio e successore di quest’ultimo, Graziano (375-383), cristiano intollerante, ordinò nuovamente di rimuoverle. Con l’Editto di Tessalonica (380), Teodosio I aveva già stabilito il cristianesimo come la nuova religione di Stato. Graziano, oltre ad abolire la carica di Pontefice Massimo per l’imperatore, aveva soppresso i fondi destinati al culto pagano e ai collegi sacerdotali romani, con il plauso di Ambrogio. Il partito dei senatori, favorevoli all’antica religione, fece un tentativo di ripristinare l’Altare della Vittoria nel 384: il praefectus urbi Quinto Aurelio Simmaco si recò a Milano e indirizzò ai tre imperatori Valentiniano IITeodosio I e Arcadio la Relatio tertia in repetenda ara Victoriae, in cui perorava la restaurazione del culto della Vittoria. Suo intransigente oppositore fu il vescovo di Milano Ambrogio, il quale indirizzò a Valentiniano due lettere in cui affermava che un sovrano cristiano non poteva permettere un altare pagano nel Senato. Valentiniano, anch’egli cristiano, diede ragione ad Ambrogio e l’altare non venne ripristinato. Non solo; il 24 febbraio 391 un decreto di Teodosio I stabilì che non si potessero nemmeno guardare le statue che erano ancora nei templi, né entrare in essi in atteggiamento di devozione. Nel 392 a Roma venne eletto imperatore Eugenio, il quale, cristiano ma tollerante, ebbe il sostegno dei senatori pagani e fece ricollocare l’altare e la statua nella Curia. Il 6 settembre del 394 Eugenio fu però sconfitto nella battaglia del Frigido da Teodosio che fece rimuovere definitivamente l’altare. Un ultimo tentativo di ottenere la restituzione dell’ara e della statua della Vittoria nella Curia Iulia fu effettuato dal Senato, evidentemente ancora a maggioranza pagana che, nei primi del 402, a questo scopo, inviò a Milano una legazione ad Arcadio e Onorio, capeggiata ancora da Simmaco. La richiesta fu sprezzantemente respinta. Da allora non vi furono più ulteriori richieste, dal momento che, come scrive lo stesso storico pagano Zosimo, con l’accentuarsi delle conversioni, anche i senatori divennero col tempo in maggioranza di fede cristiana.   Uno dei motivi per cui l’autore ha avvicinato le due statue e le loro significative vicissitudini storiche, è la potenza di un rimando, nei due casi, ad una lotta senza esclusione di colpi, che, spesso storicamente, avviene ancor prima tramite i simboli, (e non solo, ovviamente, strettamente i simboli, ma immaginalità diffuse, rappresentazioni mediatiche reiterate, racconti ideologici, costruzioni di false verità storiche affermatesi per secoli, etc...) che con i mezzi materiali.
  • 4) “...come vacuità e destino”, è il titolo del secondo libro di saggi dell’autore, pag. 397, edito da NovAntico Editrice, nel 2011. Senza qui volere parafrasare il sunto ideale di oltre 50 saggi letterari e metapolitici, cosa che sarebbe ridicola ancor prima che noiosa, è ovvio che questi sono due plessi logici fondamentali per l’autore...
  • 5) La “scrittura esterna”: per meglio chiarire questo concetto filosofico, artistico ed editoriale, qui sotto riportiamo in parte il nostro saggio, integro in “...come vacuità e destino”, NovAntico Editrice, 2011:
  • La scrittura esterna, dai primi “volumina” alle istallazioni creative
  • La pratica e la teoria della “scrittura esterna”, hanno proceduto di pari passo… E’ vero che con il nostro Manifesto, nei primi anni ’90, (1) e tutto il coinvolgimento, anche di personaggi che esso ha comportato: antichisti, teorici, ricercatori, eravamo riusciti a coinvolgere aspettative piacevolmente incuriosite ed attese più che benevole, ma l’affaire delle magliette letterarie (il più grande nel paraeditoriale degli ultimi 50 anni), con la sua rapinosa potenzialità, in parte ci distrasse giocoforza dalla sperimentazione teorica, almeno per un certo periodo... La prima maglietta letteraria mostrata in Italia fu, al secondo Salone del libro di Torino, nello stand Heliopolis, per lo scritto con alcuni passi da Teofrasto e per l’immagine con un volto su cui erano iscritte, secondo la cosiddetta metoposcopia, le linee della fronte…  Fu un successo immediato... E’ dall’osservazione appassionata dell’antico, però, senza i paraocchi di certo tecnicismo antichistico e senza un’osservanza passatista, ma con una valenza creativa, allargata, trabordante, che sempre siamo riusciti a riproporre forme e contenuti, rispettosi sostanzialmente degli archetipi, ma carichi di una forza innovativa impensata e smarcante. Il “molto antico” infatti, diversamente da ciò che opina il riflesso condizionato e pavloviano dei cosiddetti pensatoi del mercato affluente e nevrotico dell’occidente consumista, è una miniera inesplorata per le idee, anche commerciali. Il nostro paraeditoriale continua, ad esempio, con gli ultimi modelli di rotoli e tavolette e con la novità assoluta delle cartoline lignee policrome serigrafate e di quelle monocrome ad incisione laser, distribuite nelle librerie dei principali musei, e chiamarlo paraeditoriale, a tal punto, è quasi una consapevole autolimitazione… Potremmo ormai chiamarla una “linea heliopolis”. Con il suo stile inconfondibilmente rinnovato, che dai prototipi, validi per le successive tirature per i rotoli, le tavolette, etc, procede alle proposte multimediali, (2) ancora rivolte ai più disparati settori produttivi, come l’ultima proposta: le nostre “istallazioni creative”. Qui la commistione fra parola, disegno, simbolo, evocazione, singolarmente carichi di forza e cultura propria e non solo di “citazionismo da passerella” e quindi gestalticamente anche altro da sé, ovvero non una somma aritmetica di fattori, sia pur intelligenti, ma un’elevazione a potenza complessiva, hanno un senso ed una direzione di significazione artistica e di reale comunicazione. In tal modo crediamo anche di corrispondere ad un progetto serio e cordiale: una “scrittura esterna” dei nostri lari e penati che continuino a vivere assieme a noi, nel mondo sconnesso e virulento del presente…
  • di seguito 2  sottonote del saggio (all'interno della nota n° 5, La scrittura esterna):
  • 1)  Manifesto della "scrittura esterna", (1990) :
  • Una piccola casa editrice di provincia che trae dalla riproduzione delle tecniche scrittorie degli antichi la sua ragione di essere e di sussistere, dopo aver pubblicato volumina, tavolette iscritte ed epigrafi sui materiali nobili più diversi, si è interrogata sul significato della propria opera. E’ nato così il manifesto sul valore incorruttibile della “scrittura esterna”. Si tratta di un manifesto aperto… e per meglio definire le finalità della nostra iniziativa, e con essa lo scopo della nostra "missione" editoriale, ci permettiamo di allegare anche una riflessione sulla “scrittura esterna” che ha duplice motivazione, di pensiero sul passato della nostra attività e di proposta per l’avvenire.     Pesaro, gennaio 1990
  •  BASE DEL MANIFESTO APERTO
  • La scrittura non solo è strumento di conservazione della memoria, ma è in se stessa memoria del passato. Se ci affranchiamo, anche solo per un attimo, dai caratteri ripetitivi della vecchia macchina da scrivere o del moderno computer, allora approdiamo direttamente allo scriba o al lapicida. Approdiamo, cioè, alla magia artigianale di lettere dipinte o scolpite. Le lettere degli alfabeti non solo compongono parole, ma sono in se stesse figure geometriche armoniche e conchiuse. Il monito non deriva solo dal messaggio che trasmettono le parole, ma dalla stessa essenza grafica dei segni che la rappresentano. Se la parola del passato - come scrive Nietzsche - è simile a sentenza di oracolo, anche i segni che la compongono, purché segni alfabetici artigianalmente composti, evocano il nesso più profondo che ci unisce a un mondo di memorie ancestrali.   La società di oggi difficilmente recupera il significato intrinseco della magia della scrittura, intesa come paziente, inalienabile frutto d’officina della fatica umana, e ancora più difficilmente coniuga insieme alfabeto e messaggio. E’ sì pervasa, quasi bombardata da scritte pubblicitarie o provocatorie di ogni tipo, che però né costituiscono messaggio letterario né veicolo di valorizzazione delle forme di scrittura.   La società di oggi richiede con sempre più insistenza messaggi scritti anche sulla suppellettile quotidiana, ma essi si trasformeranno in messaggi di una nuova epigrafia solo nel momento dell’incontro fra tecniche di scrittura e messaggi letterari. Abbiamo detto nuova e moderna epigrafia e definiamo come nuova e moderna epigrafia quella che attraverso le scritte su materiali durevoli sappia restituire il senso dei valori dell’antico attraverso la compiutezza del messaggio, l’inalienabilità dell’oggetto iscritto e il suo intrinseco valore di durata nel tempo e nello spazio.
  •  
  • RIFLESSIONE sulla “SCRITTURA ESTERNA” a cura dell’HELIOPOLIS EDIZIONI
  •  E’ impressione diffusa che le cose abbiano espropriato la scrittura. Infatti, per quanto la scrittura sia aumentata in progressione enorme rispetto a un passato remoto ed anche a uno più recente, le cose si sono insediate ad un ritmo certamente ben più rapido e ultimamente travolgente. Buon senso e senso comune convergono, nello sgomento dei più sensibili, al valore limitabile o comunque ghettizzabile della scrittura letteraria. Un rapporto, di per sé evidentissimo, è venuto a mancare: nella letteratura non ci si imbatte più, mai più. Non la si incontra per caso. Gli oggetti, le forme materiali che ci circondano la respingono, la temono. E giustamente, poiché è il Tempo che essa reca con sé mentre le nostre cose, tanto più quanto più sono fragili e scadenti, rifiutano, nel loro insistere heideggeriano, di rappresentarsi umilmente come veicolo del Tempo che fa sorgere e oscura; ma nella loro funzionalità reiterata ed in fondo ostile, cercano di sovrapporsi al Tempo, vanitose di una meschina e falsa eternità. Dunque, e oseremmo dire per definizione, le nostre cose non sopportano di venire iscritte: non lo sopporteranno che a patto d’esser violentate dall’iscrizione letteraria, e con essa dal Tempo. Ben diversamente si imponeva al marmo, che ormai è quasi polvere, il proprio pensiero sull’arco di un portone, un motto, una preghiera; o ancora più indietro DIIS MANIBUS quasi ad ogni piè sospinto, oltre ogni soglia consunta... Ammettiamolo, che ancora oggi, nella città moderna… ciò che segna una sosta o una via d’uscita del pensiero è ancora l’antica iscrizione sulla pietra, da decifrare, irrimediabilmente, non nostra nella lingua e nel materiale. Eppure, ci sembra, il gioco va tentato. Un esperimento si impone, una provocazione: cosa nascerebbe da un rapporto forzato fra scrittura letteraria e cose del nostro tempo?   In tal senso un insieme formato da intellettuali e poeti e da una casa editrice, ripropone, in termini di sostanza e di forma, tale rapporto scrittura-cose. In termini di sostanza perché da vari anni tale insieme sicuramente si batte per un dignitoso rapporto fra scrittura e problemi reali di corpo, di mente e di spirito. In termini di forma perché l’Heliopolis Edizioni con la sua ricerca sui diversi materiali, ricchi di fisicità immediata e di sensi mediati, da tempo precorreva naturaliter tale esito… Tentiamo brevemente, portando tre esempi concreti, di investigare la risultante possibile e forse evidente di questi rapporti forzati.
  • I - SCRITTURA E AUTOMOBILI
  • “Mostrare che è possibile vivere senza l’automobile”: così finiva un bellissimo saggio di Quirino Principe inserito ne "Il rombo del motore", 1974, Vallecchi. Assieme a lui, con diversi accenti, ma con l’unica certezza di non farsi subornare mentalmente dai profeti e dai prefetti del "benessere a tutti i costi", Assunto, Ceronetti, Todisco, Quadrelli. Cosa resta di quelle visioni (allucinate) e profetiche degli anni '70? Quasi soltanto il riflusso della nostra acribia mentale. L’accettazione di tutto e di tutti. Il feticcio dei parvenus è tanto intellettualmente ovvio quanto esistenzialmente insuperabile. Copriamolo di scrittura inadatta, modernissima o antichissima, che parli incessantemente dell’uomo, drasticamente poetica, che parli dei morti. Sembrerebbe una sovrastruttura se sociologizziamo o psicologizziamo in via spicciola e fugace. Chi ha buona intelligenza ed un bastante senso di colpa si può accorgere di quanto la parola possa vendicarsi delle cose, per quel tanto (quel poco), che sarà permesso. Nessuno quindi schiacci l’occhio: la partita sembra giocata in uno scantinato, ma sono gli ampi spazi che sono messi in gioco; proprio ciò che l'uomo, (tutto detratto), ha di più caro: l’orizzonte urbano o quello naturale. Immaginatevi al centro di Milano o di fronte alla montagna sacra in Australia. Una provocazione arrivata lì con il mezzo, con l’auto, non sarebbe in più, inutile. Sarebbe invece come le pietre pettinate del tempio zen, una cosa che parla, nel tempo disfatto, con il meglio dell’uomo. Comunque un dialogo. Ed in più, rispetto all’oggetto, quest’oggetto supremo dell’arroganza non bio-degradabile, sarebbe un principio di cancellazione, poiché necessariamente la scrittura letteraria compone l’immagine al di là della superficie nella quale è iscritta, un sottile cominciamento, attraverso lo sguardo dell’uomo. Lascerà che la vita, infine, cominci a sfumare l’automobile, a polverizzarla di luce.
  •  II -SCRITTURA E VESTI
  •  Fa più dispetto l’iscrizione del Tempo, direttamente posata sui nostri corpi. Sui corpi dolci e amati l’iscrizione letteraria può essere voluta, pensosa. No. Una dichiarazione breve per sfibrati dalle troppe sfilate, dai troppi creativi? La parola si riappropria dei blue-jeans, delle magliette, dei cappotti, delle scarpe, di tutto ciò che portiamo a spasso. Su di noi, con noi. Perché in fondo non dirlo, al mannequin, che il nostro corpo è transeunte?   Senz’altro ci rimarrà male (e bene) lui, che è il solo, di fattezze umane, che sia presente ad ogni dialogo di Moda e Morte, in silenzio o nel baccano. Tanto vale non sprecare questa occasione; mentre si va ci si guarda. Chiacchiera, frase stampata, non l’iscrizione sul tempio od il motto sull’arco?   Ma la pagina succedanea, ora sappiamo, è anch’essa divorata dai vermetti, a più gambe, quelli traslucidi, sottili. Le nostre librerie ne sono piene.
  •  
  • III- SCRITTURA E CASE
  • Le case sono cose serie. Diremo tutti. E come possiamo negarlo? Qui il discorso del feticcio non vale; non ha presa. La casa non si consuma (!) La casa resta (!) La casa è un bene stabile (!) La casa proprietà, la casa isola, la casa rifugio. Casa-sezione-televisione. Oro-casa-lavoro. Chiesa-borghese-fine mese. La città greca, il Cairo informe e le sguscianti forme del Bronx. Ora immaginate al posto di migliaia di muri squallidamente grigi e cementizi di tutti i nostri “conglomerati urbani” di tutti i nostri “insediamenti abitativi”, di tutti i nostri “centri direzionali”, non, non i murales, ricchi di colore e di pathos, ricchi di vita sfregiata e confutabile, scissa ed aspirante comunicativa, ma… freddi, lucidi testi letterari, cubitali ed indiscreti… Sui muri grigi, sui tabelloni, sugli asfalti…
  • In attesa di una completa riflessione sull’intelligenza di queste nostre proposte potrà organizzarsi l’ambito della scrittura esterna. Ma senza che ci sfugga, assieme al valore ontologico in sé dell’epigrafe come veicolo del tempo e suo piegarsi a lui, anche il valore di impegno umano contro il tempo. Ed è qui, in ciò che potremmo definire oltre che scrittura esterna “nuova epigrafia”, che si esplica l’interezza del nostro compito di editori. Anche dunque nell’ambito della scrittura interna, riposta nei libri, nei rotoli, nelle tavolette, ove c’è da anni il nostro attivo operare, la “giustificazione”, attraverso le iscrizioni letterarie su materiali durevoli.
  • 2)  L’ordine cronologico delle proposte paraeditoriali dell’Heliopolis Edizioni:
  • rotoli lunghi, rotoli corti, tavolette, pagillari, scatole librarie, magliette letterarie, braccialetti letterari, spille letterarie, disegni per alta moda, autovetture, arredamento in genere, sedie sculture, “rotolo-astuccio” (brevettato), cartoline lignee serigrafate a colori, cartoline lignee incise a laser,  “bolli augurali heliopolis”, “borsello da braccio” (brevettato), “istallazioni creative” con valenza artistica, arredativa, urbanistica, sculture varie anche di grandi dimensioni...
  • 6) Il “lusus Troiae”. Il richiamo archeogico più convincente a tale rito lustrale e fondativo è attestato graffito sul ventre della oinochoe (=brocca per vino) rinvenuta nella tomba etrusca di Tragliatella (Cerveteri), Roma, Museo Capitolino, chiamata anche brocca Tittoni, dall’archeologo scopritore.   Datata a circa il 620 a.C., di produzione locale etrusca su modello protocorinzio con inciso un labirinto di tipo cretese a sette corridoi, su cui si legge la parola Truia, scritta da sinistra a destra.   Dal labirinto escono due cavalieri imberbi con ghirlande in capo, e sette guerrieri imberbi danzanti. (Nelle cerimonie successive, storicamente attestate per più secoli, erano i giovani delle famiglie più in vista.) Ci consta come la prima e più antica testimonianza del Troiae Lusus, ove gli archetipi di labirinto, nascita, fondazione, fortificazione, purificazione, danza, troia, ed i rispettivi miti e riti apotropaici sono ancora inscindibilmente connessi.
  •              mi thes athei   (= questa brocca dona Ateia);    mi velena   (= questa è Elena);      mi veleli a   (= ????);      mi amnu arce     (= Questa brocca Amno fece);      truia    (= Troia e/o ballo/cerimonia della truia).
  • (=graffiti vocalici accompagnanti i disegni. Cfr.: Iliade, XVIII, 605; Eneide, V, 545; Svetonio, Div. Aug. XLIII, 2; Plutarco, Vit. Par. Cat. 3,1; Seneca, Troades 777; al-Qazwini, Cosmografia, II, Costant.; Agàtia di Mirina, Perì tès Ioustinianoù Basileìas, II,1; etc.).    La riproduzione del graffito della brocca Tittoni è stata scelta come icona dalla Heliopolis Edizioni, sia per la sua unicità significativa che per la sua capacità evocativa.
  • 7) La citazione in greco sul cavallo è ripresa dalla tavoletta La profezia di Enea:
  • “...E’ destino, lo sapete, che Enea scampi, così non scomparirà senza discendenti e senza lasciare traccia la stirpe di Dardano. Costui è stato amato dal Cronide più di tutti gli altri figli che sono nati da lui e da donne mortali. Ormai vedete Zeus ha preso in odio la famiglia di Priamo e adesso, sì, regnerà sui troiani la forza di Enea e i figli dei figli che hanno a nascere negli anni a venire...” (Omero, Iliade, XX, 302-308.)   La profezia di Enea, tavoletta Heliopolis, (9x23 cm.), due edizioni 1999, 2005, ciascuna di 500 esemplari numerati, libretto cucito nell’edizione 2005 con carta a mano di Fabriano e stampa a torchio. Citazioni sulla grandezza di Roma, ante eventum; testi scelti a fronte, prefazione di Valerio Massimo Manfredi, traduzioni e commento di Lorenzo Braccesi. I testi interni sono di Omero, Stesicoro, Sofocle, Licofrone, Damaste ed Ellanico presso Dionigi di Alicarnasso...   La forma è ripresa, per quanto riguarda la copertura esterna in legno, da quei famosi libretti detti anche “libri del deserto” ed il riferimento di scavo consiste in due libretti del IV-V Sec. d.C., a tavolette tutte lignee con testi in scrittura greca, il primo con “un libro dei conti”, il secondo con arringhe politiche di Isocrate contro Demonico (probabile esercizio di scuola), rinvenuti nel 1988 nell’oasi di Dakhleh, nell’Egitto centro-occidentale, precisamente nella località di Ismant-el Gharab, corrispondente alla città romano-bizantina di Kellis, nell’ambito delle serie di campagne di scavi iniziate nel 1985 dalla missione canadese diretta dal Prof. Arthur John Mills. Di proprietà del governo egiziano, sono state conservate poi al Royal Ontario Museum di Toronto, per un attento studio da parte di una commissione internazionale.  

 

FOTO:

13 Cavallo del Fato vista lontana complessiva 1

 

 

10 Cavallo del Fato fronte 1

 

7 Cavallo del Fato particolare Dee 1